Gli "ambientalisti" in Francia e "l'ecologia di guerra"
Con l'accelerazione della svolta militarista in Europa una domanda circola soprattutto fra i parlamentari ambientalisti: si può conciliare lo sviluppo dell'industria militare con la tutela dell'ambiente?
"La spesa ambientale contribuisce alla nostra indipendenza dai combustibili fossili di Russia e Stati Uniti", ha affermato Marine Tondelier leader di Europe Ecologistes Les Vertes (EELV) il 7 marzo scorso.
Nel Parlamento Europeo il suo gruppo sostiene: "L'UE deve affermarsi come forza politica. Il che oggi implica affermarsi anche come forza militare". La presidente dei Verdi sembra aver trovato una motivazione ambientalista per giustificare il suo sostegno alla corsa agli armamenti. Questo militarismo cerca cioè di assumere una rispettabilità basandosi sull'ecologia della guerra elaborata dal filosofo Pierre Charbonnier. Che cos'è questa strana dottrina attraverso la quale si promette di salvare il pianeta acquisendo sempre più mezzi per distruggerlo?
UNA PIAGA AMBIENTALE
Prima di entrare nel merito dell' "ecologia della guerra", vale la pena sottolineare l'ovvio: gli eserciti e la guerra oltre ad essere una catastrofe per la vita umana, sono anche una catastrofe per l'ambiente. La guerra in Ucraina che ha causato più di un milione fra morti e feriti, ha anche provocato l'emissione di 230 milioni di tonnellata di CO2 equivalente ovvero quanto emesso in un anno da Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia messe assieme.
"Lo sterminio dei nemici e la distruzione dell'ambiente fisico sono obiettivi strettamente connessi nella gestione delle guerre" (1) afferma il ricercatore Claude Serfati,
Il termine "ecocidio", oggi comunemente usato in ecologia è nato con il movimento contro la guerra del Vietnam. Il termine ecocidio era riferito alla devastazione della natura causata dall'utilizzo del Napal e dei defolianti da parte dell'esercito americano. Tra il 14 e il 44% delle foreste del paese è stata distrutta da oltre 80 milioni di litri di defolianti (2). Vari milioni di esseri umani sono stai esposti per parecchio tempo a sostanze altamente tossiche e cancerogene. La Croce Rossa del Vietnam stima che almeno un milione di persone (cifra quasi certamente sottostimata) siano disabili o presentino varie patologie a causa di ciò.
Le guerre contemporanee portano all'estremo la distruzione ambientale, inoltre gli eserciti, per il solo fatto di esistere contribuiscono in maniera significativa al degrado climatico: infatti gli eserciti del mondo insieme producono 2,2 trilioni di tonnellate di CO2 (il 5% del totale mondiale), osserva Claude Serfati (3). Sostenere investimenti per espandere un complesso industriale la cui produzione è destinata a distruggere vite umane e ambiente, la cui stessa esistenza inquina più dei settori marittimo e aereo messi insieme significa accelerare il processo che ci sta portando al disastro ecologico. Senza parlare di dove simili investimenti militari inevitabilmente conducano: una guerra totale, con le migliaia di testate nucleari a disposizione di molti paesi potrebbe, in un sol colpo, spazzar via ogni prospettiva di vita sulla maggior parte del pianeta.
Come disse, dopo la guerra del Vietnam, David Browe, fondatore di Friends of the Earth, "se nelle nostre riflessioni non consideriamo che la guerra è un qualcosa che si può nuovamente presentare, può avvenire che in futuro magari alcune popolazioni che vivono nella giungla si salvino, ma il resto dell'umanità sia destinato alla distruzione".
