Un altro cotone è possibile
27.04.04
Il signor Ahamed è un piccolo produttore di un villaggio del Mali: con due ettari di terra coltivata a cotone ricava più o meno 400 dollari l'anno, abbastanza per sopravvivere ma non certo per mandare i figli a scuola. Il signor Smith, proprietario di una fattoria da migliaia di ettari, riceve 500 dollari di sussidio per ogni due ettari di terra. Nel 2002 Smith si è visto aumentare il sostegno del governo federale mentre Ahmed si è visto crollare le tariffe del cotone sul mercato mondiale. Oggi Ahmed guadagna meno ma spende di più: il costo delle sementi è aumentato del 4,2 per cento, quello dei pesticidi del 21. Ecco perché, come molti altri piccoli produttori africani, è stato risucchiato nella spirale dell'indebitamento.
Tutti contro l'Africa
E' la monocoltura, bellezza. In nome di quello che gli economisti liberisti chiamano "vantaggio comparato" - ovvero "a ognuno il suo prodotto" - i paesi dell'Africa centrale e occidentale hanno legato il destino dei loro cittadini al cotone. Dalle 200 mila tonnellate l'anno degli inizi degli anni '80, grazie alle pressioni della Banca mondiale e del Fondo monetario si è passati oggi a un milione di tonnellate. Per ottenere questo risultato le terre che le famiglie coltivavano per nutrirsi sono state destinate al cotone, ed è per questo che la rivoluzione verde non è riuscita a debellare la fame, tutt'altro. Il Mali, il Burkina Faso, il Ciad e il Benin sono ormai legati a corda doppia alle fluttuazioni del mercato del cotone, da cui ricavano i proventi di circa metà delle loro esportazioni (si va dal 34 per cento del Mali al 65 per cento del Benin).
Alla volatilità dei prezzi agricoli si aggiunge la distorsione creata dagli ingenti sussidi erogati nei paesi del Nord del mondo, mentre al Sud veniva imposto di tagliarli. Campione di assistenzialismo è indubbiamente Washington che, con il recente Farm Bill, ha aumentato del 70 per cento il supporto pubblico, portando il totale a 180 miliardi di dollari. I sussidi al cotone, del quale gli Stati Uniti sono secondo produttore mondiale, hanno seguito lo stesso trend e hanno la stessa finalità: sostenere l'esportazione dei prodotti agricoli statunitensi. L'Unione Europea, con appena il 2,5 per cento del cotone mondiale, sostiene la produzione greca, spagnola e portoghese - quasi tutte aziende di piccole dimensioni - con aiuti che si attestano stabilmente sopra gli 800 milioni di euro. Da questa parte dell'oceano la finalità è più politica che economica. L'Ue è infatti il principale sponsor del Wto i cui accordi sono deragliati nel settembre scorso a Cancun proprio a causa della questione agricola. La settimana scorsa, approvando una cauta riforma dei sussidi agricoli, Bruxelles ha cercato di rabbonire gli africani in cambio di pochi spiccioli.
Inquinamento e bambini
Un altro problema è rappresentato dal fatto che si tratta di una delle coltivazioni più inquinanti che esistano. Sulle terre destinate al cotone, circa il 5 per cento della superficie agricola planetaria, si riversa il 25 per cento della produzione mondiale di pesticidi. E non si tratta soltanto di un problema ambientale visto che, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, ci sono nel mondo almeno 3 milioni di casi di avvelenamenti da pesticidi, che causano 20 mila morti ogni anno. Del resto nei paesi poveri i contadini utilizzano sostanze altamente tossiche senza alcuna protezione, come dimostra il caso denunciato dalla Bbc nel 2002, quando in una sola estate morirono in India 500 persone a causa dell'esposizione ai pesticidi.
Inoltre nelle monoculture si fa largo impiego di lavoro minorile. Nella sola India sono circa 450 mila i bambini che lavorano alla produzione di semi di cotone. Secondo una ricerca dell'Indian Committee of the Nederlands, si tratta di bambini fra i 6 e i 14 anni indirettamente salariati dalle multinazionali europee ed americane oppure tenuti in schiavitù dal datore di lavoro per risarcire i debiti delle famiglie. Possono lavorare anche 12-13 ore al giorno per 40 centesimi di euro, e sono regolarmente esposti alle sostanze chimiche più tossiche in commercio. Tanto per non fare nomi: la statunitense Monsanto e la sua sussidiaria indiana Mahyco impiegano da sole circa 17 mila minori, mentre la ProAgro Ltd, filiale della multinazionale tedesca Bayer, ne impiega altri duemila, in maggioranza bambine.
Sempre secondo la ricerca olandese, utilizzano il lavoro infantile anche la svizzera Syngenta, l'ango-olandese Advanta e la statunitense Unilever, presso le quali sono occupati circa 11 mila bambini. Le compagnie non impiegano i minori direttamente, ma attraverso le fattorie a cui subappaltano la produzione. E naturalmente si oppongono al barbaro costume, salvo però fissare il prezzo della produzione a un livello talmente basso da rendere praticamente impossibile assumere adulti. Un bambino guadagna infatti il 30 per cento in meno di una donna e il 55 per cento meno di un uomo.
Un altro cotone è possibile
Nel mondo almeno 200 milioni di persone sono direttamente impegnate nella coltivazione del cotone e oltre 90 milioni lavorano nella trasformazione della fibra in filati, tessuti e prodotti derivati. Ma, come abbiamo visto, si tratta di un prodotto ad alto tasso di sfruttamento. Proprio per questo motivo Tradewatch (http: //tradewatch. splinder. it), l'osservatorio sul commercio internazionale nato dopo Cancun per iniziativa di Rete Lilliput, Roba dell'Altro Mondo, Mani Tese e la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, ha lanciato una campagna internazionale cui hanno aderito anche Botteghe del Mondo, Altreconomia, Beati i Costruttori di Pace e Crocevia.
Si tratta di far conoscere l'altra faccia della medaglia anche per facilitare la creazione di percorsi "virtuosi" che possano moltiplicare le esperienze di produzione e commercio di cotone eque, solidali e sostenibili dal punto di vista ambientale, cosa che si può conseguire soltanto spostando il sostegno pubblico dall'agricoltura intensiva alla tutela dei saperi agricoli tradizionali, nel Nord e nel Sud del mondo, e al sostegno delle coltivazioni organiche e biologiche. Perché commercio equo non significa utilizzare la crisi dei produttori africani per tagliare i sussidi ai produttori europei, come suggerisce Bruxelles, ma utilizzare l'aiuto pubblico per sostenere l'agricoltura familiare, biologica e di qualità. Ciò che va eliminato sono invece i sussidi alle esportazioni, che stracciano i prezzi agricoli sotto i costi di produzione e strozzano i piccoli produttori. La sfida è quella di costruire un'alleanza tra i produttori del Nord e del Sud del mondo per costruire delle reti commerciali che valorizzino le filiere trasparenti e i consumatori responsabili. Solo così le famiglie e le piccole comunità, in Africa come in Europa, potranno coltivare e lavorare del cotone "pulito", venderlo a un prezzo giusto e riconvertire in parte le terre per la propria sussistenza.
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