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Taranto, periferia dell’Ilva

Nella città dei due mari un comitato promuove un referendum sulla chiusura dello stabilimento siderurgico. Ma sull’iniziativa molti sono i dubbi: come risponderanno i cittadini? Cosa accadrà in caso di vittoria dei sì? E se invece vincesse il no?.
8 novembre 2008
Stefano De Pace °
Fonte: LEFT - avvenimenti - settimanale dell'altritalia
http://www.avvenimentionline.it

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Agli inizi dello scorso ottobre, il Tar di Lecce ha accolto il ricorso presentato dal Comitato cittadino “Taranto Futura” in merito alla richiesta rivolta al Comune pugliese di avviare le pratiche necessarie a indire un referendum consultivo sulla chiusura dell'Ilva.

La decisione chiude così una vicenda che, cominciata con il ricorso di Taranto Futura al Tar nel dicembre 2007, ha sollevato – e continua a farlo anche ora – le più diverse reazioni nell'opinione pubblica tarantina, nelle istituzioni, e tra le file degli stessi movimenti ambientalisti locali che da anni operano sul martoriato territorio della Città dei Due Mari.

Al di là delle polemiche, due sono i fatti: il primo è la natura del referendum, ossia consultivo, con effetti pratici molto vicini allo zero. Lo dimostra il referendum svoltosi a Venezia per la chiusura del petrolchimico: i “si” sono stati ampiamente superiori a chi era contrario alla chiusura, ma l’impianto è ancora lì. Il secondo elemento è che la città di Taranto detiene, con sconforto e triste consapevolezza, il primato della città più inquinata di Italia e forse anche d'Europa.

Oltre all’Ilva, la città pugliese ospita altri otto impianti industriali, che hanno fatto inserire a buon diritto la città tra le “aree ad elevato rischio di crisi ambientale” con Decreto del Presidente della Repubblica del novembre 1990. La questione ambientale è acuita inoltre da una carenza normativa a livello nazionale, in quanto il Codice dell'Ambiente, che regolamenta le emissioni di inquinanti, è per dirla in termini eufemistici di manica larga nei limiti imposti alle industrie. Ma forse, il problema più grande per la città è la mancanza di alternative economiche reali in un territorio che da decenni vive un legame di sudditanza estrema con lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa. Un legame che si traduce in ricatto occupazionale per la stragrande maggioranza dei cittadini; un legame che, di fatto, colloca Taranto alla periferia dell'Ilva, estesa per due volte e mezzo il territorio della città.

«Chi ha davvero il polso dell'opinione pubblica a Taranto? Chi ce l'ha? Taranto Futura ce l'ha?». Francesco Maresca è un ex dipendente Ilva, protagonista di lotte operaie importanti negli anni Settanta e ancora oggi impegnato sul territorio tarantino nelle battaglie per il diritto alla sicurezza sul lavoro (altro punto dolente della fabbrica) e per la tutela dell'ambiente.

«Taranto è una città strana – continua Maresca – e captare gli umori della gente è estremamente complicato». La percezione dell'Ilva presso i tarantini cambia, infatti, in base a fattori molteplici: esiste la cittadinanza attiva, i numerosi gruppi ambientalisti che negli ultimi tempi sono proliferati come funghi e che, pur nella diversità di richieste e di modalità di conduzione della battaglia, sono unanimi nel contrastare lo status quo della gestione dell'industria; esiste la gente comune, che pur consapevole dell'ormai innegabile esistenza di una questione ambientale, si porta dietro i geni di quella “molle Tarentum” di oraziana memoria e fa della rassegnazione al corso degli eventi uno dei principali fattori identitari; esistono poi gli operai, che vivono un rapporto di odi et amo con la fabbrica, che dà il pane, certo, ma può toglierti molto altro. «L'idea del referendum è stata calata a freddo su una città che sta morendo lentamente - continua Maresca - In questo senso, l'iniziativa del Comitato Taranto Futura non può che classificarsi come estemporanea. Ed è una presa di posizione errata, perché non tiene conto del tessuto sociale di questa città.

