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La bomba ecologica di La Spezia

Viaggio nelle zone off limit del golfo Da qui parte il più grande oleodotto d'Italia. Serve a rifornire le basi dell'aeronautica italiana e americana di tutto il nord Italia. L'estate scorsa una perdita ha spaventato gli abitati della zona. A Porto Venere sperimentano proiettili ma, giurano i militari, non all'uranio impoverito
22 marzo 2004
Giorgio Salvetti


Caricano proiettili e cannoni in collina e poi li portano giù verso La Spezia fino al poligono di tiro di Portovenere. A venti all'ora. Con davanti le sirene dei carabinieri. Per le curve della piccola strada che costeggia il golfo, attraversando paesini e porticcioli e sfiorando lo stabilimento Eni di Panigalia dove attraccano le navi gasiere. Questo è il viaggio delle armi che la marina italiana testa al Balipedio Cottrau raccontato da chi giorno e notte se le vede passare sotto le finestre di casa. E poi si sentono i colpi dei cannoni fino a decine di chilometri di distanza, frequenti. Da ottobre a maggio al Balipedio sparano 5.500 proiettili. Ovviamente, giurano i militari, non c'è traccia di uranio impoverito. Ma l'area (11.000 metri quadrati) è protetta dal limite militare e chi vive intorno può solo sentire quello che succede là dentro. I parlamentari però possono entrare e vedere. Lo hanno fatto nei giorni scorsi i deputati Paolo Cento (Verdi) e Elettra Deiana (Prc) su invito del Coordinamento per la Pace della Val di Magra. E' stata una doppia ispezione: oltre al poligono di Portovenere i deputati hanno ficcato il naso anche nei segreti degli impianti di stoccaggio e pompaggio del più grande oleodotto d'Italia, una lunga linea per usi militari che dal porto di La Spezia arriva fino al confine con la Slovenia, interconnessa con la rete di rifornimento in Europa della Nato. L'estate scorsa, durante lavori di ristrutturazione dei serbatoi, c'è stata una perdita, gli abitanti del vicino comune di Vezzano hanno sentito forte odore di cherosene e da allora sono in attesa di sapere cosa sia successo davvero. I precedenti non sono per nulla rassicuranti. A La Spezia, ogni volta che si riesce a intaccare per poche ore il limite militare, si scopre una piccola parte di una verità che tutti sanno ma che nessuno ha il coraggio di denunciare: l'arsenale con le sue mille strutture satellite, tra impianti militari e industrie armiere, in molti casi chiuse e fatiscenti, è una bomba ecologica fuori dal controllo civile e fa parte di un sistema militare internazionale che va ben oltre il diritto di difesa nazionale sancito dalla nostra costituzione.
Lo scorso maggio un'altra delegazione parlamentare era entrata nella base militare e aveva denunciato la presenza di una discarica di materiale ferroso accatastato per decenni su un'area di 17 mila metri quadri soprannominata campo di ferro. Dopo alcuni mesi, per iniziativa della magistratura, un'indagine ha rivelato che in quell'accozzaglia di lamiere, oltre a vari tipi di inquinanti fra cui 13.500 metri cubi di amianto, c'erano anche 760 chili di uranio impoverito utilizzato per la fabbricazione di vecchie pale di elicottero finite al macero. E per questo sono ancora indagati Dino Nascetti e Ermogene Zannini, i due ammiragli che negli ultimi sei anni si sono succeduti alla guida dell'arsenale.
"L'altra volta purtroppo avevamo ragione", borbotta Carlo Ermanni del Coordinamento per la pace mentre i militari controllano i documenti davanti ai cancelli del Balipedio Cottrau. "Niente macchine fotografiche", è un ordine. "Non le abbiamo ma la legge concede ai parlamentari di portarle", risponde Paolo Cento. "Buongiorno onorevole, come va?", sdrammatizza l'ammiraglio Manlio Galliccia. Quattro passi colloquiali, poi tutti in una stanza in riva al mare per imparare, come spiegano gli ammiragli, che al poligono si fanno sperimentazioni per conto terzi. In pratica la marina della Repubblica, a due passi dalle Cinque Terre, fa test per collaudare e provare proiettili e cannoni di fabbriche armiere private italiane, prima fra tutte l'Oto Melara che dista solo una ventina di chilometri, ma anche straniere. La passeggiata continua nel piazzale, un grosso spiazzo di cemento quasi a livello del mare. Il piazzale durante l'ispezione era irrealisticamente vuoto, c'erano solo le divise graduate degli ammiragli. Solo qualche cannoncino è puntato verso tre tunnel distanti qualche decina di metri. Sembrano tre gallerie che attraversano la collina, invece sono solo tre buchi poco profondi. Le ogive più piccole vengono sparate là dentro e i colpi vengono smorzati da un sorta di carrello che sembra il vagone di un treno merci. E' fatto di vari strati di legno e sabbia dove rimangono le schegge dei