Ofanto, il parco rubato
La vicenda del Parco regionale del fiume Ofanto, «l’unico vero fiume pugliese» cantato da Orazio, è emblematica sotto molti punti di vista. L’intreccio di posizioni tra ambientalisti, mondo contadino, istituzioni locali, mondo politico e speculatori ha assunto, in questa lunga storia, l’immagine esatta degli ostacoli che il Mezzogiorno continua a incontrare sul versante di uno sviluppo economico sostenibile e libero dalle fauci dell’illegalità.
Per la verità già pochi giorni prima, nel corso di un comizio del Popolo delle Libertà, gli agricoltori avevano fatto sentire la propria voce nella stessa piazza; ma nonostante in Consiglio regionale, all’atto dell’approvazione del Parco regionale dell’Ofanto nel dicembre 2007, i partiti del centro-destra si fossero espressi con «un’astensione non di contrarietà ma di attesa», dunque con atteggiamento non ostruzionistico, dinanzi ai rumori della piazza i dirigenti pugliesi del PdL non avevano avuto remore a far salire sul palco del loro comizio i rappresentanti dei contestatori e a dichiarare di far proprie le loro richieste di riperimetrazione dei confini del Parco. Una riperimetrazione che puntava, in realtà, senza mezzi termini all’affossamento pressoché totale dell’intero Parco fluviale, essendo la zona a ridosso dell’alveo del fiume già protetta, benché solo sulla carta, in quanto area SIC (sito d’importanza comunitaria) dal 2002.
Nemmeno l’indicazione, pur generica, in una legge regionale del 1997 figlia della Direttiva Habitat 92/43 della Comunità Europea, della foce dell’Ofanto come area naturale protetta, destinata con un ritardo di dieci anni a diventare Parco regionale, servì a mobilitare la cittadinanza contro coloro, agricoltori e operatori edili, che da almeno due decenni contribuivano a saccheggiare l’unico vero polmone naturalistico della zona. Si dovette così attendere l’intervento della magistratura tranese, da sempre particolarmente attenta ai reati ambientali, come dimostrano anche inchieste giudiziarie più recenti.
Nel 2003, per la prima volta in Italia, il gip del tribunale di Trani, Michele Nardi, aveva provveduto al sequestro di ampi tratti dell’alveo di un fiume, l’Ofanto appunto, accogliendo i riscontri delle indagini coordinate dal pm Antonio Savasta nell’inchiesta “Fiume rubato”. Secondo l’accusa, i danni perpetrati da ben 115 agricoltori di Barletta e Canosa avevano contribuito in maniera determinante al dissesto idrogeologico di 200 ettari dell’area protetta. In particolare, le accuse variavano dal disboscamento e occupazione abusiva dei terreni, alla costruzione di tendoni e opere edili senza alcuna autorizzazione (tra cui una piattaforma in calcestruzzo che attraversava in senso trasversale al deflusso delle acque), dalla coltivazione intensiva in aree demaniali di uva e ortaggi, allo sversamento dei reflui contaminati da concimi chimici nel fiume, le cui acque venivano poi riutilizzate per l’irrigazione delle stesse coltivazioni. Solo in seguito alla missiva indirizzata al settore Genio Civile della Regione Puglia dal Procuratore della Repubblica di Trani, Nicola Barbera, nel giugno 2003, si invitava l’ente «a predisporre e far attuare tutti gli atti amministrativi necessari per la riacquisizione da parte della regione Puglia di tutti i fondi occupati ed alla remissione in pristino dello stato dei luoghi interessati da una grave situazione di dissesto idrogeologico derivato dalla distruzione delle colture boschive riparali». Il Genio Civile, per mezzo dell’assessorato regionale ai Lavori pubblici, decide finalmente di agire, e nel novembre ordina entro 60 giorni lo sgombero dei terreni demaniali dell’alveo del fiume e la distruzione delle colture, oltre al ripristino delle condizioni originarie. Ma alla scadenza del termine ultimo, il Genio Civile torna in sopralluogo sull’alveo del fiume, e scopre che nulla è cambiato. È così che il 31 marzo 2004 la procura tranese convoca gli interessati per gli interrogatori di rito, mentre il 25 gennaio 2005 comincia a tutti gli effetti il processo a carico di 115 persone, tra i quali 92 agricoltori, accusati di aver «arbitrariamente occupato» il letto del fiume, «pur essendo la zona di interesse comunitario e quindi da considerarsi area naturale protetta».
