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L’attenzione e l’ambizione e le aspettative nei riguardi di questa COP 26 erano alte, altissime

COP26, l’amaro in bocca del realismo geopolitico

Lo scorso weekend si è conclusa la COP26, la ventiseiesima edizione della Conferenza delle parti l’appuntamento che dal 1992 chiama tutti i leader mondiali a decidere le strategie globali per far fronte alla crisi climatica. I pro e i contro dell'accordo raggiunto.
17 novembre 2021
Domenico Vito

Cop26 Glasgow

La conferenza si è tenuta a Glasgow , avendo come uno dei paesi co-ospitanti l’UK (l’altro era l’Italia, che ha ospitato i negoziati della Pre-COP 26 a Milano).

L’attesa era tanta perchè dopo l’Accordo di Parigi, siglato nel 2015,  le parti ossia i rappresentanti delle Nazioni erano chiamati a realizzare il Paris Rules Book, ossia il libretto di istruzioni per operazionalizzare ossia rendere reali e applicabili secondo il diritto internazionale gli articoli dell’Accordo di Parigi.

L’attenzione e l’ambizione e le aspettative nei riguardi di questa COP26 erano alte, altissime: dopo il fallimento di Madrid e due anni di Pandemia bisognava ripartire per non perdere il treno di restare nella traiettoria di 1,5 gradi di riscaldamento globale entro il 2100, indicata dagli scienziati come limite per evitare scenari climatici incontrollabili.

E questa COP è stata proprio un treno in corsa: la prima settimana si è partiti in pompa magna con il World Leaders Summit, la Forest and Land Use Declaration e tante altre grandi dichiarazioni che lasciavano intendere che sicuramente rispetto alla COP25 si voleva fare meglio, ma anche che il rischio di bla bla bla era sempre presente.

Sin dall’inizio la presidenza di Alok Sharma, ha dettato tempi stretti proponendo una risolutezza ed un pragmatismo al limite dell’esclusivo: questi negoziati, stretti nelle limitazioni e procedure di sicurezza sanitaria dovute al COVID-19 hanno spesso lamentato una mancanza di inclusione delle categorie più fragili e delle popolazioni indigene. Tanto che il refrain del Climate Action Network per queste due settimane è stato “Bring the people back to the negotiations” – riportiamo le persone al centro delle negoziazioni.

Con un giorno di ritardo la COP26 si è conclusa. Come è andata?

Sicuramente avrete modo di leggere in queste ore pareri di delusione oppure intrepidi ottimismi. Parafrasando Rudyard Kipling nella sua poesia “Se” trionfo e rovina sono entrambe due abili impostori di un umanissimo narcisismo antropocentrico, che nascondono tuttavia una profonda percezione dei risultati ottenuti da questa COP.

Fallimento o successo difatti non sono due categorie che aiutano a cogliere i verdetti della COP26: è necessaria un’analisi di pro e contro, una contestualizzazione e poi… una buona dose di caparbietà e coraggio.

I CONTRO

Iniziamo dai contro, e dalla macchia più grande. Nel testo della decisione principale della presidenza della COP26, ossia il Glasgow Climate Pact (aka il pacchetto di implementazione dell’Accordo di Parigi ottenuto a Glasgow), non si fa riferimento ad un phase-out, ossia uscita, dal carbone, bensi ad un phase-down , ossia una riduzione entro il 2050.

Questa modifica voluta in extremis durante la plenaria finale dall’ India sta ad indicare che gli stati non sono chiamati ad eliminare del tutto il contributo del carbone nel loro mix energetico per metà secolo, bensì solamente a diminuirlo: un annacquamento delle ambizioni iniziali voluto fortemente dai giganti asiatici (forse anche China in maniera meno palese),  in quanto ad oggi queste potenze in piena espansione industriale sono fortemente dipendenti dal carbone e non se ne vogliono privare – se non con i loro tempi – proprio per non frenare la propria crescita. Sin dall’inizio delle negoziazioni l’India ha spesso dichiarato di non “voler farsi dettare l’agenda energetica dalle UN” e proprio con l’astuzia di far saltare il tavolo all’ultimo momento ha ottenuto questa libertà d’azione, con un certo disappunto chiaramente dichiarato in plenaria conclusiva da Svizzera, Europa e Stati Insulari che per non perdere tutto si sono trovate a dover accettare un compromesso al ribasso.

