«La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo»
Puri racconti, asciutti e avvincenti. Solo che non di tratta di fiction perché Marina Forti, da anni giornalista di questo quotidiano, lavora solo su fatti e persone vere, la gran parte delle quali conosciute direttamente, altre frequentate in rete. Persone singole e moltitudini, accomunate dall'essere fisicamente lontane da noi, in paesi trascurati dai media e frequentati solo da organizzazioni non profit o da multinazionali con guardie al seguito. Che non si tratti di finzione è cosa «disperante», perché ognuna di queste venticinque finestre sul sud del mondo è carica a tal punto di dolore e di ingiustizia che verrebbe da gridare «basta!» e allontanare dalla mente le immagini che la giornalista evoca. Oltre a tutto la parola, quando sapientemente usata, ha una forza di evocazione anche più drammatica dei documentari che ritraggono i bambini scheletrici con il ventre gonfio o i malati di Aids abbandonati a se stessi con gli occhi vuoti. La parola può essere più forte perché non permette di distogliere lo sguardo: meno è retorica, più colpisce.
La signora di Narmada, appena pubblicato dall'editore Feltrinelli (pp. 216, ? 12) è fatto appunto così: venticinque storie di oggi, frutto anche della rubrica «Che aria tira», poi trasformata in «Terra Terra» su questo giornale, in uscita da anni, tutti i giorni o quasi; uno spazio originale, nato un po' per caso in una delle tante riprogettazioni che il manifesto ha conosciuto, ma rapidamente divenuto un genere giornalistico forse unico nel panorama italiano. L'originalità sta intanto nell'essere quelle notizie attualissime, ma fuori regola, nel senso raramente le si ritrova nelle agenzie di stampa internazionali e men che mai sui nostri quotidiani. Talora compariranno in professionali fotoreportage, con immagini lucide e ben scattate, ma paradossalmente questa loro perfezione le anestetizza e le rende consumabili. Non così nella questo libro, dove tutti i riferimenti ci sono e dunque ognuno è chiamato a saperne di più e messo in grado di farlo. Nulla di impressionistico (né di espressionistico), ma giornalismo allo stato puro. Davvero curioso: talora si può esercitare meglio questo mestiere civile occupandosi di cose che non stanno nelle agende ufficiali piuttosto che seguendo le tendenze. (Poiché anche l'autore di questo articolo saltuariamente contribuisce a scrivere quelle righe, sia chiaro che non si tratta di autoelogio, ma solo di una riflessione sulla professione).
Probabilmente deve essere stato difficile per l'autrice scegliere, tra la moltitudine di fatti raccontati negli anni, i 25 qui riletti e riscritti, che si raggruppano in cinque sezioni: acqua e petrolio, dighe e popolazioni espulse, foreste saccheggiate, la corsa alle risorse preziose, gli alberi e la terra.
Non si creda tuttavia che si tratti solo di una raccolta di cose tremende e ingiuste. Ognuna delle finestre aperte rivela almeno due cose non ovvie. Intanto che ogni vicenda, anche drammatica, offre più di una lettura: chi avrebbe da obbiettare, per esempio, al fatto di un parco africano ben curato come la Mkomazi Game Riserve nel nord della Tanzania? E per di più gestito da una charity senza fini di lucro come il George Adamson African Wildlife Preservation Trust? E che male c'è se la stessa organizzazione usa tutti i trucchi dei media come documentari e filmati di teneri leonesse orfane per raccogliere altri fondi? L'altra faccia di questo conservazionismo «da fortezza», con recinti e guardie giurate, è che gli abitanti originari, popolo Masai, sono stati spostati a forza e deprivati delle risorse naturali di cui vivevano. Ed è solo uno dei mille episodi in cui l'intervento illuminato del Nord, «a fin di bene», ha peggiorato condizioni di vita e creato nuovi rancori.
In ognuna di queste storie ci sono sempre delle vittime dunque: popolazioni, tribù, etnie, che l'ingordigia o l'incultura hanno spostato come oggetti, compromettendone il futuro, in qualche caso per sempre.
Il caso più estremo, assolutamente sconosciuto ai più, è probabilmente quello della più grande miniera di oro e rame a cielo aperto del mondo. Dov'è? In West Papua, territorio colonizzato dall'Indonesia in tempi relativamente recenti (nel 1967). E' gestita da una multinazionale mineraria americana, la Freeport McMoRan Copper & Gold, Inc. di New Orleans, il cui sito web sprizza Corporate Social Responsability da ogni pagina. C'è di tutto, dai diritti umani all'impegno verso l'ambiente e persino la foto di un ex giudice distrettuale, Gabrielle K. McDonald, che si preoccupa di controllarne il rispetto e lo sviluppo. Marina Forti invece ci racconta l'altra storia, quella di un'impresa che nel solo anno 2002 versò 5,6 milioni di dollari per pagare le spese e le prestazioni dell'esercito coloniale indonesiano, al suo servizio praticamente esclusivo: sembra una storia presa da quei romanzi di fantascienza dove gli stati non esistono più se non come subterritori della multinazionali, ma è tutta vera.
