«Lo studio dell’Oms è deludente»
No, niente affatto. Lo studio non è convincente. In svariati punti lamenta l’assenza di dati sufficienti sul tema. E qualche pagina più avanti afferma che allo stato attuale non ci sono evidenze di pericoli. I conti non tornano.
L’Oms ha analizzato oltre cinquanta studi. Non è sufficiente?
Ci sono alcuni studi in merito alla presenza e ai quantitativi di microplastica nell’acqua. Ciò, tuttavia, non ci dice sulla sua pericolosità per l’uomo. L’Oms conferma che non esistono studi circa gli effetti sull’essere umano. Soltanto qualche studio che è stato condotto sugli animali e in parte non ha dati attendibili. Uno studio, eseguito sui cani, è del 1975.
I dati sono troppo vecchi?
Disporre di più recenti sarebbe meglio. A prescindere da ciò, l’Oms trae strane conclusioni: quanto afferma è che le particelle con diametro superiore a 150 micrometri sono innocue. Sono troppo grandi per essere assimilate dall’intestino. Ciò nonostante, nelle analisi delle acque vengono per lo più trovate particelle inferiori a 100 micrometri. Ciò considerato, occorre che mi occupi anche degli effetti provocati da questi frammenti! Oltretutto, soltanto nove degli studi menzionati dall’Oms hanno effettivamente analizzato l’acqua potabile, come tema comune tutti gli altri avevano l’acqua freatica o quella dolce. Inoltre, alcuni studi erano metodologicamente discutibili: hanno, per esempio, cercato microplastiche con il microscopio. Ma con ciò si incorre in molti errori, talvolta una particella di plastica non si lascia distinguere da un granello di sabbia.
Ma fidarsi solo degli studi che mettono in guardia non significa forse avere un rapporto altrettanto complicato con il principio di precauzione?
Non è che non accettiamo gli studi. Semplicemente non ce n’è alcuno. Non vogliamo scatenare il panico. Ma neppure il cessato allarme restituisce lo stato dei fatti.
Focalizzarsi sulla salute dell’uomo è poi così corretto?
Naturalmente non dobbiamo occuparci di problemi ambientali solo quando ci riguardano in prima persona. La microplastica non ha niente a che fare con l’ambiente, visto che, per esempio, nuoce a piccoli organismi marini. Se ci viene posta la domanda: «Cosa succede se le persone mangiano una cozza che ha assimilato microplastiche?», a quel punto diciamo: «Non lo sappiamo». Questo è lo stato della scienza, e lo è a tutt’oggi.
Spesso gli scienziati non possono pubblicare i loro studi se non riescono a dimostrare gli effetti. Ecco perché ne riproducono alcuni in modo artificiale avvalendosi di altissime dosi. Ciò non altera l’osservazione?
Sì, è così. Per esempio, l’Oms cita uno studio sui topi che prevedeva che gli animali fossero nutriti con una ingentissima quantità di microplastica, dovevano finire per ammalarsi. Ma così tanta non avrebbero mai potuto assimilarne in natura. L’interpretazione dei dati, naturalmente, non è semplice. Ma, tanto scatenare il panico, quanto dare il cessato allarme, è scorretto quando si prescinde da una base dati attendibile.
Su cosa si trova d’accordo?
Di sicuro c’è che nell’acqua di rubinetto si riscontra relativamente poca microplastica. Ce ne sono alcune quantità all’interno, ma non esorbitanti. Nelle bottiglie di acqua minerale ce ne sono un po’ di più, ciò potrebbe dipendere dalla confezione. In merito a se questi quantitativi mettano a rischio la salute, non siamo in grado di asserire alcunché.
Non esiste una definizione univoca di microplastica. A chi spetterebbe il compito di fare chiarezza a questo proposito?
Occorre una definizione scientificamente fondata che venga imposta dalla politica. Attualmente microplastiche vengono considerate le particelle inferiori a cinque millimetri. È, tuttavia, una questione controversa, esattamente come i tipi di materie plastiche o i metodi di analisi. In questo modo le analisi eseguite nei laboratori spesso risultano inquinate – dopotutto, anche al loro interno tutto è fatto di plastica.
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