L'imperialismo agricolo made in Usa
All’inizio di maggio 2004, il gigante statunitense dell’industria agroalimentare Monsanto ha annunciato l’abbandono parziale delle colture geneticamente modificate negli Stati Uniti.
La multinazionale ha visto così andare in fumo milioni di dollari investiti nella ricerca e nello sviluppo dei semi di cotone, mais e soia transgenici.
A questo punto la sua priorità è diventata quella di trovare paesi meno sensibili ai sospetti degli ecologisti e dei consumatori occidentali. Unmese e mezzo dopo, ecco la Monsanto accolta in pompa magna da un gruppetto di capi di stato dell’Africa occidentale.
Il 28 giugno Ouagadougou, la capitale del Burkina fasp, aveva l’aria di una città assediata.Fin dalla mattina presto, la polizia aveva preso d’assalto le strade intorno al luogo in cui erano alloggiati i capi di stao ospiti del vertice. Cosa ancora più notevole, un elicottero disegnava regolarmente ampi cerchi a bassa quota. Il presidente Blaise Compaorè ha fatto le cose in grande per tranquillizzare i suoi ospiti di rango.
Quseta conferenza ministeriale sulla scienza e sulla tecnologia agricola in Africa doveva riflettere, tra l’altro, sui mezzi per trasformare il nostro paese in un laboratorio per l’introduzione degli organismi geneticamente modificati (ogm).
Nel momento in cui in tutto il mondo uomini e donne si battono contro l’introduione delle colture transgeniche nella loro alimentazione, le autorità del Burkina Faso offrono il loro territorio come zona di sperimentazione.
Le conseguenze sull’ambiente
La questione è così importante che non la si può lasciare solo alla decisone
Dei poteri pubblici.c’è bisogno anche di un ampia consultazione del mondo scientifico, della società civile e di tutti quegli esperti internazionali che non i stancano di mettere in guardia contro l’imprevedibilità delle conseguenze della tecnologia sull’ambiente. La Monsanto sarebbe anche intenzionata, tra qualche anno, a rifilare a caro prezzo al Burkina Faso delle sementi sterili già in corso di sperimentazione, che costringerebbero i contadini a rifornirsi regolarmente presso l’azienda statunitense. Prendendo a pretesto la ricerca della sicurezza alimentare,
si presenta il problema da un punto di vista troppo demagogico. Il mondo di oggi, infatti, non soffre tanto per l’insufficienza della produzione quanto per la cattiva organizzazione. Le imprese americane, sostenute dalle loro autorità, dicono di voler correre in aiuto del mondo rurale, ma non riescono a dissimulare le loro reali intenzioni, del tutto mercantili.
