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L'Italia contro le rinnovabili

Al paese del sole non piacciono le rinnovabili, e le blocca. Il governo Berlusconi manda all'aria la direttiva europea sulle energie verdi. Le richieste: emissioni più alte, diritti a inquinare per le industrie
5 dicembre 2008
Alberto D'Argenzio
Fonte: Il Manifesto

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Al paese del sole non piacciono le rinnovabili, e le blocca. Mercoledì notte sembrava tutto a posto, la direttiva sulle energie verdi pareva cosa fatta ed invece un fax inviato da Roma ha mandato l'intesa all'aria. Almeno per ora. «Eravamo riusciti ad avere l'accordo dei liberaldemocratici, dei socialisti e di parte del Partito popolare, ora c'è solo il governo Berlusconi che blocca», diceva ieri il relatore del testo, il verde lussemburghese Claude Turmes. Roma pretende che venga inserita per il 2014 una clausola di revisione totale, ossia tale da rimettere in discussione anche gli obiettivi paese per paese nel quadro dell'impegno comunitario ad avere il 20% di energia verde nel 2020.

Turmes da questo orecchio non ci sente, con lui il Parlamento ed anche la Commissione: «Se c'è la clausola - ha detto il commissario Ue all'ambiente Stavros Dimas - significa cambiare gli obiettivi e questo non è accettabile».

Poco importa, Roma non ci sta sulle rinnovabili, e pretende che gli impegni paese per paese siano ricalcolati, passando dal Pil/pro capite alle emissioni/pro capite. Questo farebbe scendere l'obiettivo italiano per il 2020 dal 17% al 14%, quando adesso il paese del sole, ma anche dell'acqua e del geotermico, è sotto il 7% (il primato nel solare è della Germania, nel vento di Germania e Spagna). Il cambio di sistema è però improponibile perché potrebbe essere richiesto su scala planetaria da paesi come India e Cina che inquinano tantissimo e che con il metodo emissioni/pro capite potrebbero tranquillamente continuare a farlo. «Le imprese italiane - insiste Turmes - sviluppano progetti in Libia, Egitto, hanno vinto una concorso mondiale per rivestire di pannelli solari il padiglione olimpico di Pechino, non ci sono scuse, è una questione di volontà politica». Che manca, non solo sulle rinnovabili.

Il governo Berlusconi pretende infatti anche diritti gratuiti ad inquinare per le industrie energivore, in particolare per ceramica, vetro, carta e per la siderurgia che utilizza forni elettrici, in modo da evitare delocalizzazioni, un uso più ampio dei crediti ottenuti dalle imprese nazionali che investono all'estero sulle rinnovabili, un occhio di riguardo per il termoelettrico e un'altra clausola di revisione su tutto il pacchetto clima-energia, una sorta di analisi costi-benefici da realizzare dopo la Conferenza di Copenaghen del dicembre 2009. «Se non verranno prese in considerazione le nostre esigenze - ha affermato la ministra all'ambiente Stefania Prestigiacomo - ci dovremmo opporre». Il governo è determinato e continua a minacciare di usare il potere di veto, potere in realtà molto relativo. Se è vero che al vertice dei capi di stato e di governo le conclusioni sul clima andranno approvate all'unanimità è anche vero che le quattro direttive che formano il pacchetto - quella sulle rinnovabili; quella sulle emissioni prodotte dai settori inclusi nel sistema Ets, (la «borsa» delle emissioni); quella sugli esclusi (servizi, trasporti, costruzione, agricoltura) e, infine, il testo sul Ccs, il sistema per il sequestro ed immagazzinamento della CO2 - vanno votate a maggioranza qualificata.

Anche la Germania chiede quote gratis per cemento, acciaio, calce e chimica, ossia oltre il 60% di quanto produce, mentre i paesi dell'est premono per un regime di esenzioni per il termolettrico, ma si tratta di obiezioni in parte già accolte e superabili nei prossimi giorni. A iniziare da domani, quando a Danzica Nicolas Sarkozy incontrerà i leader di chi stava dietro la cortina di ferro. Una riunione che dovrebbe permettere di venire incontro a chi deve completare la riconversione di sistemi industriali basati sul carbone. Se la visita in Polonia dovesse dare i suoi frutti, al vertice l'Italia isolata sarà.

«Non vogliamo far saltare l'accordo» spiega Prestigiacomo. «Bisogna piantarla di parlare di politica ambientale in maniera autoreferenziale, bisogna parlarne inserendo la questione nella situazione reale», ossia nella crisi, una situazione economica che comunque non è destinata a durare fino al 2020 e nemmeno fino al 2014, il tempo indicato per la revisione. «Abbiamo - ribatte Legambiente - le migliori prospettive di sviluppo occupazionale ed economico proprio nel settore dell'industria delle rinnovabili eppure continuiamo a comportarci come ridicoli oppositori delle ragioni del clima e dell'ambiente».

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