È sulla spinta di questi avvenimenti che si riapre il dibattito sulla realizzazione del Parco regionale del fiume Ofanto, la cui istituzione era già genericamente indicata dalla prima menzionata legge regionale del 1997, ma bloccata dall’inadempienza degli enti locali, a partire dai comuni interessati (in particolare Barletta, Canosa di Puglia, Margherita di Savoia), che oltre a non attivare controlli di polizia municipale sui terreni abusivamente occupati e depredati, non hanno svolto in quegli anni cruciali alcuna attività concreta d’impegno per la realizzazione del Parco: è evidente che i due comportamenti rientrano a far parte di un’unica finalità, quella di far finta di nulla per continuare a cementificare impunemente all’interno dell’area protetta. Nel 2000, la Provincia di Bari comincia lo studio per la perimetrazione dell’area protetta indicata dalla legge regionale del 1997 ai fini della creazione di un vero e proprio Parco regionale. Il gruppo di lavoro, guidato dal prof. Borri del Politecnico di Bari, amplia il territorio ricadente nell’area protetta dalla sola foce del fiume a tutto il territorio pugliese nel quale scorre il fiume Ofanto, in modo da operare una protezione più efficace dell’area. È sempre questo gruppo di lavoro a porre le basi per l’istituzione di un’area SIC (sito d’importanza comunitaria) in un’area di riserva integrale di circa 10.000 ettari, quella, per intenderci, più a ridosso dell’alveo del fiume. Ottenuta la relazione da parte del gruppo di lavoro, il presidente della Provincia di Bari, Marcello Vernola, eletto con una coalizione di centro-sinistra prima di diventare, nel 2004, europarlamentare di Forza Italia, convoca una conferenza di servizio con gli 11 comuni ricadenti all’interno dell’area SIC. Saranno pochissimi, tuttavia, i rappresentanti dei comuni a presentarsi alla riunione. Il presidente della Provincia invia così il piano di studio direttamente in Regione. Nell’agosto del 2002 una legge regionale si limita a recepire il piano elaborato dal gruppo di lavoro della provincia di Bari selezionando ufficialmente l’area come sito d’importanza comunitaria (SIC): l’operatività del sito è tuttavia confermata definitivamente soltanto con l’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 21 luglio 2005. L’indicazione dell’area SIC proposta dalla regione Puglia nel 2002 (in cambio di sostanziosi contributi economici ricevuti dall’Unione Europea per la conservazione ambientale dell’area), pone le basi per l’apertura dell’inchiesta della Procura di Trani, che fa leva sull’equiparazione dell’area SIC a un’area parco, rendendo così completamente fuori legge gli avamposti abusivi degli agricoltori a ridosso del fiume. Pur recependo le indicazioni del piano di lavoro provinciale sull’area SIC, la Regione non dà tuttavia seguito alla perimetrazione proposta dallo stesso gruppo di lavoro per la creazione del Parco regionale, sul quale calerà il silenzio per tutti gli anni della giunta regionale guidata da Raffaele Fitto.
