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Un anno di vuoto alla Ferriera di Servola

Scrivevo un anno fa per left-Avvenimenti un reportage sulla Ferriera di Servola. A dodici mesi di distanza rimangono aperti tutti i problemi
26 febbraio 2009
Pietro Orsatti

Ferriera Lucchini
Un passo, poi un altro. Il respiro pesante e l’odore della combustione. Sulla faccia il fuoco della ghisa arroventata, sulla schiena il freddo di un’alba di gennaio e di pioggia. Devi essere contento, oggi almeno non è giorno di bora. La mascherina sulla faccia è quella che porterebbe un ciclista in città, serve a malapena a trattenere la polvere di coke in combustione. Rumore assordante, terra che trema, vibra. D’improvviso un piccolo fungo atomico si alza a coprire il cielo. Una nuvola bianca, densa come panna. «È solo vapore», si dice qui.

Tutti sanno che oltre al vapore che si sprigiona nello spegnimento del coke c’è ben altro, ma va bene così. L’importante è crederci, perché la parola “vapore” è innocua, non fa male, non porta morte. Come diceva la pubblicità? Basta la parola. E allora che vapore sia. Per otto ore, che poi otto non sono mai. Perché ritrovarsi a farne sedici di fila ti può capitare anche tre o quattro volte al mese. Respirando vapore e diossina e benzene e polvere, strizzando gli occhi che bruciano, e pregando che questa giornata scivoli via nella ripetitività di un “normale” girone infernale: che non esploda nulla, non si spacchi una trave, non si apra un buco in una parete di contenimento o non si sganci un nastro, una catena, un tirante.

Ferriera di Servola, Trieste. Proprietà Severstal Lucchini, con circa l’ottanta per cento di capitale russo. Prima dell’Iri. Impianto di fine Ottocento, ultimo “ammodernamento” a metà degli anni Settanta. Poi? Poi doveva chiudere a metà degli anni Novanta, ma è arrivato Lucchini e ha rilevato lo stabilimento, liquidato l’acciaieria - i forni hanno preso la via della Russia dove le norme ambientali sono più permissive - e mantenuto solo la produzione di ghisa e coke.

In realtà la ghisa prodotta è di bassa qualità e il coke pure. La fabbrica campa di altro. Di un cogeneratore che, recuperando parte dei vapori e dei gas, produce energia. E se la fa pagare 4 volte almeno il prezzo di mercato dall’Enel. È possibile? È possibilissimo. La Ferriera infatti usufruisce delle facilitazioni Cip6. Dietro questo simpatico numeretto si cela una regalia a fondo perduto da parte dello Stato a imprese in difficoltà. Per Cip6 si intendono “contributi alle fonti di energia assimilabili alle energie alternative”, ovvero chi produce energia avvalendosi di questo escamotage rivende la corrente elettrica prodotta a un prezzo enormemente maggiorato.

Per intenderci, alla fine degli anni Novanta la Lucchini vende energia sopra le 350 lire a Kwattora a fronte di un prezzo di mercato di 80 lire. C’entra con la fabbrica, con le condizioni di lavoro? C’entra. Perché si tratta di un contributo a termine, fino al 2009. È chiaro che, sapendo di dover comunque perdere l’unica forma di guadagno consistente in un tempo determinato, l’azienda si è ben guardata dal fare investimenti di altro tipo. Anche perché si tratta di un’azienda fatiscente, con una vita di 120 anni, con un impatto ambientale spaventoso, che si è “solidificato” nel corso dei decenni, stratificandosi, sovrapponendosi. Poi, visto che siamo un Paese di buontemponi, a pochi mesi dalla chiusura, Regione e Stato sembrano intenzionati a rinnovare la proroga. Accanimento terapeutico fino al 2015, anche se in questo caso l’Unione europea, e lo ha già annunciato, aprirebbe una procedura di infrazione nei nostri confronti. E allora via, si proroga? E se si proroga si chiedono alla Lucchini interventi su salute, ambiente, condizioni di lavoro e sicurezza? Nessuna risposta.

«Ogni mattina entro da questo cancello senza sapere se ne esco vivo la sera - racconta un operaio al cambio turno -. Viviamo una condizione di sospensione. La situazione è insostenibile, la chiusura dietro l’angolo, l’azienda che non fa nulla per migliorare le condizioni di lavoro. La sicurezza non c’è, non c’è neppure l’illusione che ci sia. Ma guardala! Ti pare un posto sicuro questo?».

