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Lo storico John McNeill racconta i guasti ambientali del XX secolo

"Qualcosa di nuovo sotto il sole"

John McNeill ed. Einaudi
27 febbraio 2004
Gemma Contin
Fonte: Liberazione 18.11.2002

L'uomo e la strategia dello squalo

Bisogna mettere un'attenzione particolare nella lettura dell'ultimo libro di John R. McNeill Qualcosa di nuovo sotto il sole (Einaudi, 462 pagine, 30 euro). Un'attenzione sul punto di vista dell'autore (insegnante di storia alla Georgetown University, come recita la scarnissima biografia in quarta di copertina) da tenere sempre vigile. McNeill dichiara in premessa che il suo è un testo "antropocentrico": «Non considero i cambiamenti ecologici estranei all'intervento umano - scrive infatti - nè quelli che, quali ne siano le cause, hanno scarsa probabilità di ripercuotersi sulle faccende umane». Ed è certamente questa la cifra di un'assai documentata, ben scritta e persuasiva ricerca su quella che il sottotitolo definisce Storia dell'ambiente nel XX secolo. Ma quello che va tenuto sempre presente, nella lettura di questo testo scorrevole, ricco di note e di riferimenti bibliografici, è che John McNeill scrive non solo da un punto di vista antropocentrico, come appunto lui onestamente sottolinea e rivendica, ma soprattutto con lo sguardo dello studioso occidentale. Più ancora, dell'uomo medio americano.
Ne viene fuori una narrazione di grande spessore, per la quantità e qualità di informazioni che contiene: sullo sviluppo demografico dell'ultimo secolo rispetto al restante tempo di vita e di presenza dell'uomo sulla terra; sullo sviluppo economico nel senso peculiare dello sviluppo del Nord e dell'Ovest del mondo; sul consumo energetico e l'accaparramento delle risorse da parte dei paesi sviluppati. Ma ne viene fuori anche un libro che, dopo una così doviziosa presentazione di dati e relazioni tra i diversi fenomeni, non riesce ad allargare lo sguardo al di là dell'orizzonte "occidentocentrico", per usare un bruttissimo neologismo che non rendere fino in fondo l'articolazione, il diverso peso e l'impatto delle posizioni degli Stati Uniti rispetto all'Europa o all'Asia, ad esempio nella sottovalutazione e nella non adesione al trattato di Kyoto sul consumo energetico e le emissioni inquinanti; trattato che, se accolto, metterebbe in discussione e finirebbe con il frenare proprio quel modello di sviluppo e di consumi che si è andato trasformando, a mano a mano, nella stessa weltanschauung di George Walker Bush: una visione del mondo piegata, anche da un punto di vista filosofico e teorico, alle necessità economiche e di concrescita senza limiti né limitazioni del capitalismo globale e del fondamentalismo liberista che è il suo "messia" nel mondo.

Scrive ad esempio McNeill, in perfetta buonafede e senza l'ombra di indignazione: «Negli anni Settanta, l'esportazione di rifiuti pericolosi diventò un business internazionale. Il Messico interrava e conferiva in discarica i rifiuti statunitensi; i paesi del Sudest asiatico accoglievano quelli di provenienza giapponese; il Marocco e alcuni paesi dell'Africa occidentale accoglievano i rifiuti provenienti dall'Europa... Verso la fine degli anni Ottanta, il commercio internazionale di rifiuti tossici aveva un volume annuo di milioni di tonnellate. E lo spettacolo dei paesi ricchi che davano un po' di soldi a quelli poveri perché si prendessero in casa i loro veleni suscitò una certa resistenza politica».

Nonostante ciò, si tratta - proprio per la "quantità fredda" di fattori presi in esame e l'ampio spettro di analisi storica - di un documento indispensabile a chi ha bisogno di capire le ragioni "concrete" dell'opposizione radicale del Movimento no global. Bene ha fatto l'economista Paul Kennedy - che ne ha scritto la prefazione - a parlare di strategie di adattamento dello squalo e del ratto: di quello che continua a divorare senza porsi il problema della distruzione del suo habitat, mettendo a repentaglio la stessa possibilità di sopravvivenza; e di quello che calibra invece le risorse diponibili ed elimina - anche praticando lo sterminio di massa - il sovrappiù di popolazione (dei ratti urbani, nell'esempio di Kennedy), per garantire appunto la sopravvivenza della sua specie.

