“Lo Stato non può salvare l'ILVA"
“Lo Stato non può salvare l’Ilva”. Nel 2005, Alessandro Marescotti fu tra i primi a denunciare che a Taranto era presente l’8,8 per cento della diossina industriale europea. Docente e attivista dell’ambientalismo tarantino, negli anni ha continuato a interessarsi alle vicende della fabbrica e, mentre si registrano le ultime battute politiche per provare a tenere in piedi l’acciaieria, la sua speranza è che possa invece chiudere una volta per tutte. “Ma come si mangia senza l’Ilva?”, gli hanno chiesto i suoi studenti. In un paese che fatica a vedere un piano B, aldilà della fuga per chi può permettersela, la salvezza secondo Marescotti sta nella riconversione.
Alessandro Marescotti, il suo impegno sull’Ilva di Taranto va avanti da decenni. Con quale stato d'animo sta assistendo a questo continuo rinvio delle decisioni sulle acciaierie?
È lo stato d’animo di chi aveva purtroppo previsto queste cose già da dieci anni. L’Ilva non era strategica e sostenibile da un punto di vista ambientale ed economico, perché dopo l’intervento della magistratura e con il calo della produzione non riuscivano più a pareggiare i conti. È brutto dire “ve l’avevamo detto”.
Nel 2005, con l'associazione Peacelink, denunciò i livelli di diossina a Taranto. A quasi venti anni dall'inizio di quella battaglia, cosa è cambiato? I livelli di inquinamento e di malattia destano ancora preoccupazione?
Allora la parola al centro del dibattito ambientale era “diossina”, che continua a preoccupare perché quella ricaduta nell’ambiente persiste. L’emergenza attuale si chiama però benzene. Peacelink ha denunciato per prima la presenza di picchi di benzene, un cancerogeno certo. Tutti gli approfondimenti fatti da Arpa, l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale, sono volti a capire da dove fuoriuscissero questi picchi. Il benzene nel quartiere Tamburi risulta con concentrazioni in aumento negli ultimi anni, in particolare gli ultimi due, che hanno visto l’acciaieria mettersi a norma con le prescrizioni ambientali, che risultavano non attuate. È paradossale, dal momento che queste prescrizioni venivano sulla carta ottemperate. C’è un indagine in corso.
Veniamo a un'altra data chiave, 26 luglio 2012. Anche a seguito delle vostre battaglie, arrivò il sequestro per l'Ilva targata Riva. Con il senno di poi, è stato un bene oppure no?
È stato assolutamente necessario, perché gli impianti avevano un impatto su ambiente e salute inaccettabile. La situazione è stata acclarata da perizie, sulla base dell’evidenza scientifica: disastro ambientale con forte impatto sanitario, circa trenta decessi al mese in più rispetto all’atteso. La condanna di primo grado ha portato ad avere un quadro della situazione chiaro, dimostrando, seconda la sentenza, associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale e avvelenamento delle sostanze alimentari.
Il rischio concreto per Taranto è la desertificazione industriale. Come vede il futuro della città?
Non credo sia questo il rischio. In questo momento la città è già in ginocchio perché non esiste nessuna alternativa, a Taranto gli immobili non si riescono a vendere. La città è già in uno stato di desertificazione. La crisi dell’acciaieria dimostra che il motore è inceppato, nonostante sia stato provato a rilanciarla più volte: sono stati provati tutti i sistemi, pubblico, privato, ibrido, decreti salva Ilva, aiuti di Stato. La desertificazione viene prodotta da questa situazione. Gli studenti, a Taranto, se possono scappano via. Lo dico da docente.
Qual è secondo lei allora la soluzione per Taranto, se ne intravede una?
