Dall'acciaio all'orto bio
Quarant'anni fa, l'annuncio della chiusura degli altiforni faceva precipitare Longwy in sei mesi di "azioni a pugno chiuso", massicce manifestazioni e bracci di ferro con il governo e i datori di lavoro. La lotta per l'acciaio e l'occupazione fallì, ma gli attori dell'epoca non hanno cessato di vivere per un ideale, come Jean-Claude Feite, divenuto orticoltore biologico.
Jean-Claude si affretta a montare un gazebo. Il suo cuore sussulta. Questo semplice atto gli ricorda Longvy, i concerti che organizzava, gli stand informativi che teneva durante le manifestazioni. Il gazebo lo riporta a 50 chilometri e a 40 anni più in là, alla lotta contro la chiusura degli altiforni. «Avrei potuto immaginare che avrei venduto verdure biologiche a chilometro zero, a quell’epoca? No. Ma per me è la stessa lotta. La sola differenza tra Longwy e le azioni che porto avanti oggi in Belgio, è che ora funziona. Ho appreso di tutto dalla lotta del 1979, salvo il successo…»
Longwy viveva i suoi «Avvenimenti», il suo «Maggio 68 a scoppio ritardato», «la Comune»
La mannaia ha colpito il 13 dicembre 1978: il gruppo siderurgico « Usinor colpisce Longwy a morte», titolava allora il giornale Le Républicain lorrain, confermando le migliaia di esuberi in tutta la siderurgia lorenese. Eppure, persino le cartoline del CGT (Confédération Générale du Travail, sindacato confederale francese, ndT) vantavano che «la siderurgia è vita a Longwy!». Il bacino di Longwy, in quella propaggine della Meurhe-et-Moselle (regione che oggi fa capitale a Nancy, Francia, ndT), chiamata «Il Paese Alto» presentava negli anni ‘50 la più alta concentrazione di imprese siderurgiche al mondo. Nel 1974, la siderurgia lorenese produceva 14,2 milioni di tonnellate di acciaio, più della metà della produzione francese. Cifre record. Per il cui mantenimento 82.600 salariati, di cui un terzo immigrati, sudavano sangue giorno e notte.
Suo nonno, suo padre, i suoi fratelli erano operai siderurgici. Ma non lui, non Jean-Claude. Ha lavorato qualche anno all’industria di lamiere di Mont-Saint-Martin, ma non ne fa un motivo di gloria. “La nostra produzione serviva a costruire piattaforme in alto mare, centrali nucleari o ancora il gasdotto dell’URSS in Siberia, racconta con rammarico. Laggiù erano i prigionieri dei gulag a lavorare in cantiere…nessuno rifletteva al senso della produzione – a che cosa serve ciò che fabbrico? Non potrei forse avere un ruolo propositivo, chiedere che si fabbrichi qualcos’altro con le lamiere che facciamo qua? Qualcosa che abbia un carattere sociale? Perfino a livello sindacale, era impossibile porsi una questione del genere.”
Nel 1979, periodo in cui teneva corsi di alfabetizzazione per lavoratori immigrati nelle fucine Sonacotra di Nancy, Jean-Claude è ritornato a Longwy. Per essere al cuore della «Repubblica popolare di Longwy», allora sulle prime pagine di tutto il mondo. Longwy viveva in quel tempo i suoi «Avvenimenti», il suo «Maggio 68 a scoppio ritardato», «la Comune». Jean-Claude aveva 25 anni e un trascorso in organizzazioni maoiste. Ma ancora non aveva visto niente. Entrò a far parte della sezione CFDT (Confédération Générale Démocratique du Travail, altro sindacato francese, ndT ) di Longwy, attraversata allo stesso tempo da influenze cristiano-sociali, libertarie, autogestionarie e sinistrorse. «La sinistra della sinistra, all’epoca, non era Mélenchon (fondatore e attuale presidente dello schieramento politico “La France Insoumise”, ndT)», ridacchia Jean-Claude, nostalgico, come tanti qua, di quei sei mesi che fecero tremare la Francia.
