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Una storia esemplare

L’uomo che ha umiliato la Chevron

L’avvocato ecuadoriano Pablo Fajardo ha ottenuto contro il gigante del petrolio il più grande risarcimento della storia per disastro ambientale
16 ottobre 2013
Pablo Ximénez de Sandoval
Tradotto da Beatrice Ruscio per PeaceLink
Fonte: El Pais - 06 giugno 2011

Quando si laureò in Giurisprudenza, a 32 anni, l’ecuadoriano Pablo Fajardo aveva già passato più di dieci anni nei tribunali facendo causa a una delle società più grandi del mondo. Nel 2005, si sedette in un’aula del tribunale di New York, con una cartella che conteneva le argomentazioni dei popoli indigeni che vivono nella provincia amazzonica di Sucumbios. Di fronte a lui si sedettero otto avvocati che rappresentavano l’industria petrolifera Chevron, querelata per aver sversato rifiuti tossici senza controllo per quasi 3 decadi. In totale, si confrontava con 39 avvocati pagati dalla terza più grande impresa degli Stati Uniti. “Quello che tra loro ne aveva meno, poteva contare su 25 anni di esperienza”, assicura Fajardo. Lui, solo uno. “Però io avevo un vantaggio”, dice Fajardo. “Non dovevo inventarmi niente. Dovevo solo raccontare una storia”. Nella provincia di Sucumbios, il petrolio impregna qualunque cosa.

Pablo Fajardo, l'avvocato che ha difeso gli indigeni dell'Ecuador contro la Chevron

Questa è la storia di una catastrofe ecologica 30 volte maggiore a quella della fuoriuscita di petrolio dalla petroliera Exxon Valdez, secondo quanto dicono i querelanti. Ma è anche la storia di una sentenza, decisa da un giudice del paese di Lago Agrio, in Ecuador, che ha stabilito la multa più elevata della storia in un’azione giudiziaria per reato ambientale: 8.560 milioni di dollari (multa che è stata successivamente raddoppiata, fino ad arrivare alla cifra di 19,2 milioni di dollari, per il rifiuto categorico da parte della Chevron-Texaco di porgere le proprie scuse ufficiali al popolo dell’Amazzonia,  come da specifica richiesta del giudice. Ndt) Nel mezzo, decadi di sofferenza e morte, in un luogo dove già era sufficiente il dover sopravvivere alla miseria.

È difficile convincere chi non è mai stato lì che “c’era petrolio dappertutto”. In campagna, mescolato con la terra. Nelle case, nell’aria. Sicuramente si trovava sulle strade, perché da quello che racconta Fajardo i camion della Texaco cospargevano le strade sterrate di petrolio, creando una specie di asfalto improvvisato, affinché non si sollevasse la polvere. Fajardo ricorda una gioventù con i piedi pieni di petrolio, i pantaloni macchiati, le pareti…tutto. Era comune perdere le scarpe sulle strade. Immaginate di uscire in strada dopo un acquazzone e di avere ai piedi le ciabatte. Adesso immaginate che invece di acqua è petrolio. La vita è ancora così a Sucumbios.

356 pozzi petroliferi perforati

Secondo i dati di Fajardo, la Texaco perforò 356 pozzi di petrolio nell’Amazzonia ecuadoriana. “Però, oltre a questo, per ogni pozzo che perforava costruiva quattro o cinque piscine per eliminare i rifiuti tossici”. Lì veniva accumulata anche l’acqua tossica usata per l’estrazione del petrolio. “L’impresa costruiva sempre le piscine per i rifiuti il più vicino possibile a un fiume. L’idea era di disfarsi delle scorie in maniera semplice ed economica”. Così, il problema del suolo si spostò all’acqua. Quest’acqua conteneva zolfo e altri elementi tossici derivati dal contatto con il petrolio. Evaporando, cadeva sulla selva sotto forma di pioggia acida. La terra, l’acqua e l’aria sanno di petrolio.

La Texaco, acquisita dalla Chevron nel 2001, iniziò a perforare l’Amazzonia al nord dell’Ecuador, nelle province di Sucumbios e Orellana, grazie a una concessione del Governo nel 1964. Abbandonò la zona nel 1990 e lasciò lo sfruttamento alla Petroecuador. In quella zona vivevano almeno cinque tribù indigene prima che si riempisse di lavoratori e di petrolio. Due di queste, Tetetes e Sansahuaris, sono scomparse per sempre. L’avvelenamento dei fiumi ha ucciso la pesca. Il resto delle tribù passò dall’economia di sussistenza nella selva alla miseria dell’economia di mercato, lavorando per l’industria petrolifera.