VERSO L'ECOLOGIA DI GUERRA
Per giustificare gli enormi investimenti in armi, mentre gli scienziati avvertono che la crisi ecologica sta peggiorando di anno in anno, era necessario trovare un modo per conciliare il riarmo con la salvaguardia degli ecosistemi. Nel libro Vers l'ecologie de guerre (Verso l'ecologia di guerra) il filosofo Pierre Charbonnier prova a far quadrare il cerchio. Nelle sue parole "l'ecologia di guerra consiste, nel caso di aggressione militare condotta da uno Stato produttore di petrolio contro uno dei suoi vicini avente come scopo il proprio rafforzamento imperiale, nel considerare il passaggio ad un regime di austerità energetica 'come un'arma pacifica di resilienza ed autonomia' ". Misure come l'isolamento termico degli edifici, l'austerità energetica e lo sviluppo delle energie rinnovabili sono considerate armi contro Putin e il suo gas e, più di recente contro Trump e il suo petrolio.
Per i sostenitori di questa ecologia militaristica, la guerra è vista come un'opportunità e un mezzo per accelerare la transizione ecologica, attraverso una corsa strategica per il controllo dei mezzi di decarbonizzazione e delle risorse di transizione. Una lotta per il controllo delle forniture o delle fonti di energia che, nel contesto della profonda dipendenza del capitalismo (e ancor più del complesso militare) dall'energia basata sul carbonio, non equivale ad altro che allo scambio di una fornitura di combustibili fossili con un'altra, assicurandone il controllo con la forza delle armi economiche o addirittura militari. come sottolinea lo stesso Charbonnier: "Abbiamo visto, ad esempio, la diplomazia statunitense impegnarsi a ricostruire le relazioni con il Venezuela e la UE cercare di aumentare la propria fornitura di gas liquefatto (GNL). In misura minore, stiamo anche assistendo in Europa all'erosione di alcuni standard ambientali per lasciare più spazio alle attività estrattive ed agricole, per garantire che le nuove norme compensino le perdite economiche dovute alle importazioni. In altre parole è soprattutto l'aspetto "guerra" che deve essere tenuto in considerazione nell' "ecologia della guerra".
Come Charbonnier suggerisce l' "ecologia di guerra" per raggiungere i propri scopi può utilizzare sanzioni economiche e strumenti di guerra commerciale dipingendoli di verde per l'occasione. Ma le sanzioni commerciali, che fanno pagare il prezzo della guerra alla popolazione, sono le fasi preliminari di un conflitto. Anche se è possibile utilizzare questi mezzi, la guerra non si combatte con pannelli solari o isolamento termico. Si combatte con carri armati, aerei, navi, armi e vite umane. Legando l'ecologia alla guerra i suoi principi fondativi non vengono semplicemente adattati al tempo della guerra, ma vengono ridefiniti e subordinati all'imperativo del fare la guerra. "L'ecologia di guerra" non rappresenta altro che una fase di transizione bellicista verso conflitti aperti che comportano ulteriori devastazioni ambientali. Questa è la logica degli ambientalisti: mentre Marine Tondelier promette "l'indipendenza dall'imperialismo dei combustibili fossili" attraverso misure isolazioniste e sobrietà energetica, i suoi colleghi si preparano a ciò che accadrà in futuro sostenendo l'aumento dei finanziamenti militari. Si torna così al punto di partenza: con il complesso militare - industriale e le sue nubi di distruzione. Sicuramente, poi la definizione di "ecologia di guerra", nei suoi vari significati, si guarda bene dal dire che la Francia è un "imperialismo fossile" attraverso la società Total. con l'aiuto dell'esercito francese questa compagnia petrolifera sta devastando l'Uganda e la Tanzania, espropriando decine di migliaia di persone e pagando varie milizie per commettere omicidi e stupri in Mozambico. Ma volendo giocare con gli aggettivi energetici quello francese può anche essere chiamato "imperialismo fissile" dal momento che ha devastato il Niger con la compagnia Orano e il Sahara e la Polinesia con i test nucleari.
Il termine "imperialismo minerario" è invece appropriato per descrivere la partecipazione (con il 27%) dello stato francese al capitale della società Eramet nata dalla colonizzazione e dal saccheggio della Nuova Caledonia che attualmente svolge il suo sporco lavoro in Indonesia, Gabon, Senegal e ora anche in Argentina, dopo che il presidente Milei ha aperto allo sfruttamento del sottosuolo del paese.