I «commandos» del sindacato CFDT moltiplicarono le famose azioni «a pugno chiuso»
Dobbiamo immaginarci sei mesi di scioperi, di scontri con la polizia in assetto antisommossa, di blocco delle strade, delle stazioni, delle imprese, dei grandi magazzini. Grazie a dei rivoluzionari mezzi di comunicazione come le prime radio ed emissioni televisive pirata trasmesse clandestinamente dalla CFDT e CGT, la lotta usciva dalla fabbrica e rinforzava l’alleanza di tutta una città, i cortei oceanici si moltiplicavano, fino a 30.000 persone sfilavano per le strade scandendo lo slogan «Longwy vivrà!». Di fronte all’inflessibilità del potere politico, i «commandos» della CFDT moltiplicarono le loro famose azioni «a pugno chiuso» e la CGT fu obbligata a seguire. Dobbiamo immaginare i rotoli di nastro srotolati sulle strade, il commissariato di polizia attaccato con bombe molotov e bulldozer (per ben tre volte), la Camera della Metallurgia devastata, il tribunale saccheggiato, così come i Grandi Uffici metallurgici, il castello di direzione degli altoforni di La Providence incendiato, Johnny Hallyday invitato - «Sequestrato», secondo il giornale Républicain Lorrain dopo un concerto a Metz da alcuni operai siderurgici che gli fecero fare una visita notturna del treno vergella (un macchinario per la laminazione del metallo, ndT) di Saulnes, il Tour de France fermato a Tellancourt, la coppa calcio di Francia rubata al FC Nantes e fatta sfilare sul mercato di Longwy bassa…
La Comunità economica europea sognava di ristrutturare la siderurgia, di adattarla alla nuova realtà economica mondiale. In Francia, il governo di Raymond Barre aveva intrapreso il compito. La sinistra lo concluse dopo il suo arrivo al potere nel 1981. Gli impianti giudicati troppo poco competitivi dovevano essere smantellati. Il numero di salariati nelle tre principali officine del bacino di Longwy è passato da 15.421 nel 1974 a 5.400 nel 1984. E il numero di altoforni in attività, da quattordici a due soltanto.
«Bisogna togliere gli altoforni dalla testa dei Lorenesi»
Inaugurando nel 1989 il parco “Puffi Big Bang” su antiche vestigia siderurgiche in Moselle, Jacques Chérèque lo confermò: «Bisogna che i Lorenesi si tolgano l’altoforno dalla testa.» L’allora prefetto delegato per la riconversione industriale in Lorena e Jacques Delors, presidente della Commissione Europea, furono i principali artefici del Polo Europeo dello Sviluppo (PED), lanciato nel luglio 1985 per «ridinamizzare l’economia» e creare 8.000 posti di lavoro, di cui 5.500 in Francia. In realtà, «il numero di posti di lavoro realmente creati – vale a dire che non esistevano prima del 1985 – durante i 14 anni successivi è inferiore a 4.000, tutti i settori nazionali compresi» ha fatto notare Jean-Claude , che ha condotto una ricerca militante di demografia d’impresa per dimostrare che i dieci miliardi di franchi spesi per il PED non hanno creato posti di lavoro, tutt’altro, ne hanno distrutti! Il fallimento è tale che il PED stesso, attraverso l’Osservatorio dell’urbanismo, gli pagò gli studi, che i rappresentanti eletti hanno stornato «per chiedere delle proroghe a Bruxelles…».
