I SIN pugliesi, troppi ritardi e poche bonifiche
Un quarto della superficie nazionale dei SIN da bonificare è in Puglia. Cioè su circa 100 mila ettari, dei 39 siti nazionali, 25 mila ettari sono nella nostra regione. 250 kmq di territorio, tra terra e mare, che sono talmente inquinati da essere Siti di interesse nazionale e per i quali urge una bonifica.
E per fortuna (quale non si sa) in questo calcolo non sono inserite le aree regionali o locali anch'esse in attesa di bonifica.
I SIN pugliesi, ai sensi della Legge 436/98, sono "solo" 3: Brindisi, Manfredonia e Taranto, sufficienti però a regalarci i piani alti della classifica italiana. Anche da noi però i ritardi e le lungaggini non sono da meno rispetto al resto del Paese, ma ritardare una bonifica vuol dire aumentare i rischi per la salute dei cittadini e sprecare danari.
Per tracciare il quadro dei SIN pugliesi, abbiamo estratto i dati dal dossier di Legambiente "Le bonifiche in Italia: chimera o realtà?". Partiamo dal più grande, Taranto, per arrivare al più piccolo, ma non meno pericoloso, SIN pugliese, quello di Manfredonia (Fg).
Taranto
Le cronache recenti sull'Ilva, sui sequestri e sui danni alla salute hanno già regalato un amaro palcoscenico alla città dei due mari in materia di inquinamento ambientale. Ma la storia del SIN di Taranto non è solo quella delle vicende Ilva di cui ci siamo abituati a leggere nell'ultimo paio d'anni. I motivi sono due: a Taranto non c'è solo l'Ilva ad inquinare e l'inquinamento di quel territorio non è una storia nuova, anzi.
Il SIN di Taranto ha un'estensione di ben 125 kmq (per capirci, la superficie di Taranto è di 217 kmq!), di cui 73 kmq sono di area marina (Mar Piccolo) che si sviluppano su 17 km di costa. Insomma, matematicamente, è come se si dovesse bonificare più della metà di tutta la città. Il SIN di Taranto è così grande perché le fonti potenzialmente inquinanti sono, e sono state, tante. Già dal 1990, infatti, Taranto era stata inserita tra le aree nazionali ad elevato rischio ambientale perché nel raggio di pochi chilometri nel tempo si sono sviluppate l'Ilva, la raffineria ENI, le centrali elettriche, la Cementir, due inceneritori, le discariche, la base militare, l'Arsenale militare e tante altre aziende.
I noti sequestri del 2012 di alcune aree dell'Ilva hanno indotto il Governo non solo al riesame dell'AIA dello stabilimento siderurgico ma anche a stipulare, il 26 luglio 2012, un protocollo d'intesa con Regione, enti locali e autorità portuali che stanziava 336 milioni di euro di cui 119 milioni per le bonifiche e i restanti per interventi portuali (187 milioni) e per il rilancio sostenibile dell'economia (30 milioni). Secondo Legambiente lo stanziamento è insufficiente rispetto agli obiettivi prefissati, la quota regionale di quei finanziamenti è anche bloccata dal patto di stabilità. A seguito del protocollo d'intesa, recepito dal Parlamento nell'ottobre 2012, si sono aperti, sulla vicenda bonifiche, il tavolo tecnico, la cabina di regia ed il commissario. Ruolo affidato l'11 gennaio 2013 al comandante capo del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco Alfio Pini.
Sul web esiste il sito del Commissario (http://www.commissariodelegatoemergenza.it/taranto/), per ora, dalle attività pubblicate sul sito, è certo che la cabina di regia si sta incontrando spesso, per il completamento dei lavori di bonifica, stando al cronoprogramma delle attività pubblicato sul sito, bisogna attendere il 2016.
Gli interventi di bonifica previsti sono la messa in sicurezza (MISE) dei terreni e della falda della zona industriale di Statte, la bonifica e/o MISE del Mar Piccolo (in particolare il 1° seno), la bonifica del quartiere Tamburi di Taranto e del Cimitero di San Brunone nonché la bonifica di tre scuole del Tamburi dove gli studenti corrono il rischio di studiare insieme alla diossina.
Le attività di analisi e caratterizzazione di questi vari siti hanno evidenziato, per ora, che è possibile trovare di tutto, ci sono i metalli pesanti, le diossine, i pesticidi e alcuni idrocarburi molto cancerogeni.
Eppure, la mattanza dei capi di bestiame alla diossina o le analisi dello stesso formaggio contaminato non sono notizia fresca, sono storie ben più vecchie delle cronache dei sequestri del 2012. Tuttavia, ad oggi, scrive Legambiente, "la Conferenza dei servizi sul SIN di Taranto risente di pesanti ritardi nella definizione delle procedure per le bonifiche" e per alcuni casi, come ad esempio il Mar Piccolo, rimane ancora "non risolta la questione delle sorgenti di contaminazione tuttora attive" che "sarebbero da ascrivere alla Marina Militare alla San Marco Metalmeccanica" e ad altri impianti di smaltimento e stoccaggio rifiuti speciali attualmente sotto sequestro o dismessi. È di questi giorni, inoltre, anche l'allarme lanciato da Confcommercio che punta il dito contro i ritardi della bonifica del Mar Piccolo dove dal 2011 i mitilicoltori non possono più produrre. In tre anni, ribadisce Confcommercio, si sono prodotti solo dati scientifici e non un solo intervento di bonifica.