Tale compromesso porta ad un altro grande punto negativo, ossia che stando agli attuali impegni degli stati rispetto all’Accordo di Parigi,  il contenimento del riscaldamento globale al 2100 è di 2,4*C, ossia molto al di fuori del limite di 1,5°C fissato dagli scienziati dell’IPCC

Il terzo elemento negativo delle decisioni finali della COP26 è stata la mancanza di un accordo sul tema della finanza ossia dei fondi da allocare per mitigazione adattamento e loss and damage previsti dall’Accordo di Parigi. All’inizio dei negoziati si è stimato che i fondi necessari fossero di 1 trilione di dollari USD, ma ad ora non c’è questa disponibilità tra tutti gli stati e non è stata definita a pieno la strategia per la quale questi fondi vengano distribuiti. 

Su questo tema, già nelle plenarie precedenti sia nella conclusiva – come nelle dichiarazioni della stessa Patricia Espinosa, Executive Secretary dell’UNFCCC c’è stato spesso il riferimento ad aprire a fondi privati come quelli della filantropia globale e dei grandi gruppi per raggiungere la somma stimata.

Questo elemento si riflette anche nella mancanza di una chiara allocazione di risorse per i LOSS AND DAMAGE ossia i risarcimenti rispetto ai danni dovuti agli effetti inevitabili del cambiamento climatico come ad esempio gli eventi estremi. Questo elemento va soprattutto a sfavore di quegli stati più vulnerabili che già vedono ingenti le conseguenze catastrofiche dell’alterazione del clima, come gli stati insulari, e costieri soggetti a tifoni e uragani. 

I PRO

Il primo e grande PRO è che ci sono dei testi su cui valutare pro e contro. 

Rispetto a Madrid nel 2019 che si è risolta con quasi nessun progresso nell’implementazione dell’Accordo di Parigi, a Glasgow ci sono degli elementi implementati e soprattutto c’è una bozza di implementazione dell’Articolo 6, cuore dell’accordo.

Nella plenaria le lacrime di Alok Sharma hanno pienamente espresso sia la difficoltà di soddisfare le ambizioni iniziali, sia l’importanza che sebbene mutilati, alcuni risultati ci siano stati. “Era necessario salvare questo pacchetto”, queste le parole del presidente della COP26: si perchè se oltre allo sgambetto dell’India non ci fosse stato altro, a quel punto addio 1.5 gradi, addio Parigi… e addio ambizioni di processi globali di riduzione delle emissioni, se non ricominciando da capo. Non era ammissibile arrivare a mani vuote per una seconda volta.

L’altra nota positiva è stata che i testi negoziali hanno finalmente chiaramente riconosciuto l’1,5 gradi al 2100 come soglia di riferimento per il contenimento del riscaldamento globale. L’accordo di Parigi era nato con un vizio di forma, ossia l’incertezza nel fissare i proprio obiettivi tra i 2.0 e gli 1,5: gli scienziati dell’IPCC avevano chiarito con lo Special Report 1.5°C, che la soglia non era negoziabile. Ora dopo quasi 3 anni finalmente abbiamo chiarito l’orizzonte di riferimento.

Cruciale la presenza di una bozza dell’Articolo 6: ci avevamo provato anche alla COP25 con il risultato che proprio per l’aver preso sottogamba questo elemento, si era arrivati con un testo che ha avuto lo stesso effetto di un tema fatto dopo aver studiato il giorno prima ad un esame. Così sintetico e da contenere solo i titoli, ed essere fuori consegna.

La bozza attuale non è il non plus ultra, sia chiaro. Ma contiene enormi passi avanti, nell’inclusione dell’attenzione ai popoli indigeni e alle comunità e nella considerazione delle non-market based solutions ossia quelle strategie di riduzione delle emissioni che non sono solo dovute al mercato delle emissioni .

Il testo è ancora debole, e i riferimenti ad esempio alle nature based solutions ossia le soluzioni che si basano sul ripristinare gli ecosistemi naturali hanno dovuto “lottare” per esserci e la loro ricezione non sarà facile. 

