C'è più rischio nel clima che nei cambi o nei tassi
23.05.04
L'Unione europea è riuscita a strappare alla Russia l'impegno a ratificare il Protocollo di Kyoto per la limitazione delle emissioni di gas nell'atmosfera. Un successo che torna evidentemente a merito della Commissione europea. Ma il mondo industrializzato non sembra aver preso ancora piena consapevolezza - come ha rilevato un grande assicuratore francese - che il rischio-clima è da considerarsi perfino più importante dei rischi che si corrono sui tassi o sui cambi. I governi di non pochi Paesi continuano ad ignorarlo e a rinviare le misure da adottare al medio e lungo termine, quando saremo - ironia a parte - tutti morti. I mercati, tra l'altro, mentre possono offrire coperture certe e sempre più precise sul fronte tassi e cambi, ben poco possono fare rispetto al clima che esige soprattutto urgenti interventi politici. Nel 1997 la Conferenza Onu di Kyoto adottò un Protocollo che nell'arco di un decennio dovrebbe ridurre, seppure in modo modesto, le attuali emissioni di gas. Peccato che questo protocollo non sia stato finora ratificato dal Paese con maggior peso inquinante: gli Stati Uniti. Questi infatti hanno obiettato che l'accordo avrebbe una scarsa efficacia preventiva mentre aumenta fortemente i costi a carico delle economie. Merita allora fare i conti con la loro critica - seppure solo parzialmente condivisibile - al fine di individuare soluzioni in grado di superarne l'opposizione. Il Protocollo di Kyoto ha ideato un meccanismo commerciale che si basa sulla creazione di certificati di credito che danno la facoltà sia di immettere nell'aria prefissate quantità di gas inquinante sia di trasferirne la titolarità ad altri Paesi. Si tratta, dunque, di certificati corrispondenti, paradossalmente, ad un "diritto ad inquinare". In tal modo, si configura un mercato in cui i Paesi più industrializzati possono comprare ulteriori diritti oltre a quelli loro assegnati e, per contro, altri Paesi, sicuramente quelli in via di sviluppo, potranno vendere i crediti non uti lizzati. Si formeranno conseguentemente dei prezzi, con una domanda ed una offerta. Se il limite intrinseco dell'accordo è chiaro: nessun Paese si trova in concreto obbligato a ridurre i propri eccessi perché in teoria può sempre comprare altri certificati per ulteriori inquinamenti, l'idea è però teoricamente sostenibile perché in una logica di mercato ogni maggior costo spinge le imprese, alla lunga, alla ricerca di innovazione e quindi alla individuazione di energie da fonti rinnovabili. Ma il punto, tremendamente reale, è che si ignora il triste presente caratterizzato da un forte inquinamento già in atto. Cosicché nel breve termine le emissioni continuerebbero come prima, anzi più di prima. Su questo punto gli Stati Uniti hanno ragione. Tuttavia, l'obiezione americana non sfiora neppure la questione di fondo che poi coincide con il nodo centrale: è la somma tra tutte le emissioni inquinanti che deve essere fortemente contratta, all'interno o al di fuori di qualsivoglia intesa collettiva, pena crescenti catastrofi climatiche. Non sussiste, occorre esser chiari, una libertà nazionale ad inquinare e a lasciar inquinare giacché l'atmosfera è di tutti. Che fare, allora? Bisogna dire che il Protocollo, al di là dei suoi limiti, rappresenta la prima presa di coscienza da parte dei Paesi "ricchi" che essi - ed essi soli - sono i principali responsabili del rischio-clima. È perciò opportuno che il documento riceva le ratifiche più estese possibili. Però, già nel corso della sua applicazione, nuove trattative diplomatiche potrebbero individuare un percorso verso un Kyoto-bis capace di migliorare e trasformare quello esistente. I Paesi industrializzati potrebbero, ad esempio, creare pool di finanziamenti per l'innovazione mettendo a disposizione di tutte le nazioni, ivi comprese quelle emergenti, i risultati conseguiti. Inoltre, serve un ruolo più consistente delle Nazioni Unite anche su questo fronte. In luogo di meccanismi di mercato, occorrerebbero decisioni politich e capaci di condizionare e sanzionare le emissioni sregolate. Né gli Stati Uniti né gli altri Paesi firmatari infatti possono cullarsi nell'illusione che il mercato da solo possa togliere all'umanità le castagne dal fuoco.
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