Anche Fajardo ha lavorato per la Texaco. Non c’era molto altro. Era adolescente e lavorava aiutando come bracciante quando serviva, per esempio, per ricoprire con la terra, una fuoriuscita di petrolio. Nel frattempo, iniziò a collaborare con una missione di religiosi cappuccini navarresi, dove ebbe la possibilità di studiare e iniziò a vedere cosa significava il “lavoro con le comunità”. “Quando uscivi dai campi ti rendevi conto che il problema era reale. C’era inquinamento, i loro animali morivano, i propri figli erano malati, c’era il cancro, gli aborti…e la gente non sapeva a chi rivolgersi”. Ricorda che l’unica preoccupazione delle autorità locali allora era proteggere la Texaco.

Intorno alla missione dei padri cappuccini, mise in moto l’embrione della resistenza, un comitato per i diritti umani formato da contadini e indigeni. Erano 50 persone organizzate da Fajardo. Aveva 16 anni. Lo cacciarono dall’industria petrolifera e anche da una per la coltivazione della palma che era l’unica alternativa locale. Finì per vivere del suo lavoro alla missione. “Gli stesi preti mi procurarono una borsa di studio, offerta da benefattore anonimo, che finanziò i miei studi all’università”. Studiò Giurisprudenza per corrispondenza.

“Era una necessità. Ogni volta che ci rivolgevamo ad una autorità, ci dicevano “trovatevi un avvocato che vi aiuti”. Decise che sarebbe stato lui l’avvocato. Il piccolo gruppo crebbe con l’unione delle persone coinvolte degli altri villaggi. Il caso diventò internazione grazie alla pubblicazione di un libro, Amazon Crude, di un’avvocatessa statunitense Judith Kimberling. Questo attirò l’attenzione necessaria per trovare avvocati che presentassero la prima querela contro la Texaco. Era il 3 novembre del 1993, in un tribunale di New York, per iniziativa di addirittura tre diversi avvocati americani attratti dalla storia. Nel 1994, l’adolescente che aveva organizzato le comunità colpite terminò la scuola di secondo grado.

Sentenza in Ecuador

La difesa della Texaco a partire da allora si basò sulla dichiarazione che gli Stati Uniti non erano competenti per giudicare il caso. Se un danno c’era, doveva essere giudicato in Ecuador. “Avevano influenza sul sistema politico e giudiziario, erano convinti che avrebbero potuto controllare la sentenza. E di fatto era la verità”. La sentenza tardò nove anni ad arrivare. La Texaco vinse la battaglia il 16 agosto del 2002. La Corte di Appello di New York accettò che il processo si svolgesse in Ecuador, alla condizione che venisse permesso ai querelanti un anno di tempo per rivedere il caso. L’industria petrolifera non aveva idea di quello che aveva appena ottenuto.

Il 7 maggio del 2003, nei termini previsti, venne presentata nuovamente la richiesta di fronte alla Corte di Giustizia di Sucumbios. Pablo Fajardo collaborava con gli avvocati americani e ecuadoriani che si erano fatti carico della causa. Il quinto figlio di José Fajardo e María Mendoza si era laureato in Giurisprudenza nel 2004. L’anno successivo, assunse il caso come avvocato principale. La guerra di esperti e periti arrivò a produrre 106 relazioni peritali distinte, 58 di queste finanziate dalla Chevron, e il resto, dalla controparte. “Tutte dimostravano la presenza di idrocarburi”.

A quel tempo, tutto questo alterco lo stava pagando uno studio di Philadelphia, Khon&Graf, per il quale il caso della Texaco-Chevron era un investimento a rischio. In pratica, se vincevano avrebbero guadagnato parte dell’indennizzo, altrimenti, non avrebbero avuto nulla. Basandosi su una controversa relazione peritale, i danneggiati reclamavano un indennizzo di 27.300 milioni di dollari, avendo stimato tanto il costo del risarcimento per le morti e le malattie, più la ripulitura completa della zona.

“Ci furono testimonianze strazianti. Conosco gente che è morta nel corso del processo. Per esempio, una donna malata di cancro, così come sua figlia. Erano tutte persone così, che lo avevano vissuto”. La gente raccontò davanti ai giudici di come i loro familiari erano caduti nei pozzi tossici ed erano morti avvelenati. “Una signora cadde tentando di recuperare la sua mucca, inghiottì petrolio e morì poco dopo”. L’incidenza del cancro nella regione è anormalmente elevata, secondo i querelanti.

Nel 2004, otto giorni prima che cominciasse la fase peritale del giudizio, William Fajardo Mendoza, fratello di Pablo, fu trovato morto. Aveva 28 anni. Lo torturarono selvaggiamente prima di assassinarlo. “Io non posso affermare che dietro ci sia la Chevron”, ha sempre dichiarato Pablo Fajardo, e continua ad affermarlo. A quel tempo lo avvertirono che stavano cercando anche lui. Ne ebbe la prova una notte in cui due uomini armati fecero la guardia alla porta della sua casa, mentre lui rimaneva nascosto in casa di alcuni vicini. Ha tre figli, di 14, 7 e 3 anni. Tutta la famiglia si è trasferita in altri paesi per sicurezza.