«La signora di Narmada», che dà il titolo all'intero volume, è Medha Pakar, una biologa indiana che nel 1985 scoprì la vicenda della diga di Narmada, la lunga valle dell'India centrale destinata a ospitare, secondo i progetti del governo e del Fondo Monetario Internazionale, 3200 dighe grandi e piccole. Ma ognuno di questi sbarramenti comporta massicce dislocazioni, praticamente senza indennizzo, di migliaia di persone. Quella lotta decennale ha conosciuto alti e bassi, vittorie in tribunale e persino all'Onu, ma anche sconfitte cocenti, dato che i progetti continuano e nuovi villaggi vengono progressivamente allagati. Madha Pakar ne è divenuta l'animatrice e la faccia esterna, ma sono migliaia i protagonisti di questa resistenza popolare, diffusa e spontanea.
Non è un caso, probabilmente, che Marina Forti dedichi tanto spazio alla questione delle dighe perché queste sono in qualche modo l'esempio più vistoso, ancor più della deforestazione, di idee fasulle dello sviluppo che anche molti paesi poveri hanno fatto proprie, immaginando che la crescita possa avvenire solo lungo i fili dell'elettrificazione e dell'industrializzazione alla occidentale.
Qui entra in gioco un altro filo sottostante al libro: ognuna di queste vicende ha dei protagonisti dal basso e popolari, che agiscono in modo collettivo e organizzato sia per difendere diritti e possessi (una terra, una valle, una sapere), sia, ed è questa la novità più interessante, producendo alternative: magari una diga molto più piccola, locale, autogestita, come a Bilgaon, sempre nella valle di Narmada, dove ora la luce di villaggio c'è, ed è solo merito di chi ci abita e l'ha voluta. E il chilovattore costa di meno.
Dunque sono sia modelli di economia che modelli di organizzazione sociale e a ben pensare le due cose vanno inevitabilmente di pari passo: non possono essere volonterosi militanti del Nord del mondo a produrre altre modalità di rapporto con la natura e tra gli uomini, ma le uniche soluzioni possibili - e cioè sostenibili, umane, civili - sono quelle che nascono in loco. E' la storia, per esempio, di Hamidou Ouédraogo che in Burkina Faso ha coalizzato gli amici in un progetto di democrazia della terra, o ancora dell'intera città di Cochabamba, che bloccò la privatizzazione dell'acqua.
Al cuore di tutto c'è l'idea di bene pubblico, di «commons» come li chiamano gli studiosi anglosassoni. Storia, tradizione e costumi locali dicono che per molti secoli, prima del capitalismo, gran parte delle risorse veniva gestita, protetta e sviluppata proprio con metodi collettivi, centrati su norme di fatto e autodisciplina. In molti casi è un modello economico più efficiente della proprietarizzazione individuale, perché riesce a governare risorse non infinite (per esempio l'ammontare di legna di un bosco) dando a ognuno secondo i bisogni ma reprimendo gli abusi che producono spreco e consunzione del bene pubblico.
Non c'è tuttavia nostalgia arcaica o precapitalistica in questo libro: qui non si sta inseguendo il comunitarismo di villaggio come fuga dagli strazi della società dei consumi. Piuttosto sembra emergere (o riemergere) l'attualità di certi modi di organizzazione che, casualmente sopravvissuti, e dunque apparentemente residuali, oggi diventano proposte valide anche per il nord del mondo (con gli adeguati aggiustamenti). Sia lecito insistere: parliamo di forme di democrazia e di modi di gestire le proprietà: non è affatto paradossale che le comunità hacker dedite all'Open Source valorizzino al meglio le doti dell'individuo e tutelino un bene comune meglio di quanto riesce a fare la seconda azienda più capitalizzata al mondo, Microsoft. Quei modi e quelle relazioni tra le persone sono strettamente parenti, anche se inconsapevoli, di un'idea di comunità arcaica che appariva arretrata e che negli anni più recenti si è pensato di estirpare. Invece gli estremi della post modernità e del primitivismo organizzativo oggi si ricongiungono persino nei manuali di organizzazione aziendale. La politica è l'unica che non sembra averlo capito.
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