Un libro da segnalare, dunque, questo di McNeill, a chi abbia anche solo un barlume di consapevolezza del rischio ambientale e a chi abbia minimamente a cuore il destino di "nostra madre terra" e delle genti che immeritatamente la abitano e la sfruttano. La lettura è facilitata dal linguaggio discorsivo, chiaro e scorrevole, usato da uno studioso che con ciò si colloca nella sfera dell'alta divulgazione. Esemplare è, da questo punto di vista, il racconto dello "spianamento", nel corso dei cent'anni del Novecento, delle montagne della Nuova Caledonia per l'estrazione del nichel (minerale necessario, per la sua leggerezza e resistenza al calore, all'industria aeronautica e aerospaziale), fino a che: «Le ripercussioni ambientali e sociali sono state considerevoli. Per estrarre il nichel, l'attività mineraria ha spianato le montagne. I corsi d'acqua si sono riempiti di limo e detriti, rendendo impossibile la pesca e la navigazione. Inondazioni e smottamenti hanno arrecato gravi danni alle pianure, accumulando ghiaia sugli arativi e sradicando gli alberi di cocco. Il limo ha rovinato il patrimonio corallino di una delle più grandi lagune del mondo. Molti Canachi (i melanesiani della Nuova Caledonia) rimasero privi di mezzi di sostentamento, senza casa, senza terra».

Che grandi sommovimenti e che pericoli, l'uomo predatore - l'uomo-squalo - ha prodotto attorno a sé. E che diversa e disastrosa prospettiva si stende oggi davanti ai nostri occhi, rispetto a quella osservata appena duemila anni fa (un nonnulla sui quattro milioni di anni della presenza umana sulla terra), con amorevole meraviglia e cosmico stupore, da Lucrezio, quando scrisse il De rerum natura. Impossibile tornare a Lucrezio: troppi guasti e troppo profondi ed estesi, troppo a lungo praticati e quotidianamente reiterati da ognuno di noi, dai nostri "consumi vistosi" e scriteriati, si sono sedimentati sulla pelle dell'intera umanità e spalmati su tutto il pianeta. Il fallimento di Johannesburg ha svelato, tra le altre cose, l'ossessione dell'Occidente che gli impedisce di frenare e correggere i guasti che produce.

Retorica e inutile la predica su un mondo vergine. Illusoria e menzognera l'idea del ritorno al "buon selvaggio". Bisogna fare i conti con la realtà qui e ora, e da qui in avanti. Per questo non ci si può sottrarre alla domanda antica e ormai urgentissima: «Che fare?», anche se la risposta è difficile, a livello individuale; a meno di cominciare ad assumere il punto di vista del minatore cileno, del contadino cinese, dell'allevatore dello Zimbabwe, del migrante etiope: un esercizio ogni giorno che passa meno differibile. E difficile, ma non impossibile anche per un occidentale pigro e obeso, modificare il rapporto con i consumi, con il possesso e l'accaparramento delle merci, con lo spreco dell'acqua e dei rifiuti, con l'eccesso di riscaldamento domestico e di auto private. Ma è molto meno difficile e invece vividamente praticabile una strategia alternativa, di opposizione radicale al capitalismo globale, ai guasti e allo sfruttamento che continua a praticare a spese del pianeta, dell'ambiente, dell'agricoltura, del cibo, dell'acqua, delle risorse energetiche, del mondo del lavoro; come dimostrano i mille seminari di Firenze a cui hanno partecipato migliaia di ragazze e ragazzi di tutta Europa, con i loro taccuini di appunti, che non vogliono smettere di sognare e che non accettano di essere né apocalittici né integrati, né di rimanere intrappolati in un pensiero comunque subalterno e senza via d'uscita.

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