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biodiversità, agricoltura, ecologia

Biodiversità e agricoltura industriale.

Nel libro Campi di Battaglia, Vandana Shiva racconta storie di sopraffazione e resistenza, quando la resistenza viene dalla terra, anche da cosa ci seminiamo. Nella relazione si cercano di applicare queste teorie a Taranto.
15 maggio 2014
Antonio Caso
Fonte: Vandana Shiva - Campi di Battaglia

BIODIVERSITA’ E AGRICOLTURA INDUSTRIALE

Perché è importante e quanto può essere utile nelle aree inquinate?

Biodiversità e agricoltura industriale è il sottotitolo di un libro della scienziata e filosofa Vandana Shiva a proposito della tutela della biodiversità vegetale e dell’evoluzione commerciale e scientifica dell’agricoltura industriale.
Spesso, questi due fattori procedono tristemente insieme.
Sulla tutela della biodiversità si spendono sempre molte parole, ma pochi citano e conoscono situazioni concrete, come ad esempio quella dei salmoni.
I salmoni sono, infatti, nel loro ambiente dei veri e propri accumulatori di sostanze.
Gli scienziati hanno trovato tracce di isotopi de carbonio e dell’azoto tra il 25 e il 40% nei giovani salmoni, percentuale che si alza fino al 90% di carbonio e di azoto di origine marina negli orsi grizzly che, ovviamente se ne cibano.
Una volta digeriti, i salmoni diventano il più grande fertilizzante naturale per alberi e piante che distano dall’oceano anche migliaia di chilometri e ne vengono a contatto attraverso i percorsi dei grizzly.
Esiste dunque un rapporto di mutua dipendenza tra ambienti solo apparentemente diversi e distanti tra loro e, anche per questo, la biodiversità non può essere considerata e giudicata in maniera frammentaria.
La biodiversità vegetale è altrettanto fondamentale anche perché accompagnata da metodi di coltivazione molto diversi.
Il futuro di queste due sfere, egualmente importanti, è legato a due paradigmi, a due visioni del rapporto tra la specie umana e le altre; il primo è quello ecologico che vede nella specie umana, una delle specie all’interno di un sistema molto più complesso, e l’altro è quello della “miniera genetica” e della visione dell’uomo e delle altre specie come una sorta di deposito di geni a cui attingere.
Questo, purtroppo, è quello portato avanti dalla Monsanto, industria leader del settore sementi e fitofarmaci.
Dal 2005 è iniziata la produzione e il commercio di sementi OGM, ma, nel corso degli anni successivi, la Monsanto è diventata anche la principale azienda di sementi tradizionali.
Tutto questo ha portato, ovviamente a delle scelte di produzione, che, fino a che si parla di auto è un conto, ma quando queste scelte determinano le colture, allora il discorso è ben diverso.
Migliaia di specie agricole sono state eliminate perché poco convenienti (non in natura, come poi vedremo, ma per la vendita di sementi e fertilizzanti chimici prodotti sempre dalla Monsanto) e questo ha ovviamente causato dei grossi scompensi e non solo a livello ecologico.
Uno dei miti degli ogm è quello di autodefinirsi come salvatori dei popoli affamati.
Come evidenziato nel libro della Shiva, per migliorare l’alimentazione dei popoli più poveri, fu introdotto nel Bengala i “Golden Rice”, riso transgenico con un’elevata quantità di vitamina A, spesso carente nelle diete più povere.
In realtà, però, le contadine del Bengala coltivavano da secoli più di un centinaio di specie di verdure a foglia verde, ovvero grandi contenitori di vitamina A.
Oltre al fatto che la vitamina A presente nel riso transgenico non è prodotta, ma deriva dalla manipolazione genetica e dunque andrebbe controllata molto di più, questo ha letteralmente distrutto l’economia locale favorendo sì l’aumento della vitamina A nell’alimentazione (che comunque c’era già a livelli accettabili), ma distruggendo anche tutte le specie tradizionali che regolavano l’ecosistema del Bengala.
Un’altra conseguenza per la salute dei consumatori è data dai foraggi per i quali le multinazionali (automaticamente la Monsanto e affiliati visto il monopolio) tendono a disprezzare la paglia, in quanto poco conveniente come foraggio.
L’alimentazione del bestiame con scarti di derivazione animale ha indubbiamente favorito la comparsa dei vari morbi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, comprovato quello del BSE (meglio noto come “morbo della mucca pazza”) nel Regno Unito.
Come possiamo, dunque, difenderci da tutto ciò? E soprattutto come questo può essere una marcia in più nei territori inquinati?
Una prima arma è quella della coltivazione della canapa.
Essa è un vero e proprio bonificante naturale che, negli ultimi anni, sta avendo una forte riscoperta dopo un secolo passato da “criminale” per l’uso della sua variante indiana.
Inoltre può dare una forte spinta all’economia e all’artigianato locale.
La canapa, infatti, dalla scoperta delle plastiche tessili e del polietilene è praticamente scomparsa dalle rotte commerciali multinazionali (che in compenso non si sono fatte mai mancare l’approvvigionamento di foglie di coca).
Inoltre, un’altra spinta economica successiva alle bonifiche sta nel frammentare il più possibile il terreno coltivabile organizzandosi in cooperative e consorzi e soprattutto, coltivando quante più specie possibili.
Secondo i dati di una ricerca compiuta nella Nigeria orientale, infatti, gli orti domestici pur rappresentando il 2% della superficie totale forniscono i 50% della produzione agricola.
In Indonesia, gli orti domestici forniscono il 40% del cibo dei nuclei familiari e, ancora più interessante, in Brasile la produttività economica di un’azienda agricola di 10 ettari è stata valutata in 85$/ettaro, mentre, il valore scende a 2$/ettaro per un’azienda di 500 ettari.
Questo avviene principalmente per due motivi:
Il primo riguarda i fertilizzanti, per una piccola azienda è molto più facile utilizzare fertilizzanti naturali che, dunque, non impoveriscono il terreno, ma anzi, lo arricchiscono sempre di più.
Il secondo riguarda la possibilità di queste piccole aziende, fuori dalla logica del mercato multinazionale di coltivare in maniera anticonvenzionale (secondo le grandi aziende, in realtà tradizionalissimo secondo gli autoctoni) ovvero mischiando varie colture nello stesso fazzoletto di terreno.

Si chiama “Land Equivalent Ratio” e misura il rapporto tra un ettaro di terreno coltivato per più varietà ed un ettaro a monocultura.
Per esempio un ettaro coltivato a mais e fagioli (policoltura) rende, a parità di gestione, quanto 1,38 ettari a monocoltura a livello di produttività.
Gli abbinamenti che hanno dato i maggiori frutti dopo secoli di tentativi da parte degli indigeni sono:
miglio/arachidi (1,26)
miglio/sorgo (1,53)
mais/taro/patate dolci (2,08)

Gli strumenti per difenderci dalle coltivazioni industriali ed OGM ci sono e passano per la riscoperta dell’abbandonato, della specie eliminata perché fuori mercato e mostra, ancora una volta, come il passato può regalarci un futuro verde, anche quando il presente è tinto dal grigio dei fumi dell’inquinamento.

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