La trasparenza dei conti del petrolio
E' una «epidemia globale di scandali finanziari» quella denunciata da Global Witness, organizzazione indipendente internazionale che indaga (con vero piglio da investigatori) sul legame tra lo sfruttamento delle risorse naturali e il finanziamento di conflitti e corruzione. Nel suo ultimo rapporto, l'organizzazione che ha sede in Gran Bretagna denuncia che «miliardi di dollari di reddito [di attività petrolifere e minerarie] non sono contabilizzati in alcuni dei paesi più poveri del mondo» (Time for transparency, «E' ora di trasparenza», è stato pubblicato mercoledì: www.globalwitness.org). In altri termini: il petrolio e altre ricchezze minerarie producono grandi flussi di denaro che però sfuggono al controllo pubblico, non creano benessere per i paesi produttori, mentre alimentano corruzione e scandali. Per sostenere questo, l'organizzazione londinese esamina il caso di quattro paesi produttori di petrolio - tre in Africa: Angola, Congo-Brazzaville e Guinea equatoriale, più il Kazakhstan - e uno produttore di fosfati (la minuscola isola di Nauru, nel Pacifico meridionale). Con un'analisi minuziosa dei conti dimostra che «la segretezza circa i redditi pagati ai governi dalla aziende petrolifere e minerarie permette la scomparsa di enormi somme dalle casse pubbliche. Il risultato è una radicata povertà e un'instabilità che possono portare al fallimento degli stati e alla guerra». Global Witness insiste sulla questione della trasparenza, e soprattutto della corresponsabilità delle aziende petrolifere e minerarie: se queste dichiarassero pubblicamente quanto pagano ai governi dove fanno affari, sotto forma di royalties o a qualunque altro titolo (protezioni o altro), sarebbe più facile per le forze della società civile organizzata di mantenere un controllo su come vengono usate queste risorse. Ed è questo il senso di una campagna internazionale (di cui Global Witness è tra i membri fondatori) chiamata Publish what you pay («pubblica ciò che paghi»: www.publishwhatyoupay.org). Qualche dato, dal rapporto di Global Witness, darà un'idea delle dimensioni di questa «epidemia di scandali». Si pensi all'Angola, che esce da venticinque anni di guerra interna e produce 905 mila barili di petrolio ogni giorno: tra il 1997 e il 2001 un quarti del reddito dello stato è scomparsi dai conti, ovvero circa 1,7 miliardi di dollari ogni anno. Il presidente Eduardo Dos Santos è accusato di avere enormi somme in conti personali e segreti all'estero. In Guinea equatoriale, dove il presidente Teodoro Obiang Nguema afferma che il reddito da petrolio è un «segreto di stato», le aziende petrolifere Exxon e Amerada Hess versano una parte dei loro pagamenti direttamente su un conto presso una banca privata negli Stati uniti. La stessa banca ha trattato l'acquisto di dimore di lusso per Obieng e suo fratello, i quali si sono difesi dalle accuse dicendo che erano soldi propri. Con mezzo milione di abitanti e circa 700 milioni di dollari di rendita petrolifera nel 2003, la Guinea potrebbe vivere nella ricchezza: invece ha arricchito solo una «cleptocrazia», mentre secondo gli annuari delle Nazioni unite il 65% della popolazione vive in estrema povertà. Non va meglio in Congo Brazzaville, dove la compagnia francese Total ha appena stretto un accordo con il governo i cui termini sono segreti (Total ha assorbito nel 2000 Elf, riprendendone una pratica corrotta molto criticata). Quanto al Kazakhstan, il presidente Nursultan Nazarbayev ha accumulato circa un miliardo di dollari su conti bancari segreti all'estero, «nell'interesse della nazione» beninteso. Infine Nauru: negli anni `80 il più piccolo stato al mondo è stato anche il più ricco, ma per un periodo brevissimo e solo sulla carta; ormai, con i fosfati in esaurimento resta solo un suolo lunare, delle casse dello stato vuote e una popolazione di 8.000 abitanti talmente poveri che si parla di esilio collettivo e fallimento. Tutti casi di classi dirigenti corrotte, non c'è dubbio: ma con la complicità delle aziende occidentali che pagano e chiudono gli occhi. A meno che siano costrette a dichiarare in pubblico ciò che pagano, possibilmente non in conti privati.
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