Un giorno, Jean-Claude ci porta sulle alture del Mont-Saint-Martin, presso la Chiesa romana, luogo che domina la vallata della Chiers e il «punto triplo» in cui le frontiere belga, lussemburghese e francese si incontrano. Per mostrarci a che cosa assomiglia oggi il «laboratorio dell’Europa senza frontiere» di Jacques Delors. Un disastro sociale. Centinaia di ettari di abbandono, di rovine siderurgiche definite «da riqualificare» si stendono sotto i nostri occhi. La ciminiera di un’industria di polietilene e di fibre in poliestere sputa fumo in lontananza. «È la sola fabbrica del PED oggi in funzione sul lato francese. Tutto il resto ha chiuso», precisa la nostra guida, prima di indicare con il dito i Grandi Uffici delle Acciaierie di Longwy, di fronte a noi. «Là volevamo installare un’Università del Lavoro.» Oggi è un Centro di formazione, con il suo ufficio di collocamento, il suo mandato locale…
Giusto a fianco, un edificio abbandonato. Come un’immensa chiesa, con magistrali vetrate che formano sorrisi al contrario. È l’immensa hall delle Soufflantes, dove si scaldava l’aria da inviare agli altoforni. «Là lavorava mio nonno. Io avrei voluto farne un’immensa sala concerti.» Trent’anni dopo, l’idea è nuovamente attuale. «Che cos’altro ci resta oltre a questo? Un ipermercato, una scuola costruita con il piano ZUP (zone à urbaniser en priorité, piano urbanistico attivo in Francia tra il 1959 e il 1967, ndT) e un commissariato…è per questo che abbiamo lottato?», si rammarica Jean-Claude, lo sguardo fisso sul transatlantico gigante dell’Auchan di Mont-Saint-Martin che con il suo parco commerciale occupa il vecchio sito della fabbrica di tubi catodici di Daewoo. Aperta nel 1996, chiusa nel 2003. La venuta in Lorena del gruppo coreano era stata una delle più sovvenzionate dal PED. All’epoca, il suo amministratore delegato era inscritto sulla lista dell’Interpol delle persone più ricercate al mondo per aver sovrastimato di 32 miliardi di dollari il valore del suo gruppo provocandone così il fallimento.
«Non c’è un’altra zona in Europa che abbia guadagnato tanto denaro quanto questa, spiega Jean-Claude. Dagli anni ‘60, l’insieme del personale politico e sindacale delle regioni francese e belga si riuniva per prevedere lo smantellamento della siderurgia. Per avere oggi quale risultato? La riconversione industriale promessa dal PED ha lasciato la scena ai divertimenti di massa. Gli ipermercati hanno rimpiazzato le fabbriche di cacciaviti asiatiche, JVC, Daewoo, Panasonic, che si sono intascate milioni di franchi di aiuti pubblici prima di delocalizzare nel paese a minor costo.»
Oggi, Longwy è la città-dormitorio dei lavoratori frontalieri – circa un lavoratore su due è impiegato in Lussemburgo. Il suo centro-città muore, spogliato delle sue attività commerciali che non possono far fronte alla micidiale concorrenza dei 21.500 m² di superficie dell’Auchan di Mont-Saint-Martin. A sua volta esposto alla concorrenza dei 33.500 m² del LexyPark e del suo immenso Leclerc, a un quarto d’ora di distanza in auto. Quest’ultimo a sua volta minacciato dai nuovi progetti commerciali ad Arlon…
«Occupiamo, fabbrichiamo, ci retribuiamo»
Durante gli anni ‘80 e ‘90 la battaglia per l’acciaio e per l’impiego ha impegnato l’energia e soprattutto l’immaginazione della popolazione e dei militanti. «La siderurgia aveva il potere di schiacciare qualsiasi altra iniziativa locale», riassume Jean-Claude. La siderurgia, e non solo. Lo stretto allineamento della CGT con il Partito Comunista e il riallineamento dei comunisti al Partito Socialista (PS), la svolta liberista e repressiva del PS, il modello produttivista di una riconversione imposta dai tecnocrati di Bruxelles e Lussemburgo, l’arrivo delle “fabbriche di cacciaviti” che hanno imposto le loro spietate condizioni di lavoro, poi la loro chiusura, e la disoccupazione…tutto ciò ha atomizzato il movimento sociale, diviso le reti di solidarietà. E, paradossalmente, aperto nuove possibilità, autorizzato nuovi discorsi. Numerose associazioni sono fiorite, oltre che gruppi militanti esterni ai sindacati. Jean-Claude ha partecipato alla creazione di alcune realtà, tra cui una casa per persone disoccupate, una cassa di solidarietà finanziata dai lavoratori per sviluppare progetti in grado di risollevare l’economia locale, o ancora un’operazione di rigenerazione urbana in cui i giovani hanno colorato i loro quartieri di affreschi murali arcobaleno.
