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Il ricatto occupazionale e la sequenza del caso Englaro

In questi giorni l’opinione pubblica è stata travolta da interventi di ogni genere sulla drammatica vicenda Englaro. Lo stesso scenario si presenta per la vicenda “Ilva di Taranto e diossina” che interessa, direttamente, centinaia di migliaia di Pugliesi e, indirettamente, 56 milioni di Italiani.
13 febbraio 2009
Peacelink (Alessandro Marescotti & Biagio De Marzo)

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In questi giorni l’opinione pubblica nazionale è stata travolta da interventi di ogni genere sulla drammatica vicenda di Eluana Englaro, arrivando addirittura al quasi scontro istituzionale tra Presidente della Repubblica e Governo nazionale. All’uomo della strada nessuno ha spiegato perché una vicenda così complessa ed importante è rimasta irrisolta per 17 anni e solo all’ultimo minuto si è tentato di correre ai ripari.

Lo stesso scenario si presenta per la vicenda “Ilva di Taranto e diossina” che interessa, direttamente, centinaia di migliaia di Pugliesi e, indirettamente, 56 milioni di Italiani se è vero che l’Ilva di Taranto è un’azienda strategica per l’Italia e che deve continuare a produrre in qualsiasi condizione, con in prospettiva anche uno scontro istituzionale tra il Governo nazionale e la Regione Puglia. Per oltre 15 anni Parlamenti, Governi, strutture istituzionali preposte, aziende, uffici studi di sindacati e di associazioni ambientaliste e associazioni datoriali, non si sono preoccupati veramente di creare le condizioni per abbattere l’inquinamento ambientale di origine industriale, com’è stato prescritto dalla Comunità europea fin dal 1996 a tutte le aziende dell’Europa unita. Addirittura qualcuno si è messo di traverso, più o meno consapevolmente.

La conseguenza di tutto ciò è stata che a Taranto si è continuato ad inquinare pesantemente ed impunemente, come era avvenuto fin dall’avvio del Centro Siderurgico Italsider agli inizi degli anni ‘60, di proprietà delle Partecipazioni Statali. A quell’epoca non esistevano ancora le norme europee ma tutti avvertivano che acqua, aria e suolo del territorio erano attaccati da ogni tipo di inquinanti di origine industriale con preoccupanti conseguenze per la salute dei lavoratori e dei cittadini. Ora Taranto è stata riconosciuta come la città più inquinata d’Europa, con un numero impressionante di morti per malattie che non perdonano, con aziende agricole annientate, con migliaia di pecore abbattute, e non è finita.

Parlamenti e Governi italiani, hanno fatto trascorrere invano la fatidica scadenza del 30 ottobre 2007, ultimo giorno utile perché anche le aziende italiane fossero dotate di Autorizzazione Integrata Ambientale. La scadenza del 30 ottobre 2007 non è stata mai modificata dall’Europa, anzi è stata confermata nella direttiva CE/01/2008; eppure in Italia si grida allo scandalo perché la legge della Regione Puglia del 16 dicembre 2008 sulla diossina impedisce di rilasciare l’AIA all’Ilva di Taranto entro il 31 marzo 2009, data indicata nell’Accordo di Programma dell’11 aprile 2008. Una gran confusione, per non far capire niente alla gente.

Da nessuna parte abbiamo sentito un mea culpa per le inaccettabili inadempienze italiane nei confronti delle norme europee, che in qualche modo hanno costituito un mediocre alibi per le aziende: tanto le modeste sanzioni che la Comunità europea ha comminato e comminerà allo Stato italiano saranno pagate da Pantalone, non dai veri responsabili di questi disastri.

Non abbiamo sentito da nessuna parte che l’inquinamento ambientale di origine industriale che l’AIA deve far abbattere drasticamente riguarda anche ma non solo la “diossina siderurgica cattiva”, che, per un’abnorme norma italiana, può essere emessa legalmente con un limite 10.000 volte superiore a quello fissato per gli inceneritori, come se la “diossina siderurgica cattiva” facesse meno male della diossina degli inceneritori. L’AIA di Ilva, infatti, deve riguardare anche gli inquinanti emessi dalle cokerie, misurati da ARPA Puglia e altrettanto pericolosi per la salute di lavoratori e di cittadini; deve riguardare anche le polveri, sottili e non, e gli scarichi a mare. Serve insomma un vero piano di risanamento che il Ministero dell’ambiente non ha il coraggio di pretendere dall’Ilva a tutela della salute della collettività.

Soffermiamoci sulla diossina, che tanto clamore ha suscitato solo in queste ore, quando della diossina, potenziale emissione degli impianti di sinterizzazione delle acciaierie a ciclo integrale, si sapeva dal 1994, almeno nelle stanze del potere. Oggi si arriva a dire che "verrebbe messa in discussione la sopravvivenza dello Stabilimento Ilva di Taranto" con l'applicazione del primo step della recentissima legge della Regione Puglia, che fissa per la “diossina siderurgica cattiva” un limite europeo, ben più severo di quello italiano ma in linea con quello fissato con legge italiana per gli inceneritori. Ma come fa a sostenere una cosa del genere? L'Ilva ha già dimostrato di poter rispettare il limite del primo step (2,5 ng/m3) utilizzando sperimentalmente un sistema di assorbimento delle diossine basato sull'urea. Riva, adesso, deve solo sborsare il denaro per rendere continuativo ed effettivo quel sistema di abbattimento della diossina. Come mai ora che Riva deve "aprire il portafogli" da più parti si fanno dichiarazioni allarmistiche con le quali quel portafogli torna a chiudersi?