proiettili dopo lo sparo. Da lì vengono recuperate e ridate alla ditta che li produce per le analisi del caso. "Dopo quanto tempo glieli ridate?", chiedono i deputati. "Questioni di giorni", risponde l'ammiraglio Galliccia, e non si riesce ad avere una risposta più precisa. E in quel magazzino, che c'è? Quello è il deposito munizioni ma è "area classificata", l'ordine nelle mani dell'ammiraglio Galliccia è chiaro: nessuno può entrare. Possibile? "La legge italiana è ancora più chiara - rispondono i deputati - questa è una base italiana e i parlamentari non hanno limiti d'acceso". Dopo una sceneggiata di qualche minuto si scopre che si tratta invece del capannone per il "confezionamento" delle ogive. Il deposito è poco più avanti e questa volta i militari devono aprire le porte. Il pavimento è coperto da casse di proiettili di tutte le grandezze. Quasi tutti sono targati Oto Melara, ovviamente nessuno all'uranio impoverito. I calibri più grossi vengono sparati in mare fino a 30 chilometri di distanza. E quelli sono proiettili che non si possono più recuperare. "Da quel canale si accede al porto - racconta un velista di Portovenere - e il blocco dei militari forse può fermare le petroliere in transito, ma per i diportisti può essere pericoloso. Fino a poco fa sparavano anche d'estate poi si sono accorti che era meglio limitarsi a sparare colpi a mare solo d'inverno". E per accorgersi che l'errore umano è sempre possibile, nonostante le rassicurazioni dei militari, basta pensare che qualche settimana fa un colpo è partito per sbaglio a un pattugliatore italiano ormeggiato in rada. Per fortuna è finito in acqua.
"E allora, ammiraglio, naturalmente voi non fate uso di proiettili ad uranio impoverito?", è la domanda retorica di Paolo Cento che presto si trasforma nell'annuncio di un'imminente interrogazione parlamentare al ministro delle Difesa. Carte d'identità restituite, sorrisi, strette di mano e mentre la delegazione lascia la base incrocia un bambino con lo zainetto. "E' un figlio di militari".
L'ispezione prosegue sulle colline dietro La Spezia, a Vezzano. Dietro un incrocio, una strada tra villette e cascine si trasforma in una sterrata in mezzo all'umidità e al fango dei boschi di una valle qualsiasi. Si chiama val Molinello. Invece è un sito strategico Nato. Qui viene stoccato il cherosene e gli altri combustibili e olii che servono a far volare gli aerei - italiani, Nato e statunitensi - di tutte le basi dislocate nel nord Italia, Aviano compresa. Il combustibile viene risucchiato in Val Molinello dalle petroliere approdate a La Spezia fino a 20mila litri l'ora. Viene stoccato in serbatoi di cemento armato rinforzati da una lamina in acciaio e ricoperti di terra, non solo per impedire il rischio di perdite ma per proteggerli da eventuali attacchi. Quei depositi alimentano il più grosso oleodotto d'Italia. Il North Italian Pipiline System. Una rete lunga 900 chilometri che attraversando 135 comuni porta il carburante fino al confine con la ex-Jugoslavia. Inaugurato l'1 gennaio del 1960, non ha mai smesso di pompare giorno e notte fino a un massimo di 1 milione 600 mila litri al giorno (il record durante la guerra in Kossovo). I graduati dell'aeronautica che lo gestiscono vantano un sistema a prova di bomba, sicuro ed efficiente, "con controlli e precauzioni superiori a qualsiasi oleodotto civile". Sarà. Eppure proprio qui l'estate scorsa, durante i lavori di ammodernamento di alcuni serbatoi qualcuno avrebbe lasciato aperta una pompa "campale", cioè da trasporto e per questo non monitorata dai sistemi di sicurezza. Per i militari questi sarebbero gli unici incidenti possibili e solo di "lieve entità". Una piccola perdita, dicono: al massimo 90 litri. Eppure in paese la paura non è passata, e l'area è ancora monitorata dai militari e dall'Arpal: l'acqua del torrente sembra pulita ma non è certo che il terreno sia del tutto bonificato.
"La nostra iniziativa era e resta prima di tutto contro la guerra - spiega una signora ricoperta di bandiere arcobaleno - volevamo denunciare che i militari italiani aiutano gli americani in Iraq. Ma poi abbiamo scoperto che l'arsenale è una bomba anche ecologica. Lavoro in ospedale e so che a La Spezia sono troppo numerosi i casi di mesotelioma e di forme tumorali legate all'inquinamento. Abbiamo toccato un tabù. A La Spezia l'arsenale con tutto ciò che gli gira attorno sembra inviolabile. Una città nella città. Finché si parla di bandiere arcobaleno e pace in generale, siamo tutti insieme sui pullman per Roma, ma quando si tocca l'arsenale e l'illusione dei posti di lavoro in troppi preferiscono non ficcare il naso nei segreti militari del golfo di La Spezia".

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