L’operatività sul fronte ambientale dei comuni dell’area protetta in questi anni è sostanzialmente nulla. Nel settembre 2003, pochi giorni dopo i provvedimenti di rinvio a giudizio, il presidente della provincia Vernola e il sindaco di Barletta Salerno effettuano un sopralluogo sui luoghi posti a sequestro dalla procura tranese con telecamere e giornalisti al seguito. Le condizioni raccontate da un articolo della «Gazzetta del Mezzogiorno» del giorno successivo, il 5 settembre, sono lo specchio del degrado: «Rampe di accesso ai luoghi più remoti dell'alveo fluviale, strade abusive che lo attraversano, argini manomessi, decine e decine di ettari coltivati e il fiume assediato, stretto in poche decine di metri. Scomparse le anse, le golene, il bosco ripariale ed intere isole fluviali. [...] Un altro ponte abusivo fu realizzato poco più a valle, nella zona di Canne della Battaglia, tempo fa ma fu divelto dalle piene invernali. Se dalla zona mediana si procede verso la foce le aggressioni al fiume diventano più frequenti con le rampe di accesso che sfondano l'argine in più punti per garantire l'accesso ai vigneti realizzati fin sulle rive del fiume. Il bosco ripariale è ormai ridotto a ben misera cosa e nel poco spazio che gli è stato concesso si possono notare rifiuti che vanno dagli elettrodomestici alla carcasse delle auto abbandonate dai ladri. Con una situazione del genere un'eventuale piena di portata eccezionale potrebbe avere gravissime conseguenze su tutta la zona circostante il fiume». Vernola e Salerno, tuttavia, anziché prendersi la propria parte di responsabilità per i mancati controlli, si limitano a condannare l’immobilismo della Regione. Fanno testo le parole del sindaco Salerno, la cui amministrazione aveva pochi anni prima snobbato il piano di lavoro elaborato dal gruppo di lavoro della Provincia: «Esistono idee e progetti che mirano a salvaguardare il fiume. Non si deve far altro che realizzarli».
Il processo a carico dei 115 tra agricoltori e complici giunge a termine nel marzo del 2006. La pubblica accusa richiede dai tre ai quattro mesi di reclusione per molti degli imputati, alcuni dei quali accusati anche di associazione a delinquere, ma, soprattutto, richiede la restituzione dei fondi illecitamente occupati, la loro riduzione in pristino e la confisca delle colture. Il giudice monocratico del Tribunale di Barletta, nella sentenza del 10 marzo 2006, non tiene conto delle richieste di natura penale e si concentra sul recupero del territorio: 90 dei 92 agricoltori vengono condannati a cinquecento euro a testa di multa, alla confisca delle piantagioni, alla restituzione al demanio dei fondi abusivamente coltivati dopo aver ripristinato lo stato dei luoghi e al risarcimento pari al 50 per cento del danno arrecato. L’altra metà dei risarcimento, infatti, è a carico degli stessi enti locali [comuni, province e regione] che non avevano attivato negli anni passati alcun tipo di controllo, permettendo che avvenisse la coltura di terreni demaniali e il conseguente scempio ambientale. Eppure quegli stessi enti locali si erano posti come parte civile nel processo, insieme alla Regione Puglia, all’ufficio regionale del demanio e alle associazioni ambientaliste che per prime avevano denunciato gli abusi. A tutt’oggi il procedimento giudiziario è fermo presso la corte d’appello di Trani, ma il sopraggiunto indulto ha reso nulle le disposizioni della sentenza di primo grado, rendendo in sostanza inutile il proseguimento del processo di secondo grado. A tutt’oggi gran parte di quei contadini occupa ancora abusivamente le aree a ridosso del fiume.
Dalla metà del 2006, tuttavia, l’assessorato all’Ecologia della Regione Puglia, che dopo la vittoria di Nichi Vendola alle elezioni regionali del 2005 è guidato da Michele Losappio (PRC), convoca una serie di Conferenze di servizi con gli enti locali e gli attori interessati (associazioni di agricoltori, forze imprenditoriali, consorzi di bonifica, comunità montane) per imprimere un deciso passo in avanti nella formazione del Parco regionale, che avrebbe una volta per tutte sancito l’inviolabilità dell’area dinanzi alle aggressioni di diverso genere (dalla speculazione edilizia all’occupazione abusiva delle aree golenali, dall’inquinamento delle acque che rende il fiume una fogna a cielo aperto alla distruzione dei boschi riparali) avvenute per decenni. Il percorso viene trova un primo compimento col Disegno di legge della giunta regionale n. 14 del 21 maggio 2007, per l’istituzione «del parco regionale “Fiume Ofanto”». In base al suddetto Disegno di legge, il parco viene diviso in due zone, una zona 1 (estesa per 10.360 ettari) di rilevante interesse naturalistico e di protezione dell’avifauna esistente e di passo, coincidente in pratica con le aree golenali, e una zona 2 (estesa per oltre 16.000 ettari) di interesse naturalistico, paesistico e storico-culturale che prevede un modello di promozione sostenibile per il territorio e una riduzione degli impatti ambientali delle attività antropiche. Il plauso delle associazioni ambientaliste al Disegno di legge, tuttavia, non fa venir meno gli ostacoli al percorso per l’approvazione definitiva del provvedimento in consiglio regionale e per l’effettiva attuazione del parco. Nei paesi del costituendo parco si agitano correnti di diversa provenienza volte a ostacolare il percorso finale elineato dalla Regione.
