Inceneritori di Sicilia
In un discorso recente ad Acerra, Silvio Berlusconi è stato chiaro nel dire che gli inceneritori destinati alla Sicilia dovranno essere dello stesso tipo di quello esistente nei pressi della città campana, battezzato dal medesimo il “termovalorizzatore verde”. Nei bandi siciliani del 2003 venivano richiesti in effetti inceneritori di tale tipo, a griglia mobile, con sistema di depurazione a secco. Con tali caratteristiche quindi, nel 2005, il gruppo Falck, capofila delle compagini vincitrici di tre gare su quattro, li ha ordinati in subappalto alla società milanese Pianimpianti, per mezzo miliardo di euro. Gli stessi sistemi recano altresì quelli richiesti dai nuovi bandi di gara, dell’aprile 2009. Il capo del governo, evidentemente, a tutto ciò si è riferito. I conti però tornano poco, anzitutto sotto il profilo tecnologico, se si considera che il modello richiesto dai bandi di sette anni fa oggi viene riconosciuto come il più pericoloso. Meno inquinanti risultano infatti gli inceneritori con sistema di depurazione ad umido, perché più idonei a rimuovere i gas acidi, i metalli pesanti, le polveri, i microinquinanti organici, incluse le diossine. Perché i nuovi bandi siciliani, con l’impegno forte del governo, ripropongono allora la realizzazione di impianti obsoleti? È un quesito ovvio, la cui risposta richiede comunque delle ricognizioni, a partire dalla società che ha beneficiato del favoloso subappalto, di cui sono stati evidenziati nella precedente inchiesta sul tema alcuni trascorsi.
Nel sito web che ne definisce profilo e attività, la Pianimpianti, amministrata da circa un decennio dal calabrese Roberto Mercuri, presenta sé stessa come una società di engineering & contracting, che cura la realizzazione di impianti dedicati alla salvaguardia dell'ambiente. In realtà, manifesta un profilo piuttosto vago. Dispone beninteso di uffici, manager, uno staff di funzionari. Non realizza tuttavia con tecnologie proprie gli impianti che s’impegna a consegnare “chiavi in mano”. Si avvale bensì dei mezzi materiali e logistici di una società non Italiana: la Lurgi di Francoforte, che è invece una presenza di rilievo nelle costruzioni per la siderurgia, la chimica e l’energia, con stabilimenti in Polonia, negli Stati Uniti, in India, nel Sud Africa. La società di Mercuri, non esente fra l’altro di connessioni con il Lussemburgo, è in sostanza una società di intermediazione, che, nelle logiche del terziario più mosso, fonda i propri guadagni sulla forza di contatto di cui dispone, da un lato con il partner tedesco, dall’altro con i committenti, pubblici e privati. E su tale facoltà di contatto dell’impresa, che è stata ritenuta non priva di diramazioni politiche, essendone stato vice presidente un noto ex parlamentare, si sono accentrate le attenzioni di diverse magistrature. A partire comunque da quella calabrese, che nello scorso marzo ancora una volta ha chiamato in causa Mercuri e un altro esponente della società di Milano, Aldo Bonaldi, nell’ambito di una inchiesta su finanziamenti e appalti nell’area crotonese.
Il rapporto Pianimpianti-Lurgi, maturato nell’ultimo decennio, reca delle ragioni solide, da ambedue le parti. La prima ha motivo di appoggiarsi a una potente realtà industriale off-shore, per la qualità e la competitività tipiche del prodotto tedesco, per le occasioni che possono venirne sui mercati esteri, ma non solo. Dal canto suo, la Lurgi ha avuto buoni motivi per collegarsi con Pianimpianti, pure con partecipazioni societarie, ravvisando nella medesima una testa d’ariete, ai fini della conquista di tessere di mercato in Italia: un terreno difficile, dominato da gruppi del calibro di Enel, Falck e Impregilo, ma condizionato pure da un ridotto club di multinazionali europee, come la francese Veolia e l’inglese International Power. Pur d’indole distante, entrambe le parti hanno tratto quindi guadagno dall’accordo, malgrado gli inconvenienti giudiziari che, in alcuni casi almeno, hanno dovuto condividere. Sono riuscite a incassare commesse importanti, a partire da quella dell’Api per la realizzazione in Calabria della più grande centrale a biomasse d’Europa. La società di Mercuri ha potuto portare il proprio fatturato dai 20 milioni di euro del 1999 alle centinaia di milioni degli anni più recenti.
