Un esercito di profughi ambientali
http://www.liberazione.it/giornale/040225/archdef.asp
Per prima cosa un sincero ringraziamento al Pentagono. Se non lo dicevano loro, che il mondo stava andando in malora, nessuno ci avrebbe creduto. Sì perché, parliamoci chiaro, Arundathi Roy è tanto bella, Vandana Shiva è un sacco esotica, ma in fondo chi sta a sentire quello che dicono? Per non parlare poi dell'esercito di ricercatori che lavorano per le Nazioni Unite: i loro allarmi riempiono le pagine dei giornali per un giorno ma non incrinano minimamente la retorica dello sviluppo a ogni costo. Per non parlare poi di quanto incidono sulla decisione di finanziare le grandi opere o di alimentare con ogni mezzo - vedi le campagne di rottamazione delle automobili - il trasporto privato.
In realtà Peter Schwartz e Doug Randall - autori del rapporto - non hanno tirato fuori alcun dato nuovo. Tutto quello che hanno scritto per il Pentagono era già contenuto negli innumerevoli rapporti usciti in occasione delle conferenze e dei grandi vertici, come quello sull'ambiente di Johannesburg, tanto per citarne uno. In quell'occasione i ricercatori dell'Organizzazione mondiale della sanità dipinsero uno scenario molto approfondito dell'impatto del riscaldamento globale sulla salute umana. Ma non sembra che, allora, i potenti riuniti in Sudafrica abbiano sentito qualche brivido corrergli lungo la schiena. Dopo le opportune e generiche parole di cordoglio e i soliti "bisogna fare qualcosa", infatti, hanno proceduto a scambiarsi strette di mano davanti alle telecamere mentre, dietro alle suddette, firmavano favolosi contratti per la costruzione delle solite grandi opere, tanto per accelerare quello stesso tipo di sviluppo che ci sta portando dritti verso la catastrofe.
Scappando dal disastro
Un sincero ringraziamento quindi ai falchi di Washington per avere reso reale un vero e proprio esercito di diseredati che tenta con ogni mezzo di sfuggire alla catastrofe ambientale. Certo loro erano veri già da un po', tanto che le Nazioni Unite avevano dovuto coniare la definizione di profughi ambientali per descrivere quelli che scappano dai fenomeni meteorologici estremi - come le migliaia di bengalesi che si riversano in India dopo gli uragani - quelli che fuggono dalla desertificazione - come avviene in Senegal e in molti altri paesi africani - quelli che debbono lasciare le loro zone d'origine perché sono troppo inquinate - come la Moravia, la Boemia e la Slovacchia - e le popolazioni originarie delle foreste pluviali del Borneo o dell'Amazzonia, costrette ad abbandonare una terra resa sterile dal disboscamento selvaggio dell'industria del legname.
Il fenomeno è di un'ampiezza impressionante. Secondo il World Disasters Report, nel 1999 i profughi ambientali erano già 25 milioni, cioè più di quelli messi in fuga dalle guerre (22 milioni). Tuttavia per la burocrazia internazionale i profughi ambientali non esistono e non possono quindi godere dello status di rifugiati garantito dalla Convenzione di Ginevra. Questa definizione si applica soltanto a coloro che abbandonano il proprio paese a causa di persecuzioni etniche, politiche o religiose, una definizione che li rende meritevoli - almeno in teoria - del diritto alla protezione. Per i profughi ambientali, invece, che sono spesso interni - nel senso che si spostano all'interno dei paesi senza varcare le frontiere - non è prevista nemmeno l'assistenza dell'Alto commissariato per i rifugiati che ha dichiaratamente ammesso di non essere in grado di gestire il fenomeno.
Come ha notato il Pentagono, i profughi ambientali sono destinati a crescere. Nel 2002 l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di ambiente (l'Unep) aveva denunciato la stretta connessione fra effetto serra e aumento dei profughi fornendo previsioni drammatiche: 150 milioni di persone potrebbero essere costrette ad abbandonare le loro terre di qui a cinquant'anni. Una stima considerata prudente visto che alcuni studi indipendenti parlano di 250 milioni.
