PFAS: ecco perché non ce ne libereremo mai
Lo studio dell’Enviromental Working Group (EWG) pubblicato lo scorso gennaio sulla rivista Science Direct, è l’ultimo di una serie ormai sempre più lunga. Esamina gli effetti negativi di alcuni composti chimici facenti parte di un gruppo di sostanze prodotte dall’industria: le sostanze per- e polifluoroalchiliche, in breve le PFAS.
Lo studio si concentra sui pesci d’acqua dolce catturati per il consumo nei fiumi e nei laghi del Nord America. Il gruppo di ricerca ha analizzato oltre 500 campioni risalenti al periodo 2013–2015. Risultato: i pesci catturati in natura erano contaminati da PFAS in quantità 280 volte superiori a quelle riscontrate nel pescato messo in commercio. Complessivamente la concentrazione dei composti chimici nei campioni era ben 2400 volte superiore alla soglia raccomandata dall’Environmental Protection Agency (EPA).
«I risultati dell’analisi lasciano attoniti», ha dichiarato Scott Faber, vicepresidente senior degli affari federali dell’EWG. «Mangiare un pesce d’acqua dolce è come bere acqua contaminata da PFOS per un mese».
Il PFOS, ovvero l’acido perfluoroottansolfonico, è uno dei tanti composti chimici del gruppo delle PFAS. Queste sostanze non sono presenti naturalmente nell’ambiente. Vanno prodotte industrialmente sostituendo parzialmente o totalmente gli atomi di idrogeno delle catene carboniose con atomi di fluoro. Le PFAS respingono l’acqua, il grasso e lo sporco e sono termicamente stabili. Grazie a queste proprietà, dallo loro scoperta negli anni 40, vengono usate per la produzione di numerosi oggetti di uso quotidiano: dagli utensili da cucina ai tessuti e ai cosmetici fino agli imballaggi, ai pesticidi e ai materiali antincendio.
Perché le PFAS sono pericolose?
Per via della loro vastissima gamma di applicazioni, le PFAS si sono accumulate rapidamente e in grandi quantità nell’ambiente. Tramite acque e suoli contaminati entrano nella catena alimentare, nel sangue e nei tessuti umani e animali – e vi restano dal momento che sono estremamente persistenti. Affinché nell’organismo umano si riducano della metà occorrono, a seconda del tipo, da 4,4 a 8,7 anni. Ne vengono espulse a fatica. Ragion per cui sono soprannominate «sostanze chimiche eterne».
Mentre la loro utilità è stata riconosciuta in tempi relativamente brevi, delle conseguenze negative di questa famiglia di composti organici di sintesi ci si è resi conto solo tardivamente. Benché le PFAS attualmente si trovino ovunque, le informazioni sui loro effetti sono ancora molto limitate. Allo stato odierno della ricerca, tuttavia, possono essere associate a tutta una serie di gravi problematiche per la salute: insorgenza di tumori; danni al sistema immunitario e al fegato; infertilità; complicanze della gravidanza; maggiore rischio di sviluppare il diabete; disturbi dell’apprendimento e del comportamento nei bambini.
Diffusione incontrollata: piovono PFAS
Nel frattempo l’entità del problema va emergendo sempre più chiaramente. Dopo esserne già stata accertata la presenza nel latte materno, uno studio del 2020, incentrato sui minori tedeschi tra i 3 e i 17 anni, ha rilevato PFAS nel sangue di tutti i soggetti esaminati.
Nel 2022 un team di ricercatori dell’Università di Stoccolma e dell’ETH di Zurigo ha scoperto che perfino la pioggia è altamente contaminata da PFAS. I composti chimici raggiungono anche le regioni più remote della Terra tramite il ciclo dell’acqua e sono già stati individuati in Antartide e sull’altopiano tibetano. A parere di Ian Cousins, scienziato ambientale dell’Università di Stoccolma tra gli autori principali dello studio, «in base alle ultime linee guida statunitensi per il PFOA – cioè l’acido perfluoroottanoico – nell’acqua potabile, l’acqua piovana andrebbe classificata ovunque come non potabile».