Bisogna fermare questi impianti che producono impatti non accettabili sulla salute pubblica. Già da oltre dieci anni, quando la situazione era chiara, andava progettato un piano B, per uscire fuori dalla crisi con una riconversione. Il piano B, la salvezza, al momento ce l’hanno solo le famiglie con sufficiente reddito per mandare i figli fuori, a farsi una vita altrove. Bisognerebbe invece vedere quanti casi Taranto ci sono stati nel mondo, perché non è un unicum. La siderurgia nel mondo ha trovato diverse aree di crisi. In alcune di queste, si è evoluta in innovazione. Pittsburgh, ad esempio, era definita un “inferno senza coperchio” quando c’erano le acciaierie più importanti degli Stati Uniti, ora è una delle città più green. Bisognerebbe vedere quali sono stati gli esperimenti di successo, con una riconversione ecologica dell’economia e fare un copia-incolla su Taranto. Il problema non è l’assenza di progetti, gli esempi virtuosi sono tanti. Il problema è che a Taranto non c’è stata una classe politica, un sistema formativo, tale da riconvertire i lavoratori ed educare gli studenti per formare il capitale umano. C’è una forma di dipendenza anche mentale.
In che senso?
Quando raccontavo ai miei studenti che Taranto era una città della Magna Grecia con 200mila abitanti, e non c’era l’Ilva, loro mi rispondevano: “E come facevano a mangiare senza l’Ilva?”. Se ponevo esempi di città che puntano sul green per trainare l’economia, replicavano: “Ma noi siamo a Taranto, non siamo in Germania, Stoccolma, Pittsburgh”. Sottinteso: non siamo in grado.
Un alibi o la realtà?
Alle volte è una scusa, ma c’è del vero. Se si investe nel sistema formativo e non si forma il capitale umano, non si può attuare una riconversione.
Molti a Taranto hanno combattuto per anni per i loro diritti. Secondo lei prevale ancora lo spirito di lotta, o la rabbia ha lasciato il passo alla rassegnazione e alla stanchezza?
Quando ci sono concrete speranze di un cambiamento i cittadini scendono in piazza. Taranto è stata una città molto generosa, che ha visto mobilitazioni anche di 30mila persone nei momenti più critici e ha sostenuto la magistratura nella propria azione. La classe operaia, che chiede il mantenimento del posto di lavoro attraverso la continuazione della capacità produttiva, a Taranto non ha alleati. In altre città i lavoratori hanno la solidarietà, qui no perché i cittadini hanno paura di quella fabbrica. Noi lavoriamo affinché i lavoratori abbiano solidarietà nel caso in cui riescano a essere i protagonisti della riconversione.
C’è quindi una divisione interna nella popolazione, tra chi vuole la salvezza dell’Ilva e chi la sua fine?
I cittadini tarantini non hanno ostilità nei confronti dei lavoratori, la cosa migliore sarebbe lottare insieme. Il disastro ambientale non è colpa loro, ne sono state le prime vittime. Nel 2012 i dipendenti dell’acciaieria bloccarono tutta Taranto. Si respirava quasi un astio: i cittadini andavano sotto la Procura per sostenere i giudici, i lavoratori sfilavano per la città con gli striscione contro i giudici. Questo non c’è più, oggi questo clima non si respira più. Se dovesse esserci uno scontro sul futuro dell’Ilva, io credo che i lavoratori non bloccherebbero più la città, ma la fabbrica. La rabbia non si dirigerà sui cittadini.
All’inaugurazione dell'Ilva di Taranto nel 1971, Aldo Moro parlò di una “grande occasione del Sud”. Ancora Mittal nel 2017 parlava dell’acciaieria d’Europa. Cosa resta di quelle illusioni? Crede anche lei che il futuro passi dal salvataggio da parte dello Stato?
È un fatto matematico: lo Stato non può salvare l’Ilva. Questa fabbrica non ha futuro. È stata la più grande acciaieria. Era in grado di produrre quasi 11 milioni all’anno di tonnellate di acciaio. Quando superava gli otto milioni, aveva profitti elevatissimi ed era in grado di battere anche la concorrenza cinese e sostenere aumenti salariali e straordinari. I lavoratori dell’Ilva stavano bene, avevano ottimi stipendi. Otto milioni è il punto di equilibrio: se scendi sotto, produci in perdita. Con il cambio degli scenari a livello mondiale e con l’intervento della magistratura, la produzione non ha più superato gli otto milioni. Si è prodotto quasi sempre in perdita.
Allegati
Tesi di laurea
Federica Sansone17 Kb - Formato docxIL CASO ILVA E IL PROBLEMA DEL RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI UMANI NELLA SOCIETÀ GLOBALIZZATA: l’istituto dei risarcimenti punitivi come strumento di riequilibrio del sistema
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