Proprio pochi mesi dopo l’istituzione del parco si manifesta il problema principale che negli anni precedenti ne aveva rallentato il percorso: malgrado la presenza di un’area protetta ricadente nel territorio del Piano regolatore di una città, che avrebbe dovuto fermare lottizzazioni selvagge all’interno di quest’area, nel novembre 2007 iniziano i lavori di costruzione di un imponente complesso di quattromila appartamenti, con 450 mila metri cubi di cemento, nel territorio di Margherita di Savoia, a meno di 300 metri dalla foce del fiume Ofanto, in un terreno ricadente in parte all’interno dell’area SIC e senza l’autorizzazione dell’Autorità di bacino.
Il percorso per l’istituzione del parco va tuttavia avanti, e arriva il 5 dicembre 2007 all’approvazione definitiva in Consiglio regionale, con il voto favorevole della maggioranza e l’astensione, come si è già detto, dell’opposizione. Va sottolineato come prima dell’approvazione in Consiglio regionale le uniche osservazioni sulla perimetrazione del parco erano state avanzate dai comuni di Spinazzola e di San Ferdinando di Puglia. Né il comune di Barletta né nessun altro comune interessato propone, nelle conferenze di servizi precedenti l’approvazione definitiva, dunque fino al dicembre 2007, alcuna riperimetrazione. Ne è dimostrazione il commento a caldo, a margine della seduta consiliare, del consigliere regionale di maggioranza Giuseppe Dicorato (Pd), che è anche consigliere comunale e importante figura della politica barlettana degli ultimi vent’anni. Dicorato sottolinea infatti con entusiasmo «il coraggio e la determinazione» dell’assessore regionale all’ecologia nella concertazione della legge che «ridà dignità a un fiume saccheggiato e avvelenato». A favore del provvedimento vota anche il secondo consigliere regionale eletto a Barletta, Giuseppe Cioce (Pd).
Il 2008 si presenta perciò come l’anno decisivo per la composizione del consorzio temporaneo degli enti locali che dovrà presentare una bozza di statuto per poi giungere all’istituzione dell’Ente gestore, atto finale per l’operatività del parco regionale. Ma nonostante alcuni primi riscontri positivi nel mese di gennaio, già da febbraio comincia a delinearsi pubblicamente e con manovre di pressione più coperte, una variegata e ampia coalizione di forze che sempre più apertamente esprime il proprio dissenso sulla realizzazione del parco dell’Ofanto. La ricostruzione degli articoli di stampa rende chiaro come, tra i sindaci dei comuni interessati, fino a gennaio non fossero presenti, almeno ufficialmente, reali preoccupazioni sul percorso da seguire per la definitiva istituzione del parco. Il 28 gennaio nella sala consiliare di Canosa di Puglia si riuniscono comuni e province per l’istituzione del Consorzio temporaneo di gestione. In quell’occasione tutti i rappresentanti degli enti locali firmano l’adesione al finanziamento europeo (fondi POR Puglia 2000-2006) di 1,5 milioni di euro per gli interventi di recupero e la valorizzazione del Parco regionale dell’Ofanto. Nelle parole del sindaco di Canosa, Francesco Ventola, non traspare alcun dubbio sulla realizzazione del parco, e lo stesso comune di Canosa si impegna come comune capofila per l’attivazione delle procedure di acquisizione del finanziamento europeo. Dice Ventola: «Il progetto nasce dalla necessità di tutela del fiume Ofanto, quale maggiore asta fluviale sfociante nel Mare Adriatico a sud del Fiume Reno, ma anche dalla estrema fragilità del suo sistema». Subito dopo la sottoscrizione dei finanziamenti europei, però, tutto il processo vedrà una brusca e inaspettata interruzione.