Le idee non mancavano. I militanti, sì. «E il coraggio politico pure, manca», aggiunge Jean-Claude. Le “nostre” proposte avevano bisogno di sudore e soprattutto di immaginazione. Ciò che vogliono i rappresentanti politici locali è un dossier Auchan chiavi-in-mano.» E non è la stessa cosa che riprendere in mano la fabbrica di maioliche dei Recollets in forma cooperativa, ad esempio. In seguito all’annuncio del deposito di bilancio da parte del loro A.D. nel 1981, la ventina di operai impiegati hanno occupato la loro fabbrica per quattro mesi, continuando a produrre gli smalti, a loro spese! «Si era riusciti a fare una lotta simile a quella dei lavoratori di LIP: si occupa, si fabbrica, ci si paga, ricorda Jean-Claude. Nell’aprile del 1982, il prefetto diede ordine alla polizia antisommossa di caricare i manifestanti se questi non si fossero allontanati dall’industria. Sgomberammo, installando però la fabbrica di maioliche e il forno per gli smalti all’interno dei locali della CFDT!»
«Si direbbe quasi l’inizio del comunismo»
È nella regione della Gaume che Jean-Claude si è auto-esiliato per ritrovare al meglio lo spirito di Longwy. È entrato a far parte del Centro di animazione globale del Lussemburgo (CAGL), un’associazione creata nel 1977 da «sinistrorsi, ecologisti e qualche prete-operaio». Quando ha incontrato Marianne nel 2007, fu in occasione di una lotta – ci mancherebbe altro – contro la chiusura di un emporio di villaggio a Rossignol. «Allora animavo dei laboratori di educazione permanente per lottare contro la precarizzazione delle donne in contesto rurale, riferisce Marianne. Rifiutandosi le banche di prestare denaro alla donna che aveva in gestione l’attività, facemmo appello alla solidarietà economica dei cittadini e del Comune.» Operazione riuscita: l’emporio fu salvato. Mantenuta da volontari e dai produttori diretti, ha riaperto sotto il nome di “Epicentre” (gioco di parole tra “Epicerie”, ovvero emporio, ed “epicentro” di una scossa di terremoto, ndT) poco lontano, a Meix-devant-Viton, sotto forma di negozio specializzato nella vendita di prodotti bio e artigianali. La precedente gestrice continua a lavorarvi, ora come volontaria. «Si direbbe quasi l’inizio del comunismo», dice Jean-Claude, nascondendo un sorriso sotto le nuvole della sua barba.
Da allora, i due vecchi maoisti hanno percorso un pezzo di strada insieme; creato una rete di commercio di prossimità che comprende tre salariati e venti punti vendita, partecipato alla creazione della prima moneta locale vallona, l’Épi lorrain (la Spiga di Lorena), e animano da ormai dieci anni il mercato contadino di Florenville. E, giustamente, sotto al gazebo c’è la fila. Il sole è arrivato, i clienti pure. Nelle settimane buone, 250 persone passano a far la spesa al mercato. Senza contare i 140 ordini settimanali di cestini di verdure. Cavolo nero, patate dolci, barbabietole arancio-dorate o “chioggia”, rape “boule d’or”…una sessantina di varietà di frutta e verdure, tra cui alcune rare o dimenticate, sono proposte. «Questo mercato è uno dei pochi in cui si possono trovare prodotti locali nella provincia del Lussemburgo, dice una cliente della prima ora. È importante. Siamo nella provincia meno popolata del Belgio.»
Dietro la cassa, Marianne pesa le verdure che la donna le porge. «In fin dei conti, dice, il mercoledì è la giornata più tranquilla. I sei giorni che precedono il mercato, si preparano gli ordini, si confezionano le cassette. Io tengo la contabilità, le fatture, mentre Jean-Claude fa il giro dei circa venti produttori che lavorano con noi.» Ciononostante, questo lavoro a tempo pieno non porta loro che un salario in due, l’unico ruolo remunerato dell’associazione che i due si dividono. Jean-Claude e Marianne preferirebbero passare il testimone al pugno di volontari che li accompagnano. Per prendere un po’ di tempo per sé. Per la prima volta. A 65 anni. «Se non ci fosse stato il 1979, conclude Jean-Claude, non avrei fatto un decimo del cammino personale e collettivo che mi ha portato fin qui. Dieci anni della mia vita hanno innescato tutto il resto.»