Il paese dove le api non volano più
La lettera al presidente Putin, firmata da milleduecento dei quindicimila abitanti di Karabash e spedita il 5 febbraio scorso, parlava chiaro: «Stimato Vladimir Vladimirovic - recitava più o meno - sappiate che questa città sta morendo, perché le leggi dello stato qui non sono applicate. Se non ci aiutate a fermare chi ci avvelena giorno dopo giorno violando tutte le leggi federali, il 14 marzo boicotteremo in massa le elezioni presidenziali. Salvate le nostre vite!». L'esito non è stato quello sperato: al contrario, sono arrivate minacce, denunce penali e persino aggressioni di sconosciuti nei confronti dei firmatari più noti; e giunti ormai alla vigilia del voto, gli sfortunati cittadini di Karabash cominciano a pensare che forse nemmeno il tanto popolare «zar buono» si interessa della loro sorte - come del resto i media nazionali, preoccupati che la protesta di quei disperati possa contagiare tanti altri centri della Russia dove orrori ecologici, avidità imprenditoriali e corruzione degli apparati di stato stanno riducendo ai minimi termini le capacità di sopravvivenza fisica della gente. È una storia esemplare di cosa voglia dire «democrazia» e di che significato possa avere un appuntamento elettorale come questo per gli abitanti della Russia profonda - che poi è, forse con qualche estremo di meno, la realtà della più gran parte della popolazione.
A Karabash si arriva con un volo di due ore da Mosca su Ekaterinburg, il capoluogo della regione industriale e mineraria degli Urali, e poi con altre due ore di auto attraverso bei boschi, fra laghetti e dolci colline. Ma il paesaggio cambia di colpo, in modo drammatico, negli ultimi cinque chilometri.
Si racconta che gli astronauti, orbitando intorno alla terra, vedano benissimo Karabash, la cui area si presenta dall'alto «simile al cratere lasciato da un'esplosione nucleare». E anche dal basso ci si accorge benissimo quando si entra in questo cratere, definito dall'Unesco (ma forse fa parte della mitologia negativa locale) «il buco nero del mondo». La vegetazione si rarefa fino a sparire. I laghetti sono pieni di un liquido (difficile chiamarlo acqua) multicolore cangiante, tendente al rosso. Le colline sono dei grandi coni neri con riflessi metallici. E in mezzo a tutto questo, nel centro del cratere, i camini fumanti della fabbrica, con tutt'intorno le case di Karabash. Non si può sbagliare, ci siamo.
D'inverno, certo, la neve che cade continuamente serve a incipriare un po' il volto spaventoso del luogo: la dominante nera - che ci aveva davvero spaventato durante la prima visita, nel luglio di dieci anni fa - adesso non si nota tanto. In compenso basta dare un calcio a un mucchio di neve ai margini della strada per notare gli strati sovrapposti bianchi-grigi-neri che testimoniano mesi di lotta tra neve fresca e polveri. Le ciminiere ne sparano in aria dodicimila tonnellate all'anno, oltre a ottantamila tonnellate di anidride solforosa e a una lunga teoria di altri agenti tossici, in particolare composti con metalli pesanti. In cambio, dalle porte della fabbrica sono uscite l'anno scorso cinquantamila tonnellate di rame raffinato, più (pare) varie tonnellate di argento e anche oro, presenti in piccole quantità nel minerale trattato. Sarà per questo che il maggior negozio - una porticina e due vetrinette - del tristissimo paese reca un'insegna più grande dell'edificio: «Eldorado».
Nonostante il silenzio e l'aria agreste che regna tra le dacie di legno della periferia, si nota presto che non volano né uccelli né insetti. «Anche tutti i pesci del fiume Sjerebro, che passa qui vicino, sono scomparsi», racconta Sasha O. davanti alla sua casetta. Ufficiale dell'esercito, ritiratosi qui in pensione nel `95 perché la moglie voleva stare con la sua famiglia, è diventato un ecologista «il primo maggio del `99, quando dalle ciminiere è uscito qualcosa di sbagliato e d'un colpo tutte le mie api, che tenevo da quattro anni, sono morte. L'anno scorso, in giugno, un'altra fumata sbagliata e tutte le foglie sono ingiallite e cadute; negli orti non cresce quasi più niente. Ogni tanto, a seconda di come gira il vento, la radio dice di restare tutti chiusi a casa...».
