Un agronomo contro la fame
18.03.04
Da Lablachère (Ardèche)
È un ometto secco, con la pelle incartapecorita dalla vita all'aria aperta, indossa pantaloni di velluto a coste larghe che gli sventolano sulle reni. Gli occhi vivi sono come due fuocherelli di gioia su un viso che sembra arrivato direttamente dal Sud algerino. Pierre Rabhi è nato là, sessantasei anni fa. Oggi è un ascoltato "agro-ecologo" che preconizza, per la nostra "madreterra", al Sud come al Nord, un'altra forma di sviluppo.
Ha cinque anni quando gli muore la madre. Nell'oasi di Kenadsa il padre è fabbro, ma anche musicista e poeta, una specie di saggio. Nell'arrivo dei coloni francesi venuti a sfruttare un giacimento di carbone quel padre scorge un'opportunità per il suo primogenito. Stringe rapporti con una coppia di francesi (lui ingegnere, lei istitutrice) che offre di occuparsi dell'educazione del bambino. Il ragazzo passa continuamente da un mondo all'altro, dalla scuola coranica a quella laica francese. A dieci anni si piega all'inflessibile volontà paterna e segue a Orano la coppia dei francesi. La rottura innescata si rivelerà definitiva per il ragazzo.
Ancora sei anni di immersione totale, di letture appassionate della Bibbia e dei vangeli, anche dei filosofi, tra cui Pascal, per giungere alla maturazione completa della scelta, simboleggiata dalla conversione e dal battesimo cristiano. Il giovane Pierre rompe con l'islam, a costo di dispiacere al padre e allo zio, noto imam. Ha completamente adottato il modo di vita occidentale e vive come un "figlio di borghesi". «Ero così inquadrato che ho radicalizzato il mio comportamento, fino al rifiuto della cultura d'origine». Pierre Rabhi ha persino pensato di farsi missionario con i Padri Bianchi…
In realtà continua a cercare se stesso, in un ambiente divenuto instabile, segnato dallo scoppio della guerra d'Algeria. Riottoso al sistema scolastico, preferisce formarsi da autodidatta. Bramoso d'assoluto, scrive ad Albert Schweitzer per offrirgli la sua collaborazione. Questi gli risponde cortesem ente che gli servono persone con una competenza. Poi, di colpo, mentre a Orano cresce la tensione, tra il padre e il figlio adottivo scoppia un litigio all'apparenza banale. Pierre ha quarantott'ore per fare le valigie. Decide subito di cercare fortuna in Francia, a Parigi.
Ed è là, paradossalmente, che si ribellerà, in maniera radicale ma pacifica, al mondo che ha scelto. Siamo nel 1958. Trova lavoro nell'ufficio di un'azienda di materiale agricolo. Poi preferisce il posto di magazziniere, che gli consente di dare libero corso alle sue riflessioni. La sua (nuova) "religione" sarà presto fatta: il progresso è solo un alibi che non serve a migliorare la condizione umana. In nome del sedicente progresso, l'uomo è in realtà profondamente alienato. «Mi è sembrato che la vita, il patrimonio più prezioso dell'uomo, venisse confiscata, condizionata all'ideologia del produttivismo», spiega. «A lungo i popoli si sono trovati in schiavitù forzata: in questo caso si tratta di una schiavitù volontaria. Al limite, se lo sforzo collettivo per il progresso si traducesse nell'equità, perché no? Ma non è così».
Pierre Rabhi aspira solo a ritrovare un'unità, la propria unità. La sua verità, profonda, sarà di vivere in conformità ai suoi ideali, di tradurre in atti parole e pensieri. Di trovare la propria armonia. Dall'altro lato, rifiuta totalmente di vivere in una civiltà "fuori-suolo", come dice, che ha reciso ogni legame con la natura.
Insieme alla moglie Michèle, conosciuta in fabbrica, decide di andare ad abitare in campagna, di vivere del lavoro della terra, proprio mentre tanti compiono il viaggio inverso, partecipando al vasto movimento di esodo rurale dei primi anni Sessanta. Pierre e Michèle Rabhi scovano una fattoria in rovina, una vecchia bacheria per l'esattezza, nelle Cevenne dell'Ardèche, vicino a Lablachère, in cima a una collina dove arrivano solo i carretti su per un sentiero ripido, con infiniti tornanti. Non c'è acqua, non c'è elettricità, ma il posto è così b ello!