A questo punto s’impongono delle riflessioni. Il gruppo Falck, presente nel top europeo dell’energia, avrebbe potuto realizzare da sé, o quasi, i tre impianti, ponendo in campo l’esperienza e i supporti di Actelios ed Elettroambiente. Non lo ha fatto. In subordine avrebbe potuto richiedere mezzi e supporti ad Enel Produzione, Amia e Catanzaro Costruzioni, presenti nelle compagini con quote non indifferenti. Ma anche questo non è avvenuto. Ha affidato invece la parte più imponente dell’affare siciliano a una società nota per le sue disinvolture, quella di Mercuri appunto, collegata per di più con una impresa di Francoforte che dal gruppo medesimo avrebbe potuto essere considerata, con buone ragioni, una possibile concorrente sugli scenari europei. È il caso di aggiungere che prima della firma del contratto le società aggiudicatarie non avevano mai avuto rapporti di un tale rilievo con Pianimpianti, né, fatta salva la forzata continuità della vicenda, ne hanno avuto dopo. L’accordo, distante da ogni garanzia pubblica, come è nelle logiche dei subappalti, è avvenuto allora in modo regolare o condizionato? Una risposta non può essere data, ma gli scenari che fanno da sfondo appaiono significativi.
Sulle energie dette rinnovabili si scommette da tempo. Il business che si erge su di esse, andato coniugandosi con quello dell’acqua e dei rifiuti, è tuttavia relativamente recente, con forti rilanci negli anni novanta, ma soprattutto nell’ultimo decennio, in virtù pure dell’azione dei governi che hanno sottoscritto, nel 1998, il protocollo di Kyoto. Sul fotovoltaico, sull’eolico, sulle energie idroelettrica e da biomasse, si sono esposte in effetti, con investimenti importanti, le maggiori società italiane operanti nell’energia, come Eni, Enel, Falck, Edison, Ansaldo, Helios Tecnology, Artemide, oltre che l’ente di ricerca Enea. Un’attrazione del tutto particolare ha suscitato altresì, nell’ambito della produzione da biomasse, la termovalorizzazione dei rifiuti, cui è riservata la parte maggiore degli incentivi “Cip6”, garantiti dal governo. Ne è scaturito quindi un sistema che, pur fortemente differenziato al proprio interno, tende a prescindere dai canovacci e dai retaggi di un paese economicamente diviso, ritrovando un terreno strategico proprio nelle regioni del sud, Sicilia inclusa. E qui è il punto. Nel sud sono state ravvisate le migliori condizioni climatiche e ambientali per lo sviluppo del fotovoltaico e dell’eolico. Vi risiedono altresì le maggiori emergenze da risolvere in tema di rifiuti e acqua. Vi resistono infine deficit strutturali e distanze da colmare, tali da poter animare disegni economici di lungo respiro. Ma le regioni del sud non sono solo questo. Sono sede di consorterie economiche, di mafie che non usano rimanere a guardare. La “scoperta” di tali aree, dal versante appunto delle energie rinnovabili e dei bisogni primari, ha implicato quindi delle prese di contatto, che, come testimoniano numerosi dati, anche di tipo giudiziario, si sono avute a vari livelli.
