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Pigiami per bambini, profumi, mobili. Ma anche isolanti e detersivi. Sono migliaia i composti chimici senza obbligo di analisi. E cresce l'allarme

Il Paese degli avvelenati

2 marzo 2004
Riccardo Bocca

Il ministro della Salute Girolamo Sirchia non ne vuole parlare, e il mandato del silenzio è stato esteso a tutti i suoi uomini. Eppure un chiarimento sarebbe utile.
Da un'indagine di Greenpeace esce infatti un dato che può allertare padri e madri italiani. Nei punti vendita Disney sono in vendita due pigiami per l'infanzia, i modelli Buzz Lightyear e Tigger, che contengono "elevate quantità" di ftalati, composti chimici sospettati di provocare nell'uomo danni al sistema riproduttivo, dermatiti, asma, depressione del sistema nervoso centrale e persino di elevare il rischio di cancro. Qual è il pericolo effettivo? Come comportarsi? E soprattutto: come valutare la sempre più massiccia invasione di composti chimici nella nostra vita quotidiana? "Qui nessuno è disponibile a dare chiarimenti sull'argomento", tagliano corto al ministero: "Da Sirchia in giù".
Paradossalmente la più disponibile ad affrontare la questione è la stessa Walt Disney, e in particolare il vice presidente della corporate communication Europa Joyce Leaver, la cui replica è chiara: "Tutti i nostri prodotti rispettano la normativa europea in materia di sicurezza. Dunque il problema non c'è". E dal suo punto di vista ha ragione. Non esiste infatti un regolamento Ue sull'utilizzo degli ftalati negli indumenti in generale e tantomeno nei pigiami per bambini, ma soltanto una normativa che riguarda i giocattoli e i prodotti di puericultura, secondo cui quelli "in plastica morbida, destinati in condizioni normali e prevedibili ad essere introdotti nella bocca dei bambini tra zero e 36 mesi non devono contenere in Italia più dello 0,05 per cento" di una serie di ftalati.
In altre parole, se la correttezza della Disney è innegabile, lo è altrettanto il dubbio che ciò basti a garantire la sicurezza. Il problema tocca i settori più disparati, dall'abbigliamento ai profumi, dai mobili ai tappeti, dagli shampoo ai computer, dalle tappezzerie alle vernici, dai detersivi alle stoviglie di plastica. E quale sia la delicatezza del tema lo conferma un documento della Commissione delle comunità europee titolato "Libro bianco: strategia per una politica futura in materia di sostanze chimiche". "La produzione complessiva di tali sostanze", si legge, "è passata da un milione di tonnellate nel 1930 a 400 milioni di tonnellate oggi. Quelle registrate nel mercato comunitario sono circa 100 mila", e questo porta l'industria chimica ad "occupare il terzo posto nella classifica delle industrie maggiori Ue". Un bene, per chi ci lavora, ma anche fonte di incertezza se si pensa che "l'incidenza di alcune patologie, tra cui il cancro ai testicoli in soggetti giovani e talune allergie, è aumentata in misura significativa negli ultimi decenni..." ed è "plausibile ritenere che tali effetti non siano del tutto estranei a determinate sostanze chimiche".
Non c'è bisogno di sforzarsi troppo per trovare tracce di questo assedio. Lo scorso maggio si è scoperto che l'acqua piovana in Europa è contaminata da Bisfenolo-A, alchifenoli e i soliti ftalati, tutti potenziali pericoli per il sistema endocrino e riproduttivo. A settembre, nel corso della conferenza annuale della International society of exposure analysis, è emerso che il livello del diclorobenzamide, prodotto di trasformazione del diclobenil, catalogato dall'Agenzia europea per l'ambiente come possibile causa di cancro per l'uomo, ha più volte superato il livello di guardia nell'acqua di falda milanese. Ed è ancora vivissima l'impressione per il gesto del commissario europeo dell'Ambiente Margot Wallstrom, che il 6 novembre ha proiettato a Bruxelles le diapositive dei suoi esami del sangue, dai quali risultava la positività a 28 sostanze chimiche, Ddt compreso (ufficialmente fuori legge per uso agricolo).