Il 15 febbraio nella prima conferenza di servizi l’assessorato regionale concede ai comuni gli strumenti necessari per l’elaborazione dello Statuto dell’Ente gestore del parco. Una nuova riunione viene convocata due settimane più tardi, a Barletta, ma già cominciano a serpeggiare i primi malumori tra i sindaci presenti. Pubblicamente, i primi a scoprirsi sono agricoltori e cacciatori. Gli agricoltori, in particolare, pur avendo partecipato alle conferenze di servizi precedenti l’approvazione della legge regionale, criticano soltanto ora l’eccessiva perimetrazione del parco (in realtà, è ampio appena un terzo del contiguo Parco regionale dell’Alta Murgia) e gli eccessivi divieti posti dalla legge regionale sulle attività agricole. Su quest’ultimo punto, tuttavia, la stessa legge regionale e i successivi chiarimenti dell’area tecnica dell’Ufficio Parchi della Regione non lasciano dubbi: gli unici divieti espressi nel testo di legge riguardano il taglio della vegetazione spontanea (ma non la raccolta di funghi), lo scarico di sostanze inquinanti nel fiume, le costruzioni non autorizzate e quelle superiori al 15% di quelle già esistenti (le ristrutturazioni conservative sono quindi concesse), la realizzazione di discariche e di altri impianti a vario titolo inquinanti. È invece concessa la normale prosecuzione delle attività agricole (aratura, concimazione, trattamenti chimici, raccolta), sia con colture esistenti sia con colture diversificate, così come sono fatte salve le attività silvo-pastorali avendo cura di trovare tecniche a basso impatto ambientale, come richiesto espressamente dalle direttive della Comunità europea. Dinanzi a queste regole precise, sancite per legge, che molto più dei paventati danni economici condurrebbero gli agricoltori della zona a una produzione di qualità e anzi con maggiori ricavi, oltre che con un proprio marchio di garanzia (a fronte di una produzione attuale in grande quantità ma a basso prezzo, che porta ogni anno alla distillazione soprattutto di uva da tavola), le amministrazioni comunali preferiranno, da questo momento in poi, accogliere senza batter ciglio tutte le richieste avanzate dalle associazioni di agricoltori senza spendere una parola per informare la cittadinanza sull’importanza di un’ampia perimetrazione del Parco regionale e per giustificare il proprio precedente operato.
I termini della questione, infatti, finiscono per perdersi tra le proteste urlate degli agricoltori, che il 25 febbraio nella sala consiliare di Canosa incontrano il sindaco Francesco Ventola (PdL). Più di due mesi dopo l’approvazione definitiva della legge regionale (passata per uno studio tecnico e partecipato di oltre un anno), e a meno di due mesi di distanza dalle elezioni politiche, il sindaco di Canosa che un mese prima aveva posto le basi per l’acquisizione dei fondi europei per il parco regionale, ora, al cospetto degli agricoltori, afferma: «Sulla istituzione del parco naturale regionale del fiume Ofanto, le diverse Amministrazioni locali stanno valutando ogni possibile percorso che possa portare al superamento dei problemi indotti dai vincoli della legge regionale 37/2007. [...] le amministrazioni dei comuni interessati stanno valutando le iniziative da assumere per la sospensione dei vincoli rivenienti dalla istituzione del Parco ed una sua complessiva ridefinizione», pur accelerando, continua Ventola, le procedure per la costituzione del Consorzio di Gestione, al quale sono affidati i finanziamenti europei. E ancora: «siamo convinti che un parco regionale, anziché nazionale, produce sicuri effetti condizionanti e negativi sugli operatori produttivi». Il voltafaccia del sindaco di Canosa non è, tuttavia, l’unico. Il 5 marzo l’assessore all’ambiente del comune di Barletta, Caterina Di Bitonto (IdV), chiede un «momento di riflessione attenta» ai fini di ripensare la riperimetrazione del parco, in modo da escludere aree «in cui le pratiche colturali hanno da tempo alterato l’ambiente naturale e che pertanto non sono più caratterizzate da pregio naturalistico». Un ragionamento, questo, che se applicato riguarderebbe anche le aree golenali a ridosso dell’alveo del fiume, oggetto dell’inchiesta della procura tranese, e che condurrebbe a un totale affossamento del parco, più che a una semplice riperimetrazione delle aree più esterne. Scendono dunque in campo tutte le associazioni di categoria degli agricoltori, le stesse che erano state coinvolte nel processo di perimetrazione del parco prima dell’approvazione della legge regionale. Il 17 marzo Cia e Acli organizzano un incontro pubblico. Negli stessi giorni, gli aderenti alla Coldiretti dichiarano lo stato di agitazione e promettono «azioni clamorose». Il 25 marzo è il giorno della contestazione a Nichi Vendola, al quale viene impedito di tenere un comizio elettorale.