Inquinamento massiccio a livello di Chernobil

I querelanti che rappresenta Fajardo (sono già un collettivo di 30.000 contadini e indigeni) presentano il caso di contaminazione massiccia a livello di quella di Chernobil, della fuoriuscita di petrolio della nave Exxon Valdez in Alaska o il recente della British Petroleum nel Golfo del Messico. “La differenza è che quelli furono incidenti. Però in Ecuador, la Texaco ha progettato il sistema per inquinare. L’obiettivo era estrarre petrolio con il minore investimento possibile”.

Secondo uno dei periti, nei 26 anni in cui la Chevron ha operato a Sucumbios ha risparmiato 8.500 milioni di dollari non adempiendo alle norme più elementari di sicurezza e gestione dei rifiuti.

Da parte della Chevron, Fajardo ha ascoltato in questi anni ogni tipo di argomentazione. Tra le altre cose, dissero che “il petrolio non inquinava”. Inoltre, “che l’Amazzonia era un terreno con giacimenti petroliferi e che lì non avrebbe dovuto vivere nessuno”. In un altro momento affermarono che “il cancro era causato dalla mancanza di igiene degli indigeni”. Arrivarono perfino a dire “che il petrolio è biodegradabile e che dopo poche settimane non si notano più i suoi effetti”.

L’ultima fu a partire dal 2009. “Si resero conto che la sentenza era una minaccia reale”. Presentarono 14 diverse istanze in tutti gli Stati Uniti contro le persone coinvolte e contro chiunque lavorasse con loro per richiedere informazioni. E ci sono riusciti. “Hanno ottenuto tutte le nostre mail”.

Il 1 febbraio del 2010, la Chevron espose un caso di tipo RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations), la speciale legge federale degli Stati Uniti contro il crimine organizzato. La nuova tesi della Chevron è che i querelanti fanno parte di una associazione criminale che ha come scopo quello di estorcere denaro alla compagnia. Nel frattempo, un impiegato della Chevron, cercò, racconta Fajardo, di corrompere il giudice e filmarlo con una telecamera nascosta, per dimostrare che era corrotto.

Il 14 febbraio è stata emessa la storica sentenza nel tribunale di lago Agrio che condannava la Chevron-Texaco a pagare 8.560 milioni di dollari. Ma la società non possiede beni in Ecuador, pertanto bisogna confiscarli all’estero. Tuttavia, un giudice chiamato Lewis Kaplan, del Distretto Sud di New York, ha decretato che la sentenza era inapplicabile negli Stati Uniti finchè lui non avrà deciso di nuovo sulla competenza dei tribunali. “Questo giudice non conosce il problema. Ha emesso verdetti secondo il mio parere antigiuridici e con una convinzione economica e non giuridica”, dice Fajardo. Entrambe le sentenze, a Lago Agrio e a New York, sono state impugnate dalle due controparti.

Uno studio di Washingotn chiamato Patton Boggs si è fatto carico del caso per la parte ecuadoriana.

“La Chevron ha detto che non pagherà. Ma ha investimenti in 50 paesi, e la sentenza emessa in Ecuador dice che l’indennizzo si può incassare in qualunque paese, non c’è bisogno che sia negli Stati Uniti. Dovremo obbligarli a pagare”, dice Fajardo. In pratica, dovranno presentare nuove istanze lì dove la Chevron possiede beni che possono essere confiscati in adempimento alla sentenza emessa in Ecuador. Il giudice Kaplan ha chiarito che, per ora, non sarà negli Stati Uniti. “Questo giudice agisce ignorando il caso e guidato dalle menzogne della Chevron”, dice Fajardo.

La storia continua

Il caso non è chiuso. Durante questi anni, tra i 20 e i 30 milioni di dollari sono stati investiti nella causa da parte soprattutto di avvocati americani che si sono susseguiti nel caso e dalle donazioni da tutto il mondo che ricevono i querelanti. Fajardo assicura che hanno saputo da “fonti degli azionisti”, che la Chevron ha speso 300 milioni di dollari in avvocati solo nel 2010, e in totale in questa causa ha già superato i 1.000 milioni.

Il figlio dei due contadini analfabeti dell’Ecuador dovrà tornare a sedersi molte volte con la sua valigetta di fronte alle decine di avvocati che la Chevron metterà nel caso. E continuerà ad ascoltare che il petrolio non contamina, che il problema degli indigeni è che non si lavano, che lui è a capo di una organizzazione criminale. Durante questi 18 anni, e per tutti quelli che verranno, la Chevron ha utilizzato tutte le strategie di difesa immaginabili. Tutte tranne una. Non ha mai potuto negare che la terra, l’acqua e l’aria di Sucumbios siano pieni di petrolio. È ancora lì.

Tradotto da Beatrice Ruscio per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Titolo originale: "Titolo originale : El hombre que humilló a Chevron. El abogado ecuatoriano Pablo Fajardo logró contra el gigante petrolero la mayor indemnización de la istoria por un atentado medioambiental"

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