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Un'appassionata esplorazione sull'evoluzionismo e sulla natura del vivente Una diversità biologica minacciata dalla razionalità strumentale insita nei diritti di proprietà intellettuale

«Il benevolo disordine della vita»

Marcello Buiatti* Ed.Utet  pag. 272 prezzo 19.50 €
 
 
18 luglio 2004
Marcello Cini
Fonte: www.ilmanifesto.it
30.06.04


Per quasi un secolo l'evoluzionismo è stato giustamente bandito dalle scienze sociali, dopo i pessimi connotati assunti dal «socialdarwinismo» di Herbert Spencer, sfociato poi nell'eugenetica di Galton e nelle peggiori farneticazioni razziste. E' tuttavia, secondo me, giunto il momento di recuperare il fondamento comune che lega i fenomeni che caratterizzano l'evoluzione biologica e le diverse forme dell'evoluzione delle culture umane senza appiattire queste ultime sui primi. Il libro appena uscito di Marcello Buiatti, con il titolo Il benevolo disordine della vita (Utet, pp. 254, ? 19,50), e il sottotitolo La diversità dei viventi tra scienza e società, compendia appunto l'elemento centrale comune a tutti i fenomeni evolutivi nella formula Essere diversi è una condizione imprescindibile per essere vivi. Si tratta di un solido e originale contributo alla costruzione delle fondamenta di quella nuova cultura che deve diventare egemone in tutto il pianeta se vogliamo far fronte alla minaccia, ormai riconosciuta come reale da molti scienziati, di una «sesta estinzione» della biosfera - l'ultima fu quella che 65 milioni di anni fa portò all'estinzione dei dinosauri - provocata «dall'imposizione di un unico modello di vita e di trasformazione sull'intero pianeta: la monocultura estesa a tutto».
Sinapsi esplorative
Il discorso di Buiatti nasce da una domanda. Perché - si chiede - la vita dura da più di tre miliardi di anni? La risposta è semplice: la vita ci è riuscita perché è fondata sulla diversità, sulla continua variazione dei componenti e della loro organizzazione. E' un punto di vista che va controcorrente. La vita è ordine, si dice sempre. L'idea che essa si nutra di disordine - anche se benevolo come suggerisce il sottotitolo - può sembrare una contraddizione, ma non lo è. «Le strategie esplorative - ci spiega infatti il nostro autore - sono quindi alla base della vita che ha inventato una serie di meccanismi per generare variabilità, dal Dna ai processi semicasuali di generazione delle sinapsi nei cervelli animali e soprattutto in quelli umani. Di variabilità c'è bisogno a livello del Dna, delle altre molecole, delle cellule, degli organismi, delle popolazioni, delle specie e anche degli ecosistemi».
La strategia adottata nel libro, per combattere efficacemente culture tradizionali e istinti atavici, teorie scientifiche più o meno attendibili e soprattutto interessi economici colossali, è dunque di intrecciare strettamente due discorsi: uno di alta divulgazione scientifica fondato sui dati più recenti - compresi alcuni ottenuti nel laboratorio dell'autore - ottenuti nelle discipline della vita e della mente, e l'altro nel quale si discutono e si controbattono con originalità e acutezza le componenti filosofiche, sociologiche ed economiche del pensiero dominante. Vediamone brevemente alcuni aspetti particolari.
Appartengono al primo discorso i primi tre capitoli che riprendono in parte - al fine di estrarne le argomentazioni più pertinenti al tema della diversità - l'esposizione di alcune delle proprietà caratteristiche della vita già presentata nel precedente libro di Buiatti Lo stato vivente della materia. Così vengono, ad esempio, spiegate in dettaglio le diverse funzioni delle diversità strutturali rispettivamente nei geni codificanti per la costruzione delle proteine e nei geni, che fino a pochi anni fa venivano sbrigativamente chiamati «spazzatura», ai quali si cominciano a riconoscere oggi fondamentali compiti di regolazione. Questa discussione porta Buiatti a concludere che «il Dna codificante è altamente ambiguo, in quanto ogni sua parte può, almeno negli eucarioti, dare origine a più proteine, ognuna con una sua diversa funzione. Da questo punto di vista - conclude - il dogma centrale della biologia molecolare è ormai tutto meno che un dogma».
Allo stesso modo viene ripreso il discorso sulle reti (genetiche, metaboliche, neuronali) affrontato nel libro precedente, per trarne nuove considerazioni sul ruolo della diversità. Ne deriva che «anche la straordinaria diversificazione di forme, strategie di vita, comportamenti biologici dei cosiddetti organismi superiori non sembra tanto dovuta all'invenzione di nuovi strumenti, quanto alla diversità dei meccanismi di regolazione degli stessi strumenti di base».
Il secondo discorso parte con un capitolo dedicato a confutare due opposti determinismi: quello genetico e quello ambientale. Di gran lunga più diffuso, radicato e funzionale al sistema economico produttivo dominante è il primo, ma non meno pericoloso, nelle forme estreme assunte in un recente passato si è rivelato il secondo. L'intreccio tra ideologia e conoscenza scientifica è comunque, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, soprattutto negli ambiienti scientifici, strettissimo in entrambe le posizioni. Non mi ci soffermo per mancanza di spazio, ma salto direttamente ai due capitoli finali, essenziali, del libro.