In effetti, solo nel 2001 ben 170 milioni di esseri umani sono stati colpiti da calamità naturali che nel 97 per cento dei casi sono collegate ai cambiamenti climatici. Nei 10 anni precedenti oltre 100 milioni di persone hanno sofferto la fame per colpa di carestie causate dagli sconvolgimenti del clima. Fra i casi più allarmanti, c'è quello delle piccole isole del Pacifico dove l'innalzamento del livello del mare sta facendo fuggire le popolazioni indigene. La stessa sorte drammatica, secondo gli scienziati del panel delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici (l'Ipcc), potrebbe toccare alle zone costiere dell'India, a isole come lo Sri Lanka e le Maldive, ma anche a Filippine, Cambogia, Thailandia, Egitto, Cina e ad alcune zone dell'America Latina. E' abbastanza ovvio che questi flussi di popolazione alla ricerca di condizioni di vita più sopportabili finiranno con il provocare profondi squilibri geopolitici. Forse la presa di coscienza del Pentagono potrebbe riuscire là dove l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha fallito: spingere ad affrontare il problema a livello politico.
Le grandi dighe
Comunque non è soltanto il cambiamento climatico a fabbricare profughi. La politica dissennata delle opere monumentali ha prodotto, ovunque nel mondo, milioni di sfollati che hanno cominciato a far sentire la loro voce. Non a caso nel documento finale dei movimenti sociali presenti al World Social Forum di Mumbai la questione delle grandi dighe - nel duplice aspetto ambientale e sociale - è stata fatta propria dal movimento dei movimenti. In India la decennale battaglia contro le dighe ha coalizzato un'incredibile numero di persone che si sono organizzate e hanno dimostrato una notevole capacità di stringere alleanze internazionali. Il Narmada Bachao Andolan, ovvero il Movimento per la salvaguardia del fiume Narmada reso famoso dagli scritti di Arundhati Roy (in particolare "La fine delle illusioni", Guanda editore), è nato proprio per contrastare un progetto megalomane che prevedeva la costruzione di 33 grandi dighe, 136 medie e circa 3.000 piccoli sbarramenti. In un secondo tempo il progetto è stato "ridotto" a 33 grandi sbarramenti con i relativi bacini. In pratica, una diga ogni quaranta chilometri.
Nel 1985 la Banca Mondiale ha deciso di sponsorizzare la grande "occasione di sviluppo" erogando 890 milioni di dollari per la prima diga, il cui costo effettivo dovrebbe salire da due a quattro miliardi. Quando il Narmada Bachao Andolan è riuscito a suscitare l'interesse degli ambientalisti del Nord del mondo, è stata lanciata una campagna internazionale che ha costretto la Banca Mondiale, nel 1993, a mettere in discussione e poi a ritirarsi dal progetto. Puntando sul patriottismo e sugli investimenti privati il governo indiano ha deciso di continuare, anche se è stato costretto a ridimensionare l'opera, che resta però faraonica. Per completare le dighe nella Valle del Narmada, dove vivono oltre 21 milioni di persone, dovrebbero venire evacuati 245 villaggi, a cui bisogna aggiungere gli evacuati secondari, quelli cioè che saranno costretti ad abbandonare la loro terra quando le foreste che li sostentano verranno distrutte.
Ma l'India non è l'unico paese dove la gente viene caricata sui camion per fare posto alle dighe. In Cina, ad esempio, è stato quasi completato il discusso progetto della diga delle Tre Gole, sullo Yangtze. Altrove, come nel Lesotho, le dighe sono state fermate oltre che dalle considerazioni ambientali - l'impatto è infatti sempre estremamente pesante anche quando non colpisce direttamente la popolazione - dagli scandali giudiziari. Anche in quel caso la resistenza delle popolazioni locali e la controinformazione degli ambientalisti sono arrivate ben prima del Pentagono alle stesse conclusioni: questo modello di sviluppo uccide. Solo che loro, a differenza dei burocrati di Washington, non sembrano affatto rassegnati.
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