La fabbrica è un mostro strano, qualcuno la definisce un “cadavere insepolto”. «Il lavoro è semplice. L’importante è sopravvivere. Parlare può essere rischioso per il posto - racconta un altro -. Qui si sommano decine di provvedimenti disciplinari in un attimo, appena si cerca di contestare le decisioni più assurde o le condizioni più paradossali nelle quali lavoriamo». Soprattutto per quanto riguarda i turni massacranti.

La Ferriera di Servola ha tipi di lavorazioni che costringono gli operai a operare 24 ore su 24, in linea continua. Quindi se manca il cambio ed è finito il turno «mica puoi mollare tutto e andartene a casa. E a volte il turno successivo non tarda soltanto ma salta del tutto e allora è facile arrivare a raddoppiare. Sedici ore consecutive. Perché si è in pochi, perché si sono assunti negli anni molti giovani con contratti a termine e i vecchi, quelli con ancora “la cultura della fabbrica” se ne sono andati grazie al prepensionamento ottenuto soprattutto con la legge sull’amianto». E allora nessuno spiega, insegna. Nessuna gerarchia reale basata sulla capacità di lavoro. Anche i capi, raccontano, quando la Lucchini è subentrata sono stati sostituiti in blocco. Non gente che veniva dalla carriera in fabbrica, basata su esperienza e lavoro, ma giovani, diplomati, da fuori. Se trovi una persona che ti ascolta, ragionevole, va bene. Altrimenti sono solo corpi estranei, solo espressione del padrone.

«Non è facile operare qua dentro, anche perché non c’è certo ottimismo - racconta Fabio Fuccaro rsu della Fiom -. E soprattutto il livello di professionalità non è elevato, e la gente accede a lavorazioni pericolose con poche ore di formazione alla sicurezza. Prima non era così. C’era la trasmissione dell’esperienza, gli anziani sorvegliavano i giovani, insegnavano anche a non fidarsi del proprio sentirsi troppo sicuri». E di decessi se ne contano otto in dieci anni. Senza contare infarti, tumori, malattie respiratorie e leucemie. Dati di cui non si sa molto, visto che l’ultima ricerca statistica della azienda sanitaria sugli inquinanti più pericolosi della Ferriera è stata, sorprendentemente, secretata. Motivazione: «procurato allarme sociale».

Della sicurezza, e del valore che si da della persone che lavorano in fabbrica, sembra proprio che a pochi importi, basta ricordare il caso di un operaio kosovaro - i lavoratori stranieri in Ferriera rappresentano più del 20 per cento - che una mattina è letteralmente scomparso nel nulla. E nessuno lo ha cercato. Poi, una settimana dopo, per caso, alcuni suoi compagni di lavoro ne hanno trovato dei pezzi mischiati al coke. Si chiamava Lirin Nevzati.

Si può non volere la chiusura di un posto del genere? «La domanda giusta è: come mai non si riesce a risolvere la questione Ferriera? - interviene Paolo Hlacia della commissione lavoro del Prc -Sono evidenti le responsabilità di tutte le parti in causa, e mi riferisco anche alle responsabilità “in buona fede” di chi protesta e denuncia. La Severstal Lucchini tiene in scacco la città con il ricatto occupazionale. Se ne esce tutti assieme aprendo una vertenza cittadina dove si costruiscono opportunità occupazionali diverse (e su questo vanno coinvolti i disoccupati, i lavoratori delle aziende in crisi, i precari e gli over 45) altrimenti il ricatto continuerà fino all’esaurimento dell’interesse dell’azienda che per scelta unilaterale abbandonerà il campo». Lasciando una situazione disastrosa. «Qui non si può bonificare. Il sito si può solo tombare», afferma sconsolato Pino Sindici, ex dipendente e abitante del quartiere di Servola oggi attivo nel comitato “Servola respira” che lotta da anni per la chiusura. Un’opzione che ricorda molto da vicino quella utilizzata per il reattore di Chernobyl, coprire tutto e immobilizzare gli inquinanti con il cemento. Un sarcofago. «Non è più tempo di amarcord - prosegue Sindici - soprattutto davanti ai tanti morti e ammalati. Solo due giorni fa ho partecipato a due altri funerali». è da qui, e dalle lotte ormai decennali diquesto comitato, che nasce un conflitto fra lavoratori e abitanti, residenti e vittime di quel candido vapore. «Questa Ferriera farà più paura da chiusa che da aperta», conferma Luigi Pastore della Cisal, sindacato autonomo presente dentro la Lucchini. E allo stesso tempo altri sindacalisti parlano espressamente di visioni differenti sul problema, anche se gli ammalati di “fabbrica” sono tanti. «Dobbiamo vedere bene cosa si intende per inquinamento, per questione ambientale - afferma, sulla difensiva, un rsu del sindacato di categoria Uil -. Siamo proprio sicuri che lontano da Servola, che ne so, nelle zone più trafficate di Trieste, la situazione dell’inquinamento atmosferico è migliore?». E si ripropone, da copione, la vecchia diatriba fra ambiente e occupazione, salute e reddito. E intanto ancora deroghe e la Ferriera va avanti, come se niente fosse. Ma stranamente, se si ascoltano gli operai fuori dal contesto sindacale, ben pochi sono davvero disposti a continuare a lavorare con questi pericoli, in una situazione di precarietà (si chiude o non si chiude? Un anno o ancora sei?) che non sembra avere soluzione. «Mio padre per fortuna si è goduto dieci anni di pensione. Perché con l’amianto è uscito prima. Poi il cancro se l’è portato via – racconta uno dei ragazzi all’uscita dal turno -. Che faccio io? Lavoro altri vent’anni per morire di questo? È così che va, lo sappiamo benissimo. I morti, le malattie, sono una cosa che vediamo ogni giorno».