Tuttavia era importante che ci fosse un Art.6 implementato perchè di base, va a sostituire il Protocollo di Kyoto nel creare un mercato delle emissioni; protocollo tuttora vigente che però ha dimostrato la sua inefficacia fisica nell’aumentare del 50% le emissioni dal 1993 al 2012, anzichè ridurle al 2.5% come si prefissava.

Sempre riguardo alle emissioni, è stato approvato il testo del meccanismo di trasparenza: ossia il dispositivo per conteggiare correttamente e senza doppioni la riduzione di emissioni effettiva a seguito delle strategie presentate dagli stati.

Sebbene i fondi siano il problema, per le misure di adattamento e Loss and Damage (L&D) la buona notizia che da Glasgow nascono il Glasgow Sharm’el Sheik Workplan on Global Goals of Adaptation e il Santiago Network on L&D.

Il primo mira a creare le competenze e le conoscenze per definire alti obiettivi di Adattamento e già vede concreta applicazione nella proposta di Maldive e Egitto di ospitare due workshop per dare avvio a questo programma di lavoro.

I secondi, sebbene ancora non finanziati, vogliono mantenere delle reti di supporto e di discussione per quegli stati già colpiti dagli eventi estremi.

Dalle dichiarazioni di Antonio Guterres , segretario generale delle UN e della stessa Espinosa ci si aspettava di certo un risultato più ambizioso.

Ma l’ambizione deve spesso fare i conti con il realismo geopolitico, dato dal fatto che forse non è così assodato che tutti gli stati vedono la transizione allo stesso modo. E reclamano a torto o ragione la stessa libertà di azione che gli stati “industrializzati” che hanno creato il problema hanno avuto in passato.

Se si vuole un accordo globale – e questa è l’unica soluzione possibile per una soluzione coordinata alla crisi climatica – bisogna tenere conto delle differenze.

Senza facili ottimismi e al di la di altrettante facili disperazioni, di certo si può osservare che oltre ai meri risultati dei negoziati questa COP 26 ha restituito anche altre cose che possono in qualche modo supportare le mancanze nei verdetti decisionali. 

Sono nati a Glasgow diversi accordi bilaterali tra stati al di fuori dell’accordo di Parigi che possono favori l’alta ambizione e la cooperazione internazionale per la transizione ecologica; alcuni esempi sono la dichiarazione congiunta sugli impegni intrapresi per affrontare la crisi ambientale e climatica tra USA e Cina, il riaffermarsi degli impegni della coalizione di San Josè per l’alta integrità dei carbon markets e la persistenza e l’ampliamento della High Ambition Coalition

Inoltre in questa COP diversi spazi si sono aperti per la partecipazione dei privati alla lotta climatica, che se monitorati e gestiti – come lo stesso segretario UN Guterres si propone di fare con una commissione ad-hoc per valutare i contributi di riduzione alle emissioni per gli attori non statali – possono rappresentare un ottimo contributo.

In ultimo, ma in ordine inverso per importanza, la società civile: viva e “sul pezzo” più che mai. Giovani e attivisti, come lo stesso Alok Sharma ha affermato sono stati la pressione costante dell’ambizione. E devono rimanere tale, perché non siamo per nulla ad un punto di arrivo, ma ad un punto di inizio.

Come Barack Obama ha affermato nel suo discorso, i giovani e gli attivisti devono rimanere arrabbiati e ambiziosi, ma incanalare la loro azione per entrare nei tavoli di decisione.

E’ qui dove è necessaria quell’energia per contrastare “i guastafeste”, che in una forma o nell’altra sono sempre presenti. 

Sempre citando Obama, questa COP26 è solo una piccola vittoria di un processo irto di compromessi, mediazioni e anche fallimenti. Ma come nello scalare una montagna, non può essere un passo indietro a scoraggiare. Occorre perseverare per raggiungere la meta. 

Con realismo e visione. 

Pragmatismo e ambizione.

Senza fermarsi ai bla bla bla, ma applicando una speranza attiva.

Note: Articolo inserito da Laura Tussi su richiesta di Domenico Vito

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