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Il mercato europeo dell'aria calda

Si è sempre presentata come la paladina del clima, l'Unione europea. Ha ratificato il Protocollo di Kyoto, l'unico trattato internazionale che imponga ai paesi industrializzati di diminuire le emissioni di gas che alterano il clima (come l'anidride carbonica).
2 aprile 2004
Marina Forti


Si è sempre presentata come la paladina del clima, l'Unione europea. Ha ratificato il Protocollo di Kyoto, l'unico trattato internazionale che imponga ai paesi industrializzati di diminuire le emissioni di gas che alterano il clima (come l'anidride carbonica). Non solo: prima ancora che gli Stati uniti di George W. Bush decidessero di tirarsi fuori e ignorare quel trattato, i 15 si sono impegnati a tagliare da subito le emissioni, senza aspettare che il Protocollo di Kyoto entri in vigore. Dalle parole ai fatti però le cose cambiano. Entro la mezzanotte di ieri ad esempio gli stati dovevano presentare i loro «piani nazionali di allocazione» delle emissioni di anidride carbonica (CO2): solo tre lo hanno fatto - sono Finlandia, Germania (che l'ha presentato martedì) e Austria, che l'ha presentato ieri a poche ore dalla scadenza. Questi piani nazionali sono indispensabili per avviare, il 1 gennaio 2005, un programma europeo di «commercio delle emissioni» (Ets, Emission trading scheme).
Per spiegarsi: il Protocollo di Kyoto impone a 39 paesi industrializzati di tagliare le emissioni di gas di serra del 5,2% in media rispetto al 1990 entro il periodo dal 2008 al 2012. L'obiettivo è differenziato per regioni geografiche e paesi: l'Unione europea si è impegnata a ridurle dell'8% (all'interno dell'Unione l'obiettivo è redistribuito in modo differenziato). Le emissioni di CO2 sono prodotte soprattutto dai combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale), dunque da ogni motore di veicolo e da ogni impianto industriale che brucia energia. Per diminuire le emissioni bisogna consumare meno energia da combustibili fossili, quindi per esempio incentivare le industrie a produrre in modo meno energivoro. E' proprio ciò i dirigenti europei sperano di fare con il «commercio» delle emissioni. Il principio è che ogni governo distribuisce la sua quota di emissioni tra i soggetti economici nazionali, settore per settore, zona per zona: ogni raffineria di petrolio, fonderia, cementificio, fabbrica di ceramiche o di vetro, cartiera, per non parlare delle centrali termiche, saprà quanta CO2 può sparare nell'atmosfera. A quel punto le singole aziende potranno anche commerciare le quote: quelle più lente nel modernizzare la produzione, per rientrare nei loro limiti potranno comprare quote di emissione da aziende che riescono a tagliare più in fretta. Secondo i dirigenti europei, questo mercato secondario spingerà le aziende a modernizzarsi perché è un vantaggio economico, mentre il contrario sarà un onere costoso.
Tutto questo a condizione che ci siano dei piani nazionali di allocazione delle emissioni. A ieri sera però la situazione era nera. L'Europa è in grave ritardo, commentava il Wwf guardando i piani finali e quelli in bozza: «Molti di questi piani sono stati gravemente indebiliti dall'inazione dei governi e dalle pressioni delle lobby industriali». L'Austria, ad esempio, ha infine permesso all'industria di aumentare dell'8% le emissioni di gas di serra rispetto al periodo 1998-2000: il governo lo ha definito «un ragionevole compromesso» tra le esigenze ambientali e l'esigenza dell'industria di non aggravare i costi; Greenpeace lo ha definito una «licenza di distruggere il clima» elargita alle aziende. Anche in Germania, finora considerata all'avanguardia nelle politiche di risparmio energetico, il piano di tagliare le emissioni di CO2 appena del 2% (da 505 milioni di tonnellate annue attuali a 503 milioni di tonnellate nel 2007) è visto come una vittoria dell'industria (il Wwf commenta che «la Germania ha ceduto alla lobby del carbone»). Francia, Gran Bretagna e Belgio avevano annunciato che non sarebbero state in grado di rispettare il termine. La Grecia non ha ancora prodotto in piano, né la Spagna (che chiederà comprensione visto che è in una transizione di governo) e neppure l'Italia, che non si è neppure scusata del ritardo: «Continua a manifestare il suo disinteresse verso la riduzione dei gas a effetto serra», commenta il presidente di legambiente Roberto della Seta. L'Italia dovrebbe tagliare le emissioni del 6,5% entro il 2012 ma invece le ha aumentate di oltre il 5%.

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