Il percorso di quello sulla diversità umana è particolarmente ricco e affascinante. La ricostruzione del processo di ominazione dalle origini fino alla formazione dell'uomo moderno dimostra infatti che gli aspetti biologici e quelli culturali formano un intreccio molto stretto alimentato continuamente dalla continua creazione di diversità. La domanda che sorge immediatamente tuttavia riguarda i tempi enormemente diversi dei due processi evolutivi. Come possono interagire processi con ritmi così differenti? Un confronto particolarmente interessante a questo proposito viene fatto da Buiatti tra le pratiche «agricole» da parte degli insetti sociali (termiti e formiche) e quella dell'agricoltura umana.
Le prime, trasmesse geneticamente, si sono evolute in tempi di centinaia di milioni di anni, mentre la seconda risale, come sappiamo, a non più di diecimila anni fa.
Nomadismo neuronale
La risposta a questa domanda è semplice, ma non scontata. L'anello che connette i due processi è l'evoluzione del cervello umano. «Senza dubbio - leggiamo - mentre lo sviluppo del cervello come struttura complessiva, che avviene nel primissimo periodo della vita essenzialmente intrauterina, è regolato da geni come succede negli altri animali, ciò che ci differenzia di più da questi sono i processi che avvengono dopo la migrazione dei neuroni e continuano in modo frenetico per il primo anno di vita». La strategia esplorativa fondata sulla enorme varietà dei possibili modi di organizzare le esperienze vissute, che continuamente riplasmano la rete delle connessioni cerebrali, è dunque rapidissima e continua, rispetto a quella basata sulla mutazione del corredo genetico e sulla selezione, lenta e fissatrice. Entrambe, tuttavia, risultano tanto più efficaci ai fini della sopravvivenza degli individui e delle popolazioni, quanto maggiore è la diversità da cui traggono alimento.
Da quanto precede deriva l'inconsistenza dei pregiudizi - continuamente alimentati da una martellante ricerca di sensazionali scoop da parte dei mezzi di comunicazione di massa e incoraggiati da una non disinteressata ricerca da parte di molti scienziati di una redditizia notorietà - sulla dipendenza dei diversi comportamenti umani dal gene che corrisponderebbe a ognuno di essi. Va invece detto e ripetuto che non esistono né il gene dell'omosessualità né quello dell'intelligenza, e tanto meno quello della aggressività o quello del furto con destrezza. Né, ovviamente, esistono correlazioni fra il colore della pelle e i comportamenti disapprovati dalla cultura (bianca e maschilista) dominante.
Nell'ultimo capitolo - che ripercorre la storia delle trasformazioni del biota a partire dalle cinque grandi estinzioni del passato fino ad arrivare alla distruzione attualmente in corso della biodiversità (a un tasso che sarebbe cento volte superiore a quello delle epoche precedentemente studiate) - diventa particolarmente stretto l'intreccio fra «natura e cultura». Nel brevissimo lasso di tempo (su scala geologica) che separa l'invenzione dell'agricoltura da quella degli Ogm hanno infatti «cominciato a interagire tre categorie di diversità: la diversità genetica fra le specie di animali e piante, la diversità culturale umana, e quella delle condizioni ambientali».
I pirati della diversità
Tra i molteplici aspetti di queste interazioni discussi da Buiatti ne cito solo tre. Il primo è un riesame dell'esperienza della «rivoluzione verde», con i suoi successi e i suoi fallimenti, che porta alla conclusione che «il mondo ha bisogno della coesistenza di più agricolture e non di una sola, di più culture e non di una sola».
Il secondo affronta la questione cruciale dei «diritti di proprietà intellettuale» e delle mostruosità che già ora derivano, e ancor più deiveranno in futuro, dalla loro sempre più estesa applicazione a tutto il mondo della vita attraverso gli accordi Trips (Trade Related Aspects of of Intellectual Protection Systems). Mostruosità che non solo consentono la brevettazione degli interi organismi che contengano anche un solo gene modificato, ma arrivano ad autorizzare la cosiddetta «biopirateria», consistente nel far pagare le royalties a chiunque utilizzi piante o animali contenenti un gene che è stato isolato e brevettato. Alcune comunità indigene dell'Amazzonia, per esempio, hanno scoperto che dovrebbero pagare i diritti a una impresa giapponese che ha brevettato una specie di cacao dotato di proprietà curative particolari che esse usano da sempre.
Il terzo infine riesamina il dibattito sugli Ogm dimostrando che il problema della loro innocuità è un falso problema, montato artificiosamente dalle multinazionali del settore. Il problema vero è che la penetrazione su larga scala dello scarso numero di varietà brevettate contribuirebbe da un lato, con l'eliminazione di quelle coltivate precedentemente nelle diverse regioni del globo, alla distruzione della biodiversità in un settore così cruciale come quello dell'alimentazione umana, e dall'altro porterebbe alla rovina le già disastrate economie locali.
Il messaggio dunque è chiaro: tutto ciò che distrugge l'enorme ricchezza di diversità biologica e culturale che ancora ci resta può portare al crollo catastrofico della società globalizzata che conosciamo ma rende impossibile la sua evoluzione verso un'altra più giusta e pacifica.

Note: Marcello Buiatti è ordinario di Genetica all’Università degli studi di Firenze. Con UTET Libreria ha già pubblicato Lo stato vivente della materia (2000).È inoltre Presidente della Associazione Nazionale Ambiente e lavoro, esperto italiano ed europeo in materia di OGM, membro del gruppo di Filosofia della Biologia della SILFS. Ha pubblicato anche Le frontiere della genetica (1989), Le biotecnologie (2001, 2004) e, con S. Beccastrini, Fra natura e cultura: manuale di educazione ambientale (2002).
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