Anche nell’UE ci sono delle soglie per la somma delle PFAS nell’acqua potabile. E tuttavia vengono regolarmente superate, dato che questi composti continuano a essere prodotti e rilasciati in un ambiente già pesantemente inquinato. Poiché non si dissolvono, vanno attivamente eliminati dall’acqua e dal suolo, eppure, ad avviso di Martin Scheringer, anche lui tra gli autori dello studio e chimico presso l’ETH di Zurigo, «c’è ben poco che possiamo fare per ridurre le contaminazioni da PFAS».
Bonifica: costosa e complicata
Rimuovere le PFAS da terreni e falde freatiche contaminati, è un’impresa difficile. A causa delle loro particolari proprietà, le tradizionali procedure di bonifica non sortiscono effetti degni di nota. «Le PFAS non svaniscono se i prodotti vengono gettati via o sottoposti al lavaggio», chiarisce Tasha Stoiber, direttrice scientifica dell’EWG. «La nostra ricerca mostra come le modalità in uso per lo smaltimento dei rifiuti possano effettivamente aumentare l’inquinamento ambientale».
Secondo l’Umweltbundesamt, le PFAS possono essere smaltite completamente solo in inceneritori di rifiuti speciali ad alta temperatura. Oltre al fatto che la disponibilità di questi impianti e di discariche adeguate è insufficiente rispetto alle esigenze, il procedimento comporta costi elevati.
Per Jane Muncke, tossicologa ambientale e presidente della Food Packaging Forum Foundation di Zurigo, chi debba farsene carico è evidente: «È inaccettabile che un numero ristretto di persone faccia profitti mentre inquina l’acqua potabile di milioni di persone. Le enormi somme di denaro che costerà riportare le PFAS nell’acqua potabile a livelli che, stando alle conoscenze scientifiche attualmente disponibili, sono sicuri devono essere pagate dall’industria che produce e adopera queste sostanze tossiche».
Perché non vengono vietate?
Prima che una sostanza possa essere vietata, anzitutto vanno fornite laboriose prove sulla sua pericolosità per l’ambiente e la salute. A complicare ulteriormente la situazione nel caso delle PFAS, c’è il fatto che alcune di esse sono componenti essenziali di prodotti indispensabili come schiume antincendio, indumenti protettivi e dispositivi medici che non possono essere rimpiazzati facilmente. La loro utilità va perciò valutata alla luce del danno che comportano – un processo che richiede anni.
Ecco perché nell’UE sono vietate solo quelle PFAS i cui effetti negativi sull’ambiente e la salute umana sono stati chiaramente dimostrati – tra queste, dal 2020 e con alcune limitazioni, anche il PFOA. In questi casi, la maggior parte delle volte l’industria sostituisce le sostanze regolamentate direttamente con altre PFAS sulla cui pericolosità non esistono informazioni e che dunque non sono sottoposte a restrizioni. E poiché allo stato attuale si conoscono oltre 10mila tipi diversi di PFAS, questo gioco potrebbe protrarsi all’infinito.
Visto che negli ultimi anni è emerso sempre più chiaramente come a essere problematico sia l’intero gruppo delle PFAS, Germania, Danimarca, Norvegia, Svezia e Paesi Bassi hanno congiuntamente preparato un «dossier normativo» per bloccarne l’impiego superfluo. Sulla proposta presentata lo scorso gennaio all’Agenzia europea delle sostanze chimiche, quest’ultima dovrà pronunciarsi entro un anno.
Per gli autori dello studio sull’acqua piovana, quest’iniziativa non è sufficiente. Dal momento che la contaminazione da PFAS è un problema globale, a loro avviso sarebbe sensato introdurre un valore limite valido in tutto il mondo. Ciò nonostante, secondo Martin Scheringer, «questo limite, come abbiamo dimostrato nel nostro studio, è già stato superato».
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