"L’ILVA ci dà da mangiare... e ci uccide”
Sulle pareti esterne della chiesa di San Francesco de Geronimo, nel centro di Taranto (Puglia), sono state scritte in nero queste parole: “O l'acciaio o la vita, devi scegliere”. Da quanto tempo è là quella scritta? Un giorno, una settimana, un anno? Impossibile saperlo: nessuno dei passanti intervistati riesce a dirlo. Eppure essa riassume, in maniera clinica, il terribile dilemma col quale da anni deve confrontarsi questa città del Sud Italia di 200.000 abitanti, la cui principale risorsa è esattamente ciò che la fa morire.
In un certo senso, è a questa domanda impossibile che i 10.700 lavoratori dell’ILVA di Taranto hanno dovuto rispondere, in un referendum interno che si è tenuto dal 10 al 13 settembre. Il loro verdetto è stato quasi unanime, e non ha destato sorpresa. Per il 94% e con quasi il 70% della partecipazione, i votanti si sono pronunciati a favore del piano di recupero del sito formulato dal gigante della siderurgia ArcelorMittal, concluso grazie ad un accordo con il governo italiano, rappresentato dal vice-premier e ministro Luigi Di Maio (Movimento 5S), lo scorso 6 settembre. Comincerà nei prossimi giorni una lunga fase transitoria. Il sito dovrà restare sotto tutela pubblica fino al 2023. Almeno cinque anni di sospensione, 4 miliardi di euro di investimenti, impiego garantito per 10.000 persone, 100.000 euro di indennizzo per chi vuole andarsene...I dipendenti non potrebbero desiderare di più.
Un pesante tributo
“In Italia, negli ultimi vent’anni, non ricordo esempi di piani così generosi”, conviene il responsabile sindacale Francesco Brigati (Fiom-CGIL), incontrato davanti ad uno degli ingressi dell’impianto industriale interdetto ai giornalisti. Da dove viene allora questa pesantezza che si avverte nell’aria? C’è che è difficile avere il cuore leggero, dato che nessuno può ignorare il pesante tributo che gli abitanti pagano per il mantenimento della più grande acciaieria d’Europa...
All’inizio c’era la piccola città di Taranto, fondata da esiliati spartani durante l’Antichità, che si era pian piano specializzata, nel corso dei secoli, nella pesca e nella costruzione di navi. La città crebbe lentamente, fino al momento in cui lo Stato italiano decise, all’inizio degli anni ‘60, di insediarvi una acciaieria senza pari. Nell’idea dei governanti, Taranto era chiamata a diventare la locomotiva di tutta la regione, il simbolo del decollo economico del Sud.
Con i suoi cinque altoforni e una produzione che è riuscita a raggiungere i 10 milioni di tonnellate all’anno, l’ILVA è un mastodonte. Per mere ragioni logistiche (l’accesso al mare, collegamenti più brevi), la parte più inquinante della fabbrica è stata costruita in prossimità immediata - appena 200 metri in linea d’aria - dal centro della città. Una scelta le cui conseguenze si sono rivelate drammatiche: oggi, secondo diverse associazioni, Taranto è senza mezzi termini la città più inquinata d’Europa.
Dalla città vecchia, i cui edifici per il 70% sono disabitati, l’inquietante silhouette della fabbrica è onnipresente, come un promemoria perenne della minaccia. E quando il vento soffia in senso sfavorevole (una ventina di giorni all’anno), una spessa nuvola grigio-rosa si abbatte su Taranto, posando dappertutto una pellicola sottile di polvere tossica. “È così, l’ILVA ci dà da mangiare, e allo stesso tempo ci ammazza”, constata con un sorriso fatalista Nicola Giudetti, 81 anni, ex operaio della fabbrica, che da trent’anni vende i suoi dipinti e le sue figurine scolpite in una minuscola bottega del centro.
Nel 2012, dopo anni di mobilitazioni delle associazioni ecologiste, la Giustizia dichiara il sequestro e il commissariamento dell’azienda, privatizzata negli anni ‘90, per “reato ambientale”. Subito la situazione si manifesta in tutto il suo orrore: secondo diversi studi, l’inquinamento ha provocato nella popolazione un aumento della mortalità dal 10 al 15 % e, nei bambini, un numero di tumori superiore del 54% alla media nazionale. Secondo i magistrati, almeno 400 morti sono direttamente da imputare all’ILVA. Per le associazioni si conterebbero almeno 10.000 vittime.
La società, dichiarata in fallimento, è rinazionalizzata nel 2015, nell’attesa di un acquirente o di una chiusura dell’impianto. Ormai sotto la tutela di un commissario nominato dallo Stato, la fabbrica ha visto calare la sua produzione, scendendo sotto i 5 milioni di tonnellate all’anno, molto al di qua del suo punto di equilibrio (intorno ai 7 milioni). Nell’accordo firmato con ArcelorMittal, la produzione dovrebbe innanzitutto risalire a 6 milioni di tonnellate, poi, dopo i lavori per limitarne le emissioni, essere portata a 8.
“Fino a 6 milioni di tonnellate, secondo gli esperti, il rischio è considerato ragionevole, ma superate le 8, invece, è insostenibile”, spiega il militante ecologista Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione PeaceLink, molto critico sull’accordo concluso dal governo. “Le garanzie ottenute sono troppo deboli, denuncia. Mittal riuscirà ad aggirarle senza problemi. Quando pensiamo che qui i Cinque Stelle avevano promesso la chiusura degli impianti...”
Da anni il Movimento portava avanti la campagna per lo smantellamento della fabbrica, con parole durissime nei confronti del Partito Democratico al potere, che cercava ad ogni costo la prosecuzione dell’attività. Localmente, il discorso del Movimento ha incontrato una larga eco - il M5S ha ottenuto più del 48% dei voti a Taranto alle ultime elezioni. Dunque l’accordo con Mittal è vissuto come un tradimento da una buona parte della popolazione, al punto che diversi eletti locali hanno annunciato che abbandoneranno il Movimento.
Dal canto suo, il dirigente nazionale del M5S, Luigi Di Maio, era stato molto meno categorico rispetto ai militanti locali durante la campagna elettorale. Per rispondere alle critiche, Di Maio evidenzia le garanzie sociali e ambientali supplementari che lui dice di aver ottenuto, piuttosto che l’assenza di ogni minima prospettiva di riconversione, in caso di chiusura.
“Il vero problema è che nessun progetto serio è stato sviluppato in tutti questi anni, riconosce Angelo Cannata, operatore culturale nella città vecchia. Uno dei miei zii è stato sindaco, mio padre era militante sindacale. Spesso lui dice di essersi battuto a favore di ILVA e che, in fondo, tutto questo è colpa della sua generazione. Quello che penso io è che Taranto e l’ILVA siano due facce della stessa medaglia. Oggi è diventato impossibile immaginare l’una senza l’altra.”
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