Emblematica la vicenda della bonifica di quella parte del SIN tarantino che rientra nel recinto dell'Ilva, circa 1000 ettari. La procedura di messa in sicurezza e bonifica è stata avviata da un decennio ma i ritardi sono ancora tanti. Il piano di caratterizzazione, si legge nel dossier, è stato approvato nel 2003 dalla Conferenza dei servizi, è stato ripresentato nel 2007, ma nella conferenza del 2011 è stato ritenuto ancora incompleto. Intanto, all'Ilva è stato imposto a più riprese di effettuare vari interventi di messa in sicurezza, prescrizioni assunte anche dal Ministero dell'Ambiente ma che finivano puntualmente dinanzi al TAR perché Ilva si opponeva. Sempre nel 2011, dinanzi a tutto ciò, il Ministero ha affidato alla Sogesid Spa (strumento in house del Ministero dell'Ambiente e del Ministero delle Infrastrutture per il supporto alle strutture regionali e locali) la progettazione di alcuni interventi. L'anno dopo, il TAR di Lecce ha accolto gran parte delle istanze dell'azienda e nel maggio del 2012 il Ministero dell'Ambiente ha preannunciato ricorso al Consiglio di Stato di cui si attende il pronunciamento.
Non da meno i ritardi della Raffineria Eni: basta notare che la caratterizzazione del sito è iniziata nel 2004 e che sono del 2011 e del 2012 le Conferenze dei Servizi che ribadiscono l'urgenza di "irrinunciabili e improcrastinabili" opere di adeguamento necessarie di fronte ai forti e ingiustificati ritardi. Ritardi riscontrati anche nella bonifica di aree interessate da incidenti e fuoriuscite di gasolio e idrocarburi avvenute nel 2006 e nel 2010
Intanto il tempo passa, gli inquinanti sono sempre lì e si corre solo il rischio che la situazione si aggravi.
Brindisi
Rimanendo nel nord Salento passiamo dallo Ionio all'Adriatico e troviamo il SIN di Brindisi. Anche qui il perimetro del sito racchiude diverse attività industriali e raggiunge, tra terra e mare, circa 100 kmq di estensione. 58 kmq sono di aree a terra, tra pubbliche e private, e altri 56 kmq sono di aree marine. Nel perimetro rientrano tutta l'area industriale gestita dal Consorzio ASI a nord, la centrale termoelettrica di Cerano a sud e tutta la parte di terreno agricolo tra i due poli, poi tutto il porto di Brindisi e il tratto di mare a sud fino a Cerano. Un'area in cui, ricorda il dossier, dagli anni '60 ad oggi si sono avvicendate aziende petrolchimiche e piccoli gruppi per la produzione di energia elettrica, agglomerati artigianali e industriali, aree agricole, aree dell'Autorità Portuale e anche impianti da anni abbandonati e terreni ancora inutilizzati.
Anche per il SIN di Brindisi i ritardi della bonifica sono troppi. Sul fronte privato, alla fine del 2000, solo 6 o 7 aziende delle circa 200 insediate si attivano per le caratterizzazioni del suolo e delle falde. Il fronte pubblico, invece, in mano al Commissario, aspetta il 2004 per utilizzare i primi fondi per la caratterizzazione delle aree di sua competenza. Per sette anni, ricorda Legambiente, dal 2004 al 2011 il Commissario e l'amministrazione trascurano il riconoscimento del "danno ambientale" e solo nel 2007 c'è la firma tra Ministero dell'Ambiente, Enti locali e Autorità Portuale dell'Accordo di programma per la bonifica del SIN di Brindisi. Un accordo che prevedeva una spesa complessiva di 135 milioni di euro tra messa in sicurezza, caratterizzazioni e bonifiche. In 15 anni, dal '98 ad oggi, i dati forniti dal Ministero dell'Ambiente a Legambiente sono disarmanti: la caratterizzazione è arrivata quasi all'80% ma a neppure l'8% dell'area è stata messa in sicurezza e solo sull'8,2% delle aree risulta presentato il Progetto di Bonifica, di questi il Ministero ne ha approvati il 7,8%. Una "situazione ancora lontana dall'obiettivo finale di bonifica", tuona Legambiente.
Alcune aziende (Basell, Daw poliuretani, EniChem, Enipower e Versalis) si sono consociate per affrontare parte del problema (la sola falda), hanno aderito all'Accordo del 2007 e versano al Ministero circa 6,5 euro al metro quadro, distribuiti in 10 anni e senza interessi, per la realizzazione di un intervento di barrieramento. La realizzazione dell'intervento, il Ministero l'ha affidata sempre alla Sogesid e per ora si è solo iniziato a mettere in sicurezza la falda, i progetti di bonifica non risultano ancora approvati.
