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Sporco Pianeta Il futuro è tra i suoi rifiuti

La natura, di per sé, non produce né ammette rifiuti: il concetto di «rifiuto» nasce con attività umane che creano cicli aperti, che non vengono cioè «naturalmente» riassorbiti. Un'alta produzione di rifiuti è indice di alto livello di consumi, che non è di per sé un fattore positivo.
3 giugno 2004
Vittorio Cattani


Il pianeta degli sporcaccioni. Non passa giorno, ormai, che l'emergenza «ambiente» non occupi la nostra attenzione. Migliaia di sacchi d'immondizia giacenti in Campania. Tonnellate di petrolio sfuggite nei mari. Parco della Murgia contaminato da inquinanti. Matteoli, ministro dell'Ambiente, annuncia la «patente a punti» per i Comuni: quelli ecologicamente più virtuosi accederanno per primi ai finanziamenti, poi si procederà «a scalare». E così via.
Ma il problema dello smaltimento dei rifiuti urbani non è che un capitolo del vastissimo problema dell'inquinamento terrestre. L'inquinamento influisce sulla salute nostra e del nostro pianeta. La natura, di per sé, non produce né ammette rifiuti: il concetto di «rifiuto» nasce con attività umane che creano cicli aperti, che non vengono cioè «naturalmente» riassorbiti. Un'alta produzione di rifiuti è indice di alto livello di consumi, che non è di per sé un fattore positivo. Alcuni dati, pur non recentissimi, danno un'idea: in Italia i rifiuti «speciali» nel '94 ammontavano a 18 milioni di tonnellate, quelli tossici a 2,5 tonnellate; la produzione di RSU nel 1996 era 26 milioni di tonnellate, cioè una produzione annua di 455 kg. a testa. Nell'ultimo ventennio in Italia c'è stato un incremento nella produzione pro capite di rifiuti oltre l'80%, e nell'ultimo decennio superiore di circa il 30%: a dimostrazione dell'urgenza di misure davvero adeguate per la loro riduzione alla fonte, e della inefficacia delle politiche volte al controllo dello smaltimento.
Nel 1962 Rachel Carson pubblicò l'ormai classico Primavera silenziosa, in cui affermava che l'umanità stava avvelenando il pianeta. L'autrice si soffermava particolarmente sui pesticidi sintetici e sul loro effetto sull'ambiente e sul nostro organismo. Pesticidi come il Ddt, attraverso la catena alimentare, avevano avvelenato migliaia di pesci, uccelli e mammiferi e minacciato alcune specie. Tali sostanze, non degradabili, finivano tramite gli alimenti nel midollo stesso delle nostre ossa. Risultato: danni al sistema nervoso centrale, malattie del fegato, alterazioni cromosomiche, tumori. Grazie alla Carson, nel 1970 l'uso del Ddt e di altri pesticidi fu bandito in Gran Bretagna e negli Usa, ma la produzione continua per i mercati d'esportazione verso i Paesi Poveri. A questi veleni vanno aggiunti molti prodotti chimici: un migliaio di nuovi ogni anno, in aggiunta ai centomila già esistenti. Esistenti e anche «persistenti», poiché indistruttibili per molti anni, talora per secoli. Oggi possiamo affermarlo: non esiste alcun posto pulito e incontaminato, neanche nelle più lontane regioni artiche o su vette dell'Himalaya; nessun bambino - nessun vivente - nasce in un ambiente privo di sostanze tossiche.
Non è il caso di dilungarsi in cifre e situazioni, basterà citare alcuni argomenti e la mente del lettore, ormai allenata, correrà a rischi e problemi connessi. Per esempio: sfruttamento delle risorse minerali (che non sono infinite: la maggior parte, ai ritmi attuali, si esaurirà in un secolo); degradazione dei suoli (per l'eccesso di concimi chimici o mancata «rotazione» delle colture), sorgenti diffuse d'inquinamento delle acque, diretto o tramite falde acquifere; eutrofizzazione; avvelenamento dell'aria, smog, piogge acide; distruzione dell'ozono; morte di laghi e foreste; rifiuti radioattivi (il cui «tempo di dimezzamento» va dalle 2 ore del Rodio-106 ai 24.400 anni del Plutonio-238...); perdita di una irrecuperabile ricchezza, la biodiversità; riscaldamento globale (effetto serra); inquinamento da ogm; crescita incontrollata della popolazione...
Ci fermiamo qui. Argomenti disparati che però hanno una diretta influenza (o sono una diretta conseguenza) del mancato smaltimento razionale dei rifiuti, anche quando non appare un nesso esplicito: per esempio lo sfruttamento delle risorse minerarie diffonde rifiuti, naturali o da lavorazione, altamente inquinanti: e comunque ogni incremento produttivo, in quanto legato all'industria e all'uso del petrolio, non può che accrescere l'inquinamento. Il che lascia intendere che mai i Paesi Poveri potranno adeguarsi a un tenore vita lontanamente simile a quello occidentale (a parte il fatto che il pianeta stesso non sopporterebbe una quadruplicazione, se non quintuplicazione, dell'attuale inquinamento conseguente al loro sviluppo).
Che fare, tornare all'antico? No, certo. C'è solo da sperare che si diffonda anche nei refrattari ambienti politici e istituzionali la convinzione che molto presto non saranno più il Pil o la famigerata «maggior produttività» a fare una nazione «ricca»; nuovi parametri saranno la misura del «vero» benessere. Da tempo allo studio «nuove economie» alternative, sulle quali cala puntualmente la mannaia dell'emarginazione mediatica, quasi una censura. Ma occorre seriamente ripensare gli obiettivi dello sviluppo. Per esempio, ponendosi come obiettivi primari il mantenimento dei processi naturali e degli ecosistemi che sostengono la vita, la salvaguardia della biodiversità. Ciò che in verità, a guardarsi intorno, sembra lontana utopia. Ma occorrerà farlo, anche perché viviamo alle spalle dei nostri discendenti (non lontani), cui lasciamo una eredità pesantissima.
Alcuni, fidando su speranze miracolistiche, ritengono che nuove tecnologie «certamente» interverranno a salvazione dell'uomo futuro. Per altri invece l'umanità futura dovrà arrangiarsi: non essendo problemi nostri si tratta di un «falso problema», di «inutile allarmismo», o (secondo più recenti interpretazioni) di «disfattismo comunista». Altri ancora, si illudono che la Terra sia un organismo vivente (mescolando misticismo «new age» alla teoria di «Gaia» proposta dallo scienziato inglese James Lovelock, secondo cui la Terra sarebbe un organismo omeostatico capace di autoregolazione, ma entro certi limiti). A noi pare invece che, molto più prosaicamente, si tratti di un grande business: inquinare infatti significa risparmio, non applicare i correttivi necessari ma costosi previsti dalla legge; e soprattutto l'inquinamento alimenta l'immenso giro d'affari (oggi forse il maggiore al mondo) dell'emergente ecomafia. E non più che sul singolo cittadino, sulla capillare persuasione dei singoli pare ormai si possa contare perché si faccia pressione nelle alte sfere, e per un più assennato uso anche personale delle non eterne, ormai compromesse «risorse naturali».

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