Foreste in cenere
Le foreste precedono le civiltà, i deserti ne sono la conseguenza”, recita un antico proverbio africano. La svolta ebbe inizio quando i primi gruppi di nomadi decisero di stanziarsi in un’area sufficientemente fertile da poterli sfamare. La storia dice che, tremila anni fa, la Mesopotamia era ricoperta di rigogliose foreste di cedri. Con il trascorrere dei secoli, quella terra si è trasformata in un territorio brullo per il continuo taglio di piante per farne carbone.
Le frequenti conferenze mondiali sul riscaldamento globale e sui disastri ecologici mirano ad aumentare in ogni abitante del pianeta il livello di preoccupazione per la gravità del fenomeno. Ma esse non sembrano angosciare Martin, un ragazzotto del Kenya. Lui continua a tagliare piante per farne carbone di legna, che poi vende lungo la strada che porta a Nairobi.
Quando una Land Cruiser si ferma e il guidatore gli chiede il prezzo, lui dice: «Mia tatu» [“trecento” (scellini), circa 3 euro]. Quello fa cenno di sì con il capo e lui carica sul cassonetto del pick-up il sacco di circa cinquanta chili. Si dà quattro pacche per liberare la T-shirt e i bermuda della nera fuliggine, prende i soldi e se ne va soddisfatto. Quell’esigua somma consentirà alla sua famiglia di comperare riso e farina per una settimana.
Il commercio di carbone di legna è una delle maggiori fonti di lavoro nelle zone rurali africane. Spesso associata al lavoro agricolo, questa attività consente un veloce guadagno. Nei paesi subsahariani, l’80% della popolazione continua a dipendere dalla legna da ardere per i propri bisogni energetici. Nel 2000, venivano consumati 470 milioni di tonnellate di carbonella per cucinare e riscaldarsi. Da allora, la cifra non ha fatto che aumentare. Ma boschi e foreste non hanno smesso di “allontanarsi” dai villaggi.
In Kenya il taglio di alberi per farne carbone da vendere è regolato da leggi molto severe. Una famiglia può produrne solo quel tanto che basta al proprio fabbisogno domestico. Ma Chiwaya Njengi, consulente di diversi progetti agricoli in una delle aree più colpite da questa piaga, si lamenta: «I politici continuano a ripetere che il commercio di carbonella è illegale, ma poi non fanno niente per fermarlo. Chi campa su questo commercio non smetterà certo l’attività, se non ha un’alternativa migliore. L’alto tasso di disoccupazione nelle zone rurali costringe molti gruppi umani a continuare questo scempio ecologico: spesso è l’unico modo che hanno per tirare a campare. E così, il processo di desertificazione non conosce sosta».
Una volta abbattuto, un albero viene fatto a pezzi. Questi sono ammucchiati, ricoperti di terra e fatti ardere a fuoco lento. Dopo due o tre giorni, la terra è rimossa e il tronco carbonizzato viene frantumato. I pezzi più consistenti sono messi in sacchi e caricati su camion, pulmini o auto private, che li trasportano nelle città e nei villaggi. Lo scarto è molto: si calcola che il 15% del carbone ottenuto con questo metodo non venga usato, perché ridotto o in polvere o in frammenti troppo piccoli per essere venduti. Il prezzo varia a seconda delle stagioni. In Kenya, durante le piogge, quando le strade che attraversano boschi e foreste sono quasi impraticabili, il costo schizza alle stelle. Tra gennaio e marzo, invece, cioè durante la stagione secca, la produzione aumenta, la concorrenza è frenetica e il prezzo cala sensibilmente.
La carbonella in Africa viaggia molto. Spesso oltrepassa i confini nazionali. Da quando il Rwanda ha vietato la produzione di carbone di legna nel 2004, il commercio nella vicina Repubblica democratica del Congo è duplicato. Con conseguenze molto tragiche: ben 150 guardaboschi congolesi, incaricati di arrestare il traffico, sono stati uccisi; nove dei famosi gorilla di montagna sono stati trucidati. Il belga Emmanuel de Mérode, antropologo, ecologista ed esperto di primati, direttore della WildlifeDirect e autore, tra l’altro, di Virunga: la sopravvivenza del primo parco nazionale d’Africa, è categorico: «Il divieto governativo ha costretto i rwandesi a cercare carbone di legna in un altro paese, e l’area più vicina in cui trovare questa risorsa è il Parco nazionale dei Monti Virunga. I guardaboschi che lavorano per la WildlifeDirect rischiano la vita ogni giorno per difendere i gorilla e la preziosa biodiversità della regione. Le nostre numerose accuse contro ufficiali militari, anche rwandesi, coinvolti nel traffico illegale sono servite a ben poco». A Goma, la capitale del Nord Kivu (a 1.000 km di distanza da Kinshasa), gli amministratori congolesi confessano di non avere alcun potere sugli ufficiali militari e i leader di diversi gruppi di ribelli armati operanti nella zona.
Anche in Somalia il taglio indiscriminato di alberi per fare carbone di legna ha creato deserto. Siad Barre, presidente dal 1969 al 1991, aveva vietato il traffico di carbonella. Il divieto fu riconfermato dal signore della guerra Farah Aidid fino al 1996. Poi, con l’arrivo al potere del figlio di Farah, Hussein Aidid, le restrizioni sparirono e i vari clan ripresero il commercio per rispondere alla sempre crescente domanda di carbone di legna da parte degli stati del Golfo. Oggi dai porti di Mogadiscio e Chisimaio partono regolarmente navi stracolme di sacchi di carbone. È un business molto redditizio: un sacco, pagato pochi spiccioli nell’entroterra, può toccare i 4 dollari lungo la costa e superare i 10 dollari su un mercato arabo.
Tra gli stati dell’Africa meridionale, è il Malawi a detenere il primato del tasso di deforestazione: dal 2,8 al 3,5% ogni anno. Dei 13,6 milioni di abitanti, solo l’8% ha accesso all’elettricità; circa il 60% vive con meno di un dollaro al giorno. Per la stragrande maggioranza il carbone di legna rappresenta l’unico “carburante” per cucinare e scaldarsi. Il disastro ecologico è sotto gli occhi di tutti: il paesaggio (un tempo tra i più belli del continente) si deteriora, le piogge diminuiscono, i corsi d’acqua si asciugano, il livello della falda acquifera si abbassa e le centrali idroelettriche lavorano a regime ridotto.
In Kenya, va registrata un’iniziativa degna di plauso: la Chardust Ltd ha sviluppato una tecnica di riconversione degli scarti della lavorazione di biomasse (quali i resti della canna da zucchero, segatura...) per trasformarli in “mattonelle”, che possono essere usate in sostituzione della carbonella. La ditta ritira anche la polvere di carbone (il 15% di cui si parlava sopra), che comprime in blocchetti e rimette sul mercato a un prezzo inferiore a quello del carbone. È certamente un risparmio di energia (vengono vendute ogni mese 200 tonnellate di “carbone alternativo”), ma... è soltanto una goccia nel mare.
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