Non muoiono soltanto le api, da queste parti. «Solo che i medici, quando firmano la diagnosi di un decesso, scrivono sempre `insufficienza cardiaca' - racconta Vladimir G., un insegnante - per evitare fastidi con le autorità, a cui non piace si metta nero su bianco la parola `cancro'. Ma noi sappiamo benissimo di cosa si tratta. Così come so benissimo che ogni anno aumenta il numero dei bambini che nascono `down', ormai comincio a vederne anche a scuola, anche se nelle statistiche non compaiono. Quasi tutti i bambini hanno malattie croniche, soprattutto respiratorie, del sangue, del sistema endocrino. E ho ricevuto minacce quando ho cominciato a parlarne in giro».
L'esasperazione cui sono giunti gli abitanti di Karabash, o almeno la più gran parte di essi, è assoluta: ma tutte le vie d'uscita sembrano chiuse. «Ci siamo rivolti a ogni autorità possibile, e da molti alti organi centrali dello stato sono venute conferme della gravità della situazione, senza che niente cambiasse» - racconta Renat Yumadylov, ex minatore oggi invalido, in pensione e titolare di un minuscolo negozietto, ma soprattutto uno dei consiglieri comunali che guidano la protesta. «Alla fine abbiamo scritto una lettera aperta al presidente Putin. Le leggi che ci dovrebbero proteggere esistono: com'è possibile che non vengano rispettate? Noi non vogliamo la rivoluzione, non vogliamo imporre niente con metodi illegali, vogliamo soltanto chiedere, nel modo più pacifico e legale, che si rispettino le leggi e che ci si lasci vivere senza avvelenarci. Vogliamo tenere un referendum cittadino sulla sospensione dell'attività della fabbrica fino a quando non saranno installati i depuratori promessi».
Solo che, come si accennava all'inizio, questa sembra una pretesa eccessiva. «Due giorni dopo aver reso pubblica la lettera a Putin, firmata da milleduecento cittadini, la procura di Celjabinsk mi ha denunciato per aver tenuto una `assemblea popolare illegale' - io, che sono consigliere comunale! - e il giorno dopo due sconosciuti mi hanno aggredito nell'androne di casa mia, colpendomi alla testa e alla schiena con un bastone. La polizia di qui mi ha detto `non sappiamo che farci'; poi mi ha telefonato Tretjakov, ispettore federale per la regione di Celjabinsk, dicendomi che questo referendum non è opportuno».
Dal Cremlino, comunque, è arrivata una risposta alla lettera dei cittadini: due righe due per dire che la questione è stata segnalata al ministero competente, punto. Con tutto ciò, la fiducia di Renat non è venuta meno. «Io penso che Putin sia un buon presidente, e che se sapesse davvero quel che succede qui, risolverebbe le cose in un momento. Ma il fatto è che intorno a lui ci sono persone non diverse dai nostri amministratori, persone a cui non interessa affatto il parere o la salute della gente qualsiasi. Però io credo che il referendum lo faremo. Non sarà abbinato alle elezioni come volevamo, sarà più tardi, ma si farà. Non occorre il benestare del governatore, basta il parere del tribunale». E pensa che il tribunale di Celjabinsk, contro la volontà del governatore, darà questo parere? «Perché no? La legge dice che si può fare, dunque...».
Anche Sasha, l'ex ufficiale, condivide questo inspiegabile ottimismo. «Sono sicuro che il presidente risolverà questa situazione, riporterà la legge anche qui, come nel resto della Russia; anche se il governatore o il sindaco fanno finta che la legge non ci sia, dovranno adeguarsi, Putin conta più di loro». Vladimir, l'insegnante, è uno dei pochi che di fiducia invece non ne ha più. «No, non mi aspetto più niente. Ero contento ai tempi della perestrojka, ma poi ho capito che da noi il sistema democratico non funziona: si è fermato subito, lasciando tutto in mano ai peggiori. Di quella fabbrica avevamo le azioni, ce le hanno portate via per un pezzo di pane e ora comandano. Noi come cittadini non abbiamo più diritti». Né lui né gli altri, comunque, andranno alle urne domenica. Almeno questo, sarà difficile impedirglielo.
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