Circa 20 milioni di euro, tra fondi nazionali e del commissario, sono stati già spesi per caratterizzare l'area industriale esterna al petrolchimico. Una zona che comprende dalle aree pubbliche ai terreni agricoli e in cui sono stati trovati dall'arsenico, ai solfati, al manganese, al DDD e al DDT. Tuttavia, se la caratterizzazione è a buon punto, la bonifica di questa zona non è mai partita e poche aziende hanno aderito all'Accordo. Un'altra caratterizzazione di circa 4 kmq è stata effettuata nei terreni agricoli attorno al nastro trasportatore che porta il carbone dall'area portuale alla centrale di Cerano, in quei terreni c'è una fitta varietà di metalli e pesticidi, nella falda, oltre ai metalli, anche gli idrocarburi.
Accordo, ma per chi?
I dubbi di Legambiente sulla bonifica del SIN brindisino partono proprio dall'Accordo del 2007 stipulato per velocizzare e snellire le procedure applicando il principio del "chi inquina paga".
Principale obiettivo dell'accordo sembra il barrieramento della falda inquinata, progetto affidato a Sogesid. L'impostazione è quella del "danno ambientale" che viene riconosciuto dalle aziende che sottoscrivono l'accordo. Si assumo così la responsabilità del danno fatto e recuperano la disponibilità dei terreni contaminati spalmando in 10 anni la quota di partecipazione all'accordo. Le piccole aziende, però, o i singoli proprietari devono pagare subito o in due anni la quota dei 6,5 euro al metro quadro. Assieme a Legambiente ci chiediamo anche noi il perché di questa differenziazione, considerando che a pagare subito ci sono anche contadini che il terreno l'hanno utilizzato, nel tempo, solo per coltivare e non per farci su un'industria potenzialmente più inquinante. Per tutti gli altri, invece, 10 anni!
Come se non bastasse, i costi del progetto di barrieramento della Sogesid sono lievitati fino a circa 220 milioni di euro ma le aziende aderenti al protocollo, che hanno così riconosciuto il danno fatto, arriveranno a coprire circa metà della cifra. Il resto dei soldi, chi lo metterà? Secondo Legambiente toccherà alle piccole aziende. Intanto, per l'economia locale, sarà solo un altro ostacolo per ripartire.
Manfredonia
Forse, una sorte "migliore" è toccata al sito di Manfredonia, un SIN che comprende un'area terrestre di 2 kmq a terra tra i comuni di Manfredonia, Monte Sant'Angelo e Mattinata e un'area a Mare di circa 8 kmq. Dal 1971, la petrolchimica EniChem, poi diventata EniChem Agricoltura, una centrale termoelettrica e un inceneritore hanno caratterizzato la storia industriale di questo sito. A completare il quadro 4 discariche di rifiuti solidi urbani non autorizzati (Conte di Troia, Pariti 1 RSU, Pariti Liquami e Pariti II) che si stima abbiano stoccato circa 400 mila tonnellate di rifiuti senza avere il fondo e i lati impermeabilizzati, senza un sistema di refluo per il percolato e inquinando anche una parte del mare antistante. Anche qui, le caratterizzazioni hanno trovato i metalli pesanti, l'IPA, il benzene e altri idrocarburi.
Per questo SIN, se pur tra qualche stallo nella bonifica delle aree private, si può dire che la maggior parte della bonifica è stata conclusa, rimane ancora aperta la questione della discarica Marchesi e di una porzione di mare dove la Syndial (società del gruppo ENI che si occupa di bonifiche) non riesce ancora a spiegarsi il comportamento anomalo di alcuni inquinanti. A Manfredonia, però, a metterci lo zampino, e il sale sulla coda all'Italia, ci ha pensato l'Europa. Nel '98, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo aveva riconosciuto per il sito la presenza di impianti in grado di danneggiare l'ambiente e l'Unione Europea ha quindi avviato una procedura d'infrazione contro l'Italia e nel 2008 è arrivata la condanna che obbligava l'Italia ad assicurare lo smaltimento dei rifiuti senza recare danno per l'uomo e l'ambiente.
Se il problema sono i soldi
Secondo Francesco Tarantini presidente di Legambiente Puglia, se le bonifiche non decollano il sistema italiano non potrà mai riconvertirsi alla green economy. "In Puglia" - continua – si deve accelerare il processo di risanamento ambientale risolvendo anche il problema delle risorse a partire da Taranto dove è necessario reperire ulteriori fondi. Situazione analoga anche a Brindisi" dove preoccupano molto le compromissioni dei terreni e della falda delle zone agricole.
Ora, se il punto della questione ritorna sempre sul fronte economico, noi, da pugliesi e da cittadini continuiamo a chiederci: ma, chi inquina paga?
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