Il giorno dopo, 26 marzo, il consigliere regionale del PdL Nino Marmo, ex assessore regionale all’agricoltura, scrive: «La pubblica contestazione di Vendola ad opera degli agricoltori barlettani è stata una sacrosanta manifestazione di protesta nei confronti dell’assurda, sterminata perimetrazione del Parco dell’Ofanto. Perimetrazione che in realtà configura una pesantissima confisca generalizzata ai danni del mondo delle campagne di fatto privato delle sue fonti di lavoro e di sostentamento da una forsennata parco-mania, dietro la quale si nasconde l’avversione di sempre dei comunisti a quel diritto fondamentale di libertà ed a quell’insostituibile fattore di sviluppo che è la proprietà privata. Questa vigorosa presa di coscienza degli agricoltori barlettani è servita anche a mettere in luce l’autentico colpo di mano che con tale operazione il Governo più comunista del mondo libero ha posto in essere nei confronti di un territorio le cui rappresentanze istituzionali (come ha confermato tra gli altri il sindaco di Canosa) sono state truffaldinamente bypassate nella definizione di un provvedimento che pure le investe in termini devastanti». Lo stesso consigliere Marmo, tuttavia, all’indomani dell’approvazione della legge regionale in consiglio regionale, aveva dichiarato, con toni assai diversi: «È necessario tutelare un sito pluviale della nostra regione [...]. Non siamo contrari ma dispiaciuti per come nasce». Infatti al momento del voto in aula il consigliere Marmo si era astenuto, anziché votare contro il provvedimento. Inoltre, tutti i comuni interessati, con le loro rappresentanze istituzionali, avevano partecipato fattivamente all’elaborazione del disegno di legge regionale, prima di cambiare idea, nel febbraio, successivamente alle azioni di protesta degli agricoltori.
Il 2 maggio si incontrano in Regione l’assessore Losappio e i rappresentanti istituzionali. La regione si mostra disponibile a rivedere, laddove possibile, i confini del parco. Ma l’obiettivo delle associazioni e dei comitati spontanei, che sembrano a tutti gli effetti tenere sotto scacco le amministrazioni comunali del territorio, è più netto: eliminare dalla superficie del parco l’intera “zona 2”, quella più esterna e di protezione paesaggistica e storico-culturale, in modo da poter continuare le coltivazioni senza vincoli di sostenibilità ambientale. Inoltre, rallentando l’istituzione del Consorzio dell’Ente gestore (da febbraio in poi, tutti gli incontri pubblici sono stati rivolti al tema della riperimetrazione, e non si sono fatti passi avanti nella stesura dello Statuto dell’Ente gestore del Parco), gli stessi coltivatori abusivi delle aree del demanio fluviale hanno la possibilità di continuare a coltivare quei terreni illegalmente occupati. L’eliminazione della “zona 2” dalla superficie del Parco, inoltre, lascerebbe aperta ogni possibilità di edificazione senza regole, di apertura di discariche, di costruzione di impianti inquinanti.