Il Comitato referendario potrà anche trovare l'appoggio e la solidarietà di tanta gente, e tra questi ci saranno gli ex-dipendenti, o coloro i quali hanno perso un figlio, il marito, o che si sono ammalati per aver lavorato in fabbrica. Ma poi ci sono gli operai, e lì sta il punto. Perché l'obiettivo principale, e allo stesso tempo la difficoltà maggiore, sarà proprio smuovere gli operai». E gli operai, all'Ilva di Taranto, sono tanti: 13.630 per la precisione, di cui circa la metà tarantini; e con i dipendenti delle ditte che lavorano nell'indotto, si arriva a circa 18.000 unità. «Mobilitare i lavoratori non è cosa da poco. Non lo dico solo perché ho lavorato trent’anni in fabbrica - racconta Maresca - lo dico perché so come ragionano gli operai, quelli costretti dalle circostanze a lavorare lì dentro, che se avessero la possibilità reale di una alternativa scapperebbero volentieri. L’alternativa, oggi, sarebbe quella di “rifare le valige”. Quelli che hanno proposto il referendum per la chiusura dell’Ilva, quante volte sono andati davanti alla fabbrica a parlare con gli operai? Se fossero andati, probabilmente, avrebbero assaggiato la cruda realtà di persone in carne ed ossa, con le loro paure, quelle di ammalarsi, di infortunarsi ma anche quella di rimanere senza lavoro, con la famiglia da tenere su e il fitto o il mutuo da pagare».

Ma a mobilitare i lavoratori non ci penseranno i sindacati? Francesco Maresca è scettico. «Attualmente, i sindacati hanno perso il loro carisma, non sono più rappresentativi. Diciamo che la loro attività consiste principalmente nel mantenere un certo livello di tesseramento che viene spacciato per sindacalizzazione. Ma la sindacalizzazione è altro. E in più è cambiata la generazione della classe operaia».

È cambiata la generazione, ed è cambiata la normativa sul lavoro: la precarietà è entrata anche nei reparti delle fabbriche attraverso i contratti a termine. Anche qui, il lavoro è passato da diritto a “grazia ricevuta”. Si accetta tutto oggi per avere la speranza di lavorare domani; come si può pensare, sotto la spada di Damocle di un mancato rinnovo di contratto, di pretendere addirittura la tutela di diritti sia pure incomprimibili come quello a un ambiente sano, alla salute, alla sicurezza? «In realtà si potrebbe pure, in presenza di un'alternativa economica e occupazionale fondata su basi reali. Ma ad oggi quest'alternativa non esiste». Eppure uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori della chiusura dell'Ilva è la rinascita del territorio tarantino sulle basi del turismo, sul vicino modello leccese. «È inutile fantasticare sulle opportunità turistiche – ribatte Maresca - Qualcuno ci dica quale società vive solo ed esclusivamente di turismo. Prendiamo il caso dell'Emilia Romagna: anche lì, nonostante Rimini, Bellaria, e via dicendo, esiste un sistema industriale potentissimo. E poi di turismo non può vivere un'intera popolazione: di turismo vivono i padroni. Per la gente comune c’è il lavoro stagionale, pochi mesi all'anno. E non mi pare una prospettiva sufficientemente concreta».