L’associazione PeaceLink da tempo all’opinione pubblica, ai sindacati territoriali e al Ministero dell’ambiente ha inviato la scheda tecnica delle tecnologie con cui è possibile tagliare del 97% le emissioni di “diossina siderurgica cattiva” in 16 mesi. Tutti, invece, fanno dichiarazioni come se non esistessero tecnologie di abbattimento drastico della diossina applicabili in 16 mesi. Ma il problema va ben oltre la mancata conoscenza delle questioni su cui si fanno dichiarazioni. Mai una parola è stata spesa in 12 anni di mancata applicazione della normativa europea IPPC per la riduzione dell'inquinamento ambientale mentre le principali industrie siderurgiche europee hanno fatto investimenti e si sono adeguate sopportando la concorrenza di quanti non lo facevano. Il vero problema è che manca la volontà di impegnarsi a fondo per il rispetto dei limiti europei. La dirigenza Ilva sta dando prova di voler prendere continuamente tempo allontanando le scadenze in attesa di eventi "favorevoli" e non c’è un’adeguata risposta dalle Istituzioni, Parlamento e Governo inclusi. Che poi l'Ilva possa spostarsi all'estero in conseguenza della legge regionale sulla diossina è una congettura non condivisibile: norme severe antidiossina si applicano in tutt'Europa e non per questo c'è il fuggi fuggi generale in Cina.

L’Ilva sa da tempo (se lo è fatto scappare inavvertitamente in una comunicazione ufficiale alla Regione Puglia) che l'impianto di abbattimento delle diossine esiste nella tecnologia europea. Noi abbiamo saputo che costerebbe circa 80 milioni di euro quando gli utili annui del gruppo Riva fino a prima della crisi mondiale sono stati mediamente superiori a 700 milioni di euro. E' una spesa che rientra pienamente nelle capacità di investimento di Riva. La verità è che più viene ritardata l'adozione delle migliori tecnologie più diventa antieconomico adottarle in uno stabilimento che ha già mezzo secolo e che, dagli anni ’90 in poi, non ha goduto delle migliori attenzioni manutentive ed impiantistiche. L'attuale Ilva di Taranto è come una vecchia auto a cui si devono mettere cinture di sicurezza, marmitta catalitica, ABS, copertoni e freni nuovi. Qualcuno sta accampando le scuse più fantasiose pur di tirare avanti così e non spendere soldi a beneficio della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini. Vogliamo mettere riparo alla diossina, IPA, PM 10, PM 2,5, metalli pesanti, ecc. quando l'Ilva sarà diventata ancora più obsoleta? Se si vogliono adottare le nuove tecnologie di ambientalizzazione esse vanno implementate adesso e non domani quando l'Ilva sarà ad un passo dalla rottamazione.

Se non abbiamo capito male, questo è anche il pensiero dei sindacati, almeno quello di Gianni Alioti, responsabile nazionale dell'Ufficio ambiente, salute e sicurezza della Fim-Cisl (gianni_alioti@cisl.it). Non si tratta quindi di un ambientalista talebano ma di un sindacalista a livello nazionale che ha studiato il problema a fondo e che propone soluzioni avanzate che tutelano sia la salute sia il lavoro.

PeaceLink ritiene che convocare i sindacati a Roma senza convocare anche le associazioni ambientaliste è una violazione della legge 108/2001 che recepisce la Convenzione di Aarhus. Tale normativa impone l'obbligo di consultazione di tutto il pubblico interessato senza distinzione fra sindacati, associazioni e comitati di cittadini. Le riunioni al Ministero dell'ambiente e alla Presidenza del Consiglio dei ministri sono pertanto da considerarsi lesive dei diritti di partecipazione di quei soggetti portatori di interessi collettivi. Da Taranto associazioni ambientaliste, sanitarie e di categoria, collegi ed ordini professionali hanno presentato ufficialmente al Ministero in più occasioni osservazioni sull'Autorizzazione Integrata Ambientale di Ilva e non sono stati convocati a Roma: perché quest'esclusione?

A fronte di conoscenze note nei settori tecnici e scientifici della siderurgia europea, per anni, con l’acquiescenza della maggior parte delle Istituzioni impegnate sul fronte dell’inquinamento di origine industriale, si è fatto quasi nulla per combattere i terribili inquinanti emessi giornalmente nel cielo, nel mare e nel suolo di Taranto.

Alcuni Papi hanno chiesto scusa pubblicamente per cose fatte in passato non da loro ma dalla Chiesa. Lo Stato italiano e l’azienda, entrambi responsabili, non potrebbero fare la stessa cosa con l’aggiunta di provvedimenti sacrosanti per rimediare a cose non fatte o fatte male?

Alessandro Marescotti

Biagio De Marzo

Associazione PeaceLink , www.peacelink.it

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