Ma non è tutto: il consiglio comunale di Barletta, riunito in seduta monotematica il 15 maggio, decide di attendere altri 15 giorni per vagliare le indicazioni sulla riperimetrazione «che proverranno dalle associazioni di categoria». Sono effettivamente tre le richieste che arrivano agli uffici comunali da associazioni e comitati spontanei di agricoltori. Ma una quarta richiesta è inviata dall’Arcivescovo di Trani, Barletta e Bisceglie. Qual è la richiesta della Curia locale? Far eliminare dall’area del Parco regionale un appezzamento di terreno sul quale sorge la chiesa di San Ruggiero, ormai pressoché abbandonata a se stessa, in località di Canne della Battaglia, cioè in piena zona già protetta da vincoli architettonici e archeologici e che l’inclusione nell’area parco vorrebbe ulteriormente proteggere. È evidente che nella richiesta della Curia non valgono le ragioni, pur dubbie e sconfessate dallo stesso testo di legge, sulla protezione delle coltivazioni addotte dai coltivatori. Né la Curia è mai intervenuta, in questi mesi, per giustificare la sua richiesta. Appare però evidente che l’esclusione di quel terreno dall’area parco dà il via libera a una sua possibile futura cementificazione o all’inserimento di costruzioni di altra natura che verrebbero meno ai vincoli architettonici posti all’interno dell’area parco. E ancora: nonostante non fosse giunta nessuna richiesta in tal senso da associazioni di coltivatori, l’amministrazione comunale decide unilateralmente di richiedere alla Regione l’eliminazione dall’area parco del villaggio turistico “La Fiumara” e dell’area sottoposta a servitù militare Poligono di Tiro adiacente al villaggio “La Fiumara”. Anche qui, non valgono i dubbi degli agricoltori sui vincoli alle colture: l’unica motivazione possibile è quella di evitare i vincoli di natura architettonica posti dall’area parco. E, dunque, per non porre in futuro alcun limite sull’edificabilità di quei terreni. Infine, lo stesso consiglio comunale delibera «di individuare i propri rappresentanti all’interno degli organi costituenti il Consorzio di Gestione d’intesa con le associazioni agricole locali»: gli stessi agricoltori, dunque, che da decenni, anche attraverso l’occupazione abusiva di terreni demaniali a ridosso dell’alveo del fiume, hanno creato quel degrado ambientale al quale il Parco regionale cerca di porre rimedio. La delibera del consiglio comunale di Barletta viene approvata a maggioranza, con i voti favorevoli anche dei consiglieri Cioce e Dicorato, che in qualità di consiglieri regionali avevano votato a favore del parco regionale nel dicembre 2007, senza aver sollevato alcuna obiezione.
In piena estate, poche righe di un giornale locale riportano questa notizia: «Grassi di origine vegetale o animale: a questo sono addebitabili le chiazze oleose comparse il 22 luglio scorso lungo il corso del fiume Ofanto, nel tratto compreso fra il Ponte romano, in territorio di Canosa di Puglia [...]. A stabilirlo sono stati gli esami sui prelievi compiuti dalle guardie ambientali del nucleo ittico faunistico di Barletta guidate da Pino Cava, da tecnici dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente di Foggia. “Qualcuno – spiega Cava – deve avere pulito in acqua fusti o cisterne usati per la lavorazione dell’olio in oleifici, certo non si tratta di idrocarburi, e non c'è un inquinamento chimico, ma questi grassi hanno bisogno comunque di molto tempo per scomparire”». Nessun commento arriva da parte degli organi istituzionali. Nei primi giorni di ottobre, il braccio di ferro tra la regione e le amministrazioni comunali divenute ormai sistematicamente contrarie al parco segna un decisivo punto a favore di queste ultime. La Regione, nel tentativo di salvaguardare come area parco almeno la “zona 1”, che pure è già posta sotto il vincolo di Sito d’importanza comunitaria, decide di convocare accordi bilaterali con i singoli comuni per prendere atto delle riperimetrazioni. Il comune di Cerignola richiede l’eliminazione di 1.100 ettari sui 4.900 previsti. Il comune di Barletta chiede di ridurre la superficie del suo territorio destinata ad area parco dai 4.500 ettari iniziali a soli 1.500, ancor meno dei 2.000 ettari approvati in Consiglio comunale. L’obiettivo della Regione diventa ora quello di “salvare il salvabile”, davanti alle irremovibili richieste dei comuni, ma l’intero progetto del Parco regionale rischia ora seriamente di subire uno stop definitivo.
«Sic tauriformis voluitur Aufidus,
qui regna Dauni praefluit Apuli, cum saeuit horrendamque cultis diluuiem meditatur agris, ut barbarorum Claudius agmina ferrata uasto diruit impetu» | «Così irrompe l'Ofanto tauriforme,
che attraversa i regni dell'Apulo Dauno, quando inferocisce e trama un'orrenda alluvione sui campi coltivati, come Claudio abbatté con impeto tremendo le schiere dei barbari coperte di ferro» |
(Orazio, Carmen saeculare, Liber IV Od. 14.v.25) |
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