La Sicilia degli anni di Cuffaro ha costituito, sotto tale profilo, una sorta di laboratorio. Ne danno uno scorcio le esposizioni di un reo confesso di rango, Francesco Campanella, circa le attività meno visibili del consorzio di Metropolis Est, le gestioni anomale di fondi Ue, gli interessi legati alle acque, i giri di tangenti, i nessi fra imprenditoria e politica. È quanto emerge altresì, nell’ambito del processo “Talpe in Procura”, dalle deposizioni del boss agrigentino Maurizio Di Gati, circa l’interesse che le cosche avrebbero avuto per gli inceneritori sin dal 2001, quando ancora non era in progetto la loro realizzazione in Sicilia. Che il seguito non sia da meno lo si rileva comunque dai fatti: dalle trame che si avvertono nei territori in cui sono destinati a sorgere i termovalorizzatori, ma pure i gassificatori; dalle oscurità della politica; dai vuoti di democrazia che insistono, mentre si fa il possibile per espellere le realtà che non scendono a patti con le economie e le politiche più opache, come testimonia la vicenda, esemplare sul piano civile, della società Moncada Costruzioni, che in provincia di Agrigento ha inaugurato nel 2005 il parco eolico di Monte Mele. D’altra parte, anche il vento promette affari di un certo tipo. Dall’inchiesta “Eolo”, condotta di recente dal pm Roberto Scarpinato, della Dda di Palermo, si apprende infatti di rapporti che malavitosi di Trapani avrebbero intrecciato con imprenditori di diverse aree della penisola per lo sfruttamento l’energia eolica. E oltre lo stretto, in Calabria, in Campania, in Puglia, vige, naturalmente, dimostrato da sequenze di fatti, lo stesso paradigma.
Fin qui il clima appunto, che è stato e rimane quello di un mondo convulso, capace di subordinare tutto a degli scopi: dalla complessa macchina regionale alla stessa Unione europea, che, pur distante ed estranea, è stata resa una agenzia di servizio, una fonte cui poter attingere senza misura, come lo è stato a lungo la Cassa per il Mezzogiorno. Le distanze e le estraneità, proprio perché tali, possono essere tuttavia motivo di sorprese. Riprendendo il filo del rapporto Falck-Pianimpianti, proprio la Corte di Giustizia della Ue, con l’annullamento delle aggiudicazione dei quattro inceneritori, ha finito infatti per sparigliare le carte, nel 2007. E tutto questo proprio sul mega-affare dei 500 miliardi di euro ha avuto gli effetti più dirompenti.
Dopo la firma del contratto con il gruppo Falck, la Lurgi ha perso poco tempo. Come da impegni, due anni dopo ha realizzato infatti gli impianti per la Sicilia. Non potendone effettuare tuttavia la consegna, a causa dell’intervento della Ue, ha dovuto parcheggiarli nei propri stabilimenti di Francoforte, dove sono divenuti anno dopo anno obsoleti. Proprio di recente ne è nato allora un contenzioso, mosso dalla società tedesca, acquisita intanto dalla multinazionale francese Air Liquide, leader mondiale nei gas per l’industria e l’ambiente. In sostanza, trovatasi a distanza di quattro anni dalla firma con i tre impianti fermi in Germania e tecnologicamente obsoleti, la Lurgi ha deciso di adire le vie legali contro Pianimpianti e Falck, rivendicando il diritto di recedere dal’accordo del 2005 e di essere pienamente risarcita. Per tutta risposta la società di Mercuri, avvalendosi della clausola che fissava il termine del diritto di recesso in due anni, ha fatto ricorso contro l’impresa tedesca per “frustrazione di contratto”.
Evidentemente, tenuto conto che sono in gioco mezzo miliardo di euro e che la Lurgi ha sufficienti ragioni per vincere, si è aperta per le due società italiane una partita pericolosissima, per differenti motivi. L’impero Falck rischia di essere messo in ginocchio, nell’economia reale, con contraccolpi ipotizzabili pure a Piazza Affari e in altre Borse. La società di Mercuri rischia di essere travolta, e non solo: nel caso di dissoluzione, rischia di dover rendere conto, come non è avvenuto ancora a sufficienza, del suo passato economico, delle sue reali consistenze, delle sue diramazioni, in Italia e all’estero. Le due contraenti italiane recano insomma sufficienti motivi per mettere in campo tutte le loro facoltà per evitare il baratro. E le parole di Berlusconi ad Acerra ne marcano per certi versi un riscontro, non si sa quanto misurato, concordato, calcolato. Le popolazioni siciliane come ne usciranno allora? Probabilmente, per il bene del capitalismo italiano di buon nome, e di quello di altra reputazione, non avranno solo gli inceneritori più grandi d’Europa, ma pure i più inquinanti, i più grondanti di gas e diossine.
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