Dal momento che non sa nulla di agricoltura, Pierre Rabhi decide di formarsi presso una Casa familiare rurale, mentre Michèle lavora per pagarsi gli studi. Nuova delusione: l'agricoltura che gli insegnano parla solo di concimi chimici e pesticidi, nocivi alla salute di chi li sparge. Perciò, evidentemente, anche alla terra e ai prodotti che l'uomo consumerà.
Rispettare i ritmi della natura, del tempo, per lui resta fondamentale. Non è contrario all'idea di progresso in quanto tale, ma al modo in cui, secondo lui, l'umanità ha traviato la propensione a voler padroneggiare sempre di più il proprio destino. Il colmo della deviazione si colloca, secondo lui, nell'idea di sviluppo come viene generalmente concepita. «Dopo aver compreso che ci si era forse spinti troppo lontano nello sfruttamento della natura al servizio dello "sviluppo", gli si è appioppato l'aggettivo "duraturo". Ma questa nozione resta assolutamente illusoria. Come si può sperare di parlare di "duraturo" finché il sistema non rinuncerà alla bulimia?».
A Pierre Rabhi piace parlare di "decrescita duratura": l'unica soluzione, a suo parere, per evitare il caos che attende al varco andando avanti sulla strada del "sempre più". «Da una parte, il famoso miracolo economico ha avvantaggiato (e avvantaggia) solo un quinto dell'umanità. Dall'altra, è potuto avvenire solo perché i Paesi del Sud hanno fornito materie prime a buon mercato». Secondo lui, si cominciano a vedere oggi i risultati di quello squilibrio planetario: ivi compresi quelli provocati dall'impatto della civiltà "sviluppata" e occidentale sulle altre, quelle dei Paesi "sottosviluppati". «Bisogna immaginarsi la violenza prodottasi a partire dalla colonizzazione. I popoli decolonizzati del Sud si sentono nati da uno stupro, piuttosto che da un atto d'amore. Per di più, si chiede loro di mettersi velocemente al passo con l'evoluzione che i Paesi occidentali hanno compiuto in parecchi secoli. Credo che l'esplosione radicale dell'islamismo co rrisponda attualmente a quella perdita d'identità e a quel bisogno di riferimenti»…
Ascoltando questo discorso radicale si è tentati di chiedere a Pierre Rabhi perché non militi tra gli altromondisti. «Perché vi scorgo un'illusione», risponde schiettamente. Per lui, l'unica cosa da fare è cambiare l'essere umano, cominciando con l'insegnargli, fin dalla più tenera età, a essere solidale con il suo prossimo e non entrare nel circolo vizioso della competizione. Una delle sue figlie, Sophie, ha messo su una scuola Montessori accanto alla fattoria familiare. Lui preferisce l'azione alle riunioni e ai forum mondiali. Insegna le sue tecniche d'agro-ecologia in parecchi Paesi del Sahel (Burkina Faso, Niger, Mali) e anche nel Maghreb, per consentire ai contadini poveri di fertilizzare una terra difficile senza dover ricorrere ai concimi chimici per i quali devono indebitarsi. «Non avendo costruito il mondo con umanità, si è costretti a fare azioni umanitarie», provoca.
Certo, Pierre Rabhi si è lasciato tentare dalla politica, quando ha accettato - su richiesta degli amici - di rispondere all'«Appello per un'insurrezione delle coscienze» e partecipare alla corsa alla candidatura per le presidenziali del 2002. Il candidato ha raccolto 180 firme in tre mesi, insufficienti per presentarsi alle elezioni ma abbastanza per cominciare a farsi sentire.
Per Pierre Rabhi la politica (il politico) è ovunque, in ogni atto della vita quotidiana, nel comportamento di ogni consumatore. Coltivare il proprio giardino (senza concimi chimici, beninteso) è un atto politico, un atto di resistenza. «Riconduce al senso dell'umano - conclude -. La nostra coscienza non ci invita a costruire una condizione umana migliore?».
(Traduzione di Anna Maria Brogi
Per gentile concessione
del quotidiano «La Croix»)
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