Allo stesso tempo il cosiddetto pacifismo degli ambientalisti "l'arma pacifica della resilienza e dell'autonomia" dell'"ecologia di guerra" scompare non appena la situazione politica e militare evolve in conflitto aperto.
Sempre Charbonnier ritiene che "una delle ragioni della stagnazione climatica sia la paura della guerra e che gli attori coinvolti nel processo della "ecologia di guerra" siano per il momento molti più ingegneri e avvocati che soldati" (5).
Questa è una forma di realpolitik cinica, che vede nella possibilità di uno scontro militare aperto un prezzo ragionevole da pagare per la cosiddetta decarbonizzazione dell'economia (6).
"Il fatto che il rischio climatico sia un qualcosa da cui dipende l'esistenza dell'umanità mi porta a credere che qualsiasi ragione per agire sia valida, comprese le ragioni di sicurezza. Dopo tutto la sicurezza è un bene fondamentale e i conflitti esistono già".
Dopo che il Ministero della Difesa ci ha fatto partecipare a "guerre per la pace", a "guerre per la democrazia" e a "guerre contro il terrorismo", un'intera generazione sarà sicuramente contenta di essere mandata in prima linea a combattere una guerra per la "decarbonizzazione dell'economia".
LA FORZA DEI DEBOLI
Questa confluenza fra il militarismo sfrenato e l'ambientalismo istituzionale rivela la natura fatta essenzialmente di marketing del "pacifismo" degli ambientalisti capace di accettare il bombardamento del Kossovo nel 1999 e l'intervento militare della NATO in Libia nel 2011. Tutto ciò rivela il fallimento di un'ecologia che ha pienamente accettato il funzionamento dell'economia di mercato e che persegue il limitato obbiettivo di "decarbonizzarlo" secondo le sue regole di funzionamento. In altre parole si tratta di avvallare la competizione per le risorse di transizione che contrappone potenziali acquirenti a paesi fornitori intenzionati a ricavare dalle proprie risorse il massimo valore possibile (7) con tutti i conflitti che ciò comporta.
Questa operazione è stata accompagnata dal completo abbandono dell'eredità sovversiva, emancipatoria e conflittuale dell'ecologia politica, come è stato rilevato da vari filosofi ecologisti. Per gli ambientalisti ciò ha comportato una completa separazione dal mondo del lavoro e dagli elementi più dinamici del movimento ambientalista (Clement Senechal in "Perché l'ecologia perde sempre?"). Lo stesso Charbonnier riconosce che "è difficile immaginare come la riorganizzazione del sistema energetico, produttivo e commerciale possa essere avviata senza l'appoggio attivo delle grandi potenze, senza che il potere economico si ponga al servizio di un tale processo. La logica conseguenza è che questa ecologia si prostra davanti al militarismo nella speranza di ottenere un qualche risultato.
Questa ecologia della sconfitta però non cancellerà l'energia che negli ultimi anni si è espressa nelle piazze soprattutto fra i giovani che nelle grandi manifestazioni chiedevano "Nessun cambiamento climatico, ma un cambio di sistema". Sta emergendo un nuovo radicalismo ecologico che, attraverso la solidarietà manifestata al popolo palestinese di fronte al genocidio perpetrato da Israele a Gaza, mette in evidenza lo stretto legame fra ecologia e antimperialismo, come dimostrato da alcune figure emergenti del movimento ambientalista come Greta Thumberg.
Come naturale questi movimenti hanno dovuto affrontare una repressione brutale, che certamente la svolta militarista accentuerà ulteriormente.
Di fronte a questa "ecologia di guerra" il movimento ambientalista deve lottare, con ancor più determinazione, per respingere la svolta militarista.
Traduzione dal francese allo spagnolo: Yussef Moussadak
(1), (2), (3) Claude Serfati, Un monde en guerres, Textuel, 2024, p. 98 e p. 100
(4), (5), (6) Pierre Charbonnier, Versl 'ecologie de guerre, La découverte, 2024 p. 293-294. p, 122, p.210
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