Alcuni esponenti politici hanno prospettato per Taranto un futuro alla Bilbao, fondato quindi sulla riconversione industriale, sul turismo, la cultura e la ricerca tecnologica. Possibile, certo. Ma in tempi non rapidi. «A Bagnoli, stanno ancora bonificando, e a lavorare ci sono solo alcune decine dei vecchi lavoratori dell’Ilva. Il resto, se non fosse stato per il prepensionamento, sarebbe ora in cassa integrazione o impegnato nei “lavori socialmente utili”. A Cornigliano, tre anni fa, è stata chiusa l'area a caldo – che costituisce la parte più inquinante della fabbrica – solo perché l’altoforno aveva finito l’ultima campagna produttiva e per il gruppo Riva (proprietario dell’Ilva, ndr) c’erano due possibilità: rifare l’altoforno o chiuderlo. Riva ha fatto la seconda scelta, ricevendo una barca di soldi e contemporaneamente è stata aumentata la portata produttiva di quella dello stabilimento di Taranto». Nelle intenzioni del Comitato proponente, il referendum dovrebbe prospettare due alternative: la chiusura dello stabilimento tout-court o solo dell'area a caldo. «Taranto non è Cornigliano né Trieste. In uno stabilimento della grandezza dell'Ilva di Taranto, se Riva venisse ipoteticamente obbligato a chiudere l'area a caldo - che significa Area Ghisa e Area Acciaieria - praticamente dovrebbe chiudere l'intero stabilimento».

Come già accennato, Taranto ospita altri otto impianti ad alto rischio d’incidente rilevante. Perché allora un referendum soltanto sull'Ilva, che certo presenta gli aspetti più macroscopicamente problematici di un rapporto ormai deteriorato tra qualità della vita e sviluppo economico non ecocompatibile? Il motivo non si sa. Quello che si sa è che invece “altre associazioni – fa presente Maresca - attive da anni sul territorio e che al loro interno hanno sviluppato competenze tecniche di altissimo livello, hanno scelto da tempo un'altra strada”.

E attualmente la strada seguita dai i gruppi ambientalisti storici è quella dell'Autorizzazione Integrata Ambientale, all'interno del cui iter si sta svolgendo un duro corpo a corpo tra le posizioni dell'industria e del governo centrale e quelle delle istituzioni locali e della cittadinanza attiva. Una strada contestata da Taranto Futura, che è ricorsa al Tar anche per impugnare l'Accordo di Programma sottoscritto dall'Ilva e dalle Istituzioni. «Al di là del referendum, il primo passo di Taranto Futura è stato rivoltare tutto il lavoro fatto dalle altre associazioni. Invece, la forza in questa battaglia per l'ambiente – afferma Maresca – sta da un lato nell’organizzare realmente i lavoratori. Dall’altro, nel battersi certamente contro gli accordi insoddisfacenti, puntando sull’auto-organizzazione dei lavoratori. Noi in passato abbiamo perso molte battaglie rispetto ad un certo tipo di industrializzazione; con i chiari di luna che stiamo vedendo adesso non penso ci sia un padrone disposto a spostare un centesimo verso il sud».

I chiari di luna a cui Francesco Maresca si riferisce sono evidenti. È dell’estate scorsa l’annuncio dell’entrata del Gruppo Riva nella cordata CAI con una fish di cinquecento milioni di euro; e più recenti sono le dichiarazioni del nostro governo centrale in merito al pacchetto europeo che fissa le misure per il post-Kyoto. Le ragioni dell’economia e di un certo tipo di sviluppo industrialista, più attento al profitto che alla salvaguardia di diritti fondamentali come salute e ambiente, paiono attualmente prevalere nelle intenzioni dell’imprenditoria e del Governo stesso. La speranza di Taranto non può essere riposta solo nelle mani degli Enti locali, che fino ad ora conducono la loro battaglia fiancheggiati dalle associazioni ambientaliste che lavorano per modificare la legge nazionale e per imporre all’Ilva, all’interno dell’AIA, limiti più stringenti per quanto riguarda le emissioni e processi produttivi più rispettosi della sicurezza dei lavoratori e della salute pubblica.

La strada dell’AIA, che vuole portare l’Italia – e Taranto – in Europa, sembra essere quindi non la più blanda, come vogliono i suoi detrattori, ma la più realista, la più efficace, e soprattutto l’unica che potrà effettivamente portare a un cambiamento sostanziale.

Note: ° Ha collaborato al pezzo Maria Giovanna Bolognini.

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