La replica dei produttori è sempre la stessa: creare inutili allarmi sarebbe da incoscienti, tanto più che è interesse delle aziende stesse tutelarsi. "Inoltre il settore chimico è tra quelli più regolamentati al mondo", dice il tossicologo Giuseppe Malinverno, presidente della commissione consultiva di sicurezza della Federchimica, "e quindi è impensabile che vengano messi in commercio prodotti pericolosi per i consumatori". Ma a fronte di queste sicurezze ci sono gli atti della Commissione europea, che propone un'altra versione, meno rassicurante: "Al momento", è la premessa, "le sostanze chimiche industriali sono distinte tra "esistenti", cioè già presenti sul mercato nel settembre 1981, e "nuove"', immesse in commercio dopo". Le nuove sostanze sono circa 2 mila 700, e sono sottoposte ad analisi approfondite, "viceversa le sostanze "esistenti", che rappresentano oltre il 99 per cento del volume complessivo di tutte quelle commercializzate attualmente, non sono soggette agli stessi obblighi di analisi". Un bel problema, perché se "nel 1981 le sostanze esistenti erano 100 mila 106, ancora oggi quelle in commercio in volumi superiori a una tonnellata sono circa 30 mila, delle quali circa 140 identificate come sostanze prioritarie per le quali è obbligatoria una valutazione globale dei rischi da parte delle autorità degli Stati membri".
E delle altre 29 mila 860 che cosa si sa? Quali sono le garanzie per i cittadini, quali le informazioni in merito? Secondo la Commissione europea, "la conoscenza delle proprietà e degli usi delle sostanze esistenti è in genere carente, anche perché il processo dei rischi è lento e dispendioso". E su questo concorda anche Federchimica: "Sa cosa comporta la valutazione del potenziale effetto cancerogeno di un prodotto chimico con test su animali?", dice Malinverno: "Due anni di esposizione, altri due di valutazione, migliaia di bestie sacrificate e una spesa dai 2 milioni di euro in su. Fanno presto gli ambientalisti a scatenarsi contro gli effetti indesiderati della chimica, ma poi ci sono le analisi, gli studi, gli ostacoli da superare senza sensazionalismi".
Per spiegare come tutto questo ricada quotidianamente sulle nostre vite, basta citare l'esempio di un caposaldo del mobile a buon mercato, la svedese Ikea. Nel 1985 si è scoperto che alcuni suoi prodotti in Danimarca superavano i parametri consentiti di formaldeide, gas volatile in grado di provocare irritazioni a carico delle mucose, dermatiti da contatto e asma bronchiale, nonché sostanza con "sufficiente evidenza" di cancerogenicità per l'animale e "limitata" per l'uomo secondo l'International Agency for research on cancer. L'anno dopo l'Ikea decide di adottare una rigida normativa per i materiali a base di legno, ma non basta. Nel 1992 si scoprono dentro una libreria Billy analizzata in Germania, eccessivi quantitativi di formaldeide fusa con lacca, e dunque nel '93 l'azienda introduce il divieto totale per l'uso di quella sostanza e dei solventi aromatici.
Oggi l'Ikea vanta un bell'opuscolo titolato "I temi ambientali e sociali", nel quale descrive lo sforzo di fare business rispettando ambiente e salute, ma chi ha in casa una vecchia libreria Billy si chiede: che cosa ho respirato? E quali conseguenze ho, inconsapevolmente, scontato? Domande alle quali nessuno può rispondere con esattezza, e che fanno il paio con quelle che probabilmente si porranno i consumatori dei profumi. In alcuni di essi infatti, secondo recenti analisi di laboratorio commissionate da Greenpeace, vengono a volte utilizzati gli ftalati, e in particolare il Dehp, sospettato di essere cancerogeno per animali e uomini. Ma quando si chiede a Stefano Dorato, coordinatore dell'area tecnico normativa di Unipro (l'associazione italiana dei produttori di cosmetica) come regolarsi, lui risponde: "Senza entrare in discorsi ipertecnici di percentuali e lavorazioni, e premesso il fatto che tutti i nostri prodotti sono corredati da una valutazione di sicurezza da parte di un esperto, sottolineo che fino a questo momento lo ftalato Dehp è a norma di legge. Non lo sarà più solo dall'11 dicembre 2004 in poi".
In pratica la stessa linea di difesa adottata dalla Disney. Se la sostanza è legale, la si usa comunque, almeno fino a quando non arriverà un divieto. E intanto, come emerge dai dati Ue, l'attenzione della gente sale. Secondo un recente sondaggio, circa l'89 per cento degli intervistati è preoccupato per l'impatto complessivo dell'ambiente sulla salute. "Le tecnologie, l'evoluzione dello stile di vita, le modalità di lavoro", scrivono gli scienziati della Comunità, "presentano conseguenze nuove e a volte inattese". E a riprova citano un dato che riguarda 124 città europee (80 milioni di abitanti), da cui emerge che "60 mila decessi possono essere associati all'esposizione nel lungo termine all'inquinamento atmosferico da particolato oltre i limiti consentiti".