Strane certificazioni, documenti ignorati, compatibilità discordanti dalla realtà, denunce rimaste nei cassetti

La Ferriera di Servola ha recentemente ottenuto, per molti in maniera del tutto incomprensibile, l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale). «In realtà l’Aia dovrebbe fotografare l’esistente - racconta Maurizio Fogar del circolo Miani, punto di riferimento del comitato dei cittadini contro la fabbrica -. Invece per la Ferriera si è fotografo il futuro, ovvero si è concessa l’Aia accompagnandola con delle indicazioni da parte della Regione per l’adeguamento». Indicazioni, a quanto risulta, abbastanza confuse. «Hanno richiesto una serie di cose abbastanza confuse - dichiara Lino Santoro di Legambiente -. Un mix di richieste puntuali e parametri assolutamente estranei al protocollo dell’Aia». Ma in un modo o nell’altro - diciamo, sulla fiducia - la Lucchini ha ottenuto la sua bella autorizzazione ambientale, che in qualche modo sembra certificare una compatibilità ambientale dello stabilimento.

Fin qui la cronaca del 2007. Ma non è finita. Un’altra azienda, la Sertubi, anche questa considerata estremamente “sensibile” dal punto di vista della sicurezza e dell’ambiente, ha avviato da tempo la procedura per ottenere l’Aia. Proprietario sempre la Lucchini. Chi ha preparato la relazione per la richiesta è sempre la Sanitas, come nel caso della Ferriera, azienda che effettua analisi ambientali per conto della Lucchini nonché le analisi sanitarie (ex medicina del lavoro) sul personale sia della Ferriera che della Sertubi. Questa relazione è stata approvata, ovvero ne è stata certificata «la rispondenza della descrizione dei luoghi e delle loro caratteristiche ambientali a quelle documentate dal proponente» (decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, articolo 30).

Purtroppo la “rispondenza” fra la realtà e “relazione” sembra proprio non esserci. La relazione afferma, infatti, che nel raggio di mille metri non esistono alcune specifiche strutture come: scuole, ospedali, impianti sportivi e ricreativi, infrastrutture di grande comunicazione, ecc. Ma basta vedere un’immagine satellitare del sito (vedi figura in basso) per scoprire una serie di discrepanze (in realtà più di 50), fra le quali alcune macroscopiche come la presenza della sopraelevata di Trieste (superstrada che praticamente passa sopra lo stabilimento), una piscina comunale nel raggio di poche decine di metri. La domanda che ci si pone è evidente: chi ha certificato ha letto almeno la relazione palesemente errata? Il certificatore è Pierpaolo Gubertini, funzionario regionale. Già precedentemente indagato per omissione d’atti di ufficio: secondo l’ipotesi del pm Federico Frezza, sul tavolo di Gubertini sono arrivati regolari i preoccupanti rapporti dell’Arpa sulle emissioni della Ferriera di Servola, rimasti poi lettera morta.

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