Cifre che colpiscono per importanza e precisione, mentre ciò che indispone gli ambientalisti è la vaghezza di chi produce sostanze potenzialmente dannose: "Si fatica ad avere dati certi, oggettivi, verificabili", sostiene Vittoria Polidori, coordinatore della campagna Toxcics di Greenpeace: "Si preferisce parlare di limiti da porre, di precauzioni da prendere, e non si elimina il problema evitando che finiscano in commercio elementi di rischio". Non solo in Italia e in Europa, ma anche oltreoceano. Un mese fa l'organizzazione americana Environmental working group e l'Università del Texas hanno condotto due ricerche sulle future mamme, e nel loro sangue hanno trovato livelli preoccupanti di Pbde (polibromodifenileteri), sostanze chimiche utilizzate come ritardanti di fiamma nella produzione di oggetti e materiali, dai computer ai mobili, dai tessuti agli imballaggi. Il fatto è che questi evita-incendi galleggiano a lungo nell'ambiente e spargono particelle tossiche nell'aria e nel terreno, finché non finiscono in bocca agli animali che mangiamo. Non solo: i Pbde, cancerogeni per i topi e qualcuno sostiene anche per gli umani, tendono ad accumularsi nei tessuti, e dunque vengono facilmente assorbiti dal corpo, che ne riceve le proprietà tossiche e le trasmette, nel caso delle donne gravide, al feto.
Una soluzione definitiva, spiegano gli scienziati, non esiste. Vero che una parte dei Pbde sono stati banditi da un'apposita normativa Ue, ma vero anche che un'altra è ancora sotto osservazione. Ormai è impossibile parlare di luoghi "sicuri" o scelte "sicure" sulle quali tarare abitudini e stili di vita. Mentre ambientalisti e produttori chimici discutono sui guasti della pioggia, dello smog cittadino, degli scarichi delle automobili, anche le case sono diventate luoghi di massima insicurezza. Al punto che gli studiosi si dedicano al loro monitoraggio, "senza però", dice Carla Iacobelli del servizio prevenzione e protezione al Consiglio nazionale delle ricerche, "riuscire a sviluppare una cultura della prevenzione nella gente".
Nell'insieme la materia si chiama "Inquinamento indoor", riguarda tutti gli ambienti chiusi e ha una storia educativa. Il fenomeno è iniziato negli anni Settanta, al tempo della crisi energetica legata al Medio Oriente e alle conseguenze sul mercato petrolifero. Il salto dei prezzi portò a cercare un migliore isolamento degli edifici nel tentativo di evitare sprechi, così comparvero gli isolanti, spesso sintetici, furono diminuiti gli standard minimi di ventilazione raccomandati, e si ottenne un certo beneficio per le tasche dei cittadini. In parallelo però ci fu l'impennata delle concentrazioni interne degli inquinanti, oltre a uno scadimento complessivo della qualità dell'aria interna. Da allora è un continuo di allarmi, ai quali si fatica a dare risposte convincenti.
"Il problema", dice Iacovelli del Cnr, "è che sul fronte chimico non servono concentrazioni elevate per costituire un pericolo: è l'esposizione costante e prolungata (la gente trascorre in media il 59 per cento della sua vita in casa, il 35 in ufficio e il 6 nei tragitti casa-ufficio) a rendere il tutto preoccupante. Basti pensare a cosa succede dentro una cucina, il punto forse più esposto dell'appartamento", dice Iacobelli. "Lì si sommano le sostanze tossiche sprigionate dalla cattiva manutenzione delle griglie spargifiamma, quelle in fuga dalle cappe di aspirazione e dai tubi di raccordo del gas e il monossido di carbonio di eventuali stufe e caminetti". Ma anche usciti dalla cucina, la situazione non cambia. La colla contenuta in moquette e carta da parati può essere fonte di Voc, i composti organici volatili causa di disturbi che oscillano tra il disagio sensoriale ai danni al sistema nervoso centrale, e anche un semplice fax, dicono gli scienziati, può provocare danni emettendo ozono. Per non parlare dei detersivi, da sempre nel mirino degli ecologisti.
Nei casi estremi la maggior parte degli abitanti di una palazzina finisce per soffrire di disturbi simili, e allora entra in campo la Sick-building syndrome, la sindrome da edificio malato di cui molto si è scritto ma poco si sa. Come spiega in burocratese la Commissione tecnico-scientifica istituita dall'allora ministero della Sanità nel documento "La tutela e la promozione della salute negli ambienti confinati", "vi sono poche applicazioni dell'analisi comparativa delle stime di impatto per il complesso degli inquinanti indoor in grado di fornire indicazioni operative sulla dimensione del fenomeno". E come se non bastasse, "una stima adeguata dell'impatto sanitario degli inquinanti indoor nel nostro Paese necessita di una molteplicità di dati e informazioni che al momento sono disponibili in modo parziale e frammentario".
Il guaio, dice la commissione, è che in Italia non c'è ancora una normativa organica e specifica per il controllo della qualità dell'aria negli ambienti di vita chiusi, dalla casa agli uffici, dalle scuole agli ospedali. E se chiedi quali siano le conseguenze a un esperto come Roberto Binetti, dirigente di ricerca del laboratorio di Tossicologia applicata all'Istituto superiore della sanità, lui allarga le braccia: "È una domanda da cento milioni. Di euro". A suo avviso "chi produce e manovra sostanze pericolose cerca di fornire le dovute garanzie, e anche la legge mette una buona dose di paletti, ma è comunque improprio sostenere che si faccia abbastanza". Non a caso lo scorso 29 ottobre la Commissione europea ha presentato al Consiglio e al Parlamento Ue il Reach (Registration, evaluation and authorisation of chemicals), un nuovo protocollo di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche. L'obiettivo è ovviamente quello di "proteggere meglio la salute e l'ambiente", e per centrarlo sono indicati tre punti chiave: creazione di un'agenzia centrale per catalogare le sostanze, valutazione della pericolosità non più a carico delle autorità ma delle aziende (che dovranno anche indicare tutte le potenziali applicazioni dei loro prodotti) e divieto di vendere sostanze in assenza di dati certi sulla sicurezza.
Detta così, la svolta del Reach suona a un non addetto ai lavori come una rivoluzione positiva, chiarificatrice. E invece tutta la questione è stata, è e sarà fino al 2007, data probabile di applicazione, fonte di scontri a livello politico ed economico. Da una parte ci sono le proteste dei movimenti ambientalisti, i quali criticano che con la nuova norma l'industria possa continuare a utilizzare le sostanze chimiche "problematiche", anche qualora ne vengano individuate altre più sicure. Dall'altra parte ci sono i produttori, angosciati dal doversi accollare la megaspesa per la catalogazione, e in generale freddi su vari aspetti del progetto. Una querelle senza esclusione di colpi, compreso quello della perorazione ai potenti, come dimostra il messaggio riservato che il sottosegretario di Stato Gianni Letta ha inviato il 10 ottobre scorso a Diana Bracco, presidente di Federchimica: "Con riferimento alla sua lettera del 15 settembre alla cortese attenzione del presidente Berlusconi", scrive Letta, "ed all'auspicio da lei espresso di un suo intervento in sede europea inteso a favorire una diversa modalità di introduzione della nuova disciplina in materia di sostanze chimiche, mi è gradito comunicarle che il Presidente del Consiglio è intervenuto nei confronti dei partners comunitari e della Commissione europea per ribadire la sua volontà di porre la strategia per la competitività fra le priorità del Semestre di presidenza italiano. (...) Il governo non mancherà di far valere in tutte le sedi le proprie prerogative di presidente di turno dell'Ue...".
Il premier italiano si è fatto insomma paladino delle urgenze di Federchimica, e non solo. Anche Confindustria, "pur comprendendo lo spirito della normativa...", in un testo dell'8 luglio 2003 ritiene che il Reach presenti "numerosi punti critici che rischiano di rendere il nuovo sistema inapplicabile", e lo giudica "complesso, oneroso e di difficile applicazione da parte delle imprese, soprattutto tenendo conto che il tessuto industriale è costituito prevalentemente da piccole medie industrie (...), le quali saranno costrette a destinare gran parte delle risorse all'attuazione delle procedure previste con serie ripercussioni sulla loro capacità produttiva e di innovazione".
Nei mesi seguenti sono stati modificati alcuni passaggi del Reach, spiega Annalisa Oddone del Nucleo ambiente di via dell'Astronomia, "ma quel documento rappresenta tuttora nei passaggi chiave la nostra posizione". Anche laddove Confindustria prevede che l'applicazione del Reach porterà a un calo del Prodotto interno lordo tra l'1 e il 7,7 per cento, e a una perdita di posti di lavoro calcolabile tra 250 mila e 1 milione 750 mila. Numeri che fanno venire l'acetone agli ambientalisti, pronti a ridimensionarli. E che stridono con quanto accade nel resto del mondo, dove molte aziende stanno comunque muovendosi per limitare l'allarme chimico. Nel settore elettronico, ad esempio, Hewlett-Packard e Bayer, ma anche Apple e Motorola, Samsung e Ibm hanno modificato la loro produzione intervenendo sui ritardanti di fiamma. Di pari passo Greenpeace informa che il network della bellezza The Body Shop ha deciso di "bandire da tutti i nuovi profumi gli ftalati, anche se non ci sono prove lampanti che provochino disturbi ormonali", mentre altre compagnie come Nike, Lego e Sony hanno gradualmente eliminato il Pvc dai loro prodotti.
Certo, anche a loro l'operazione di pulizia sarà costata parecchio, ma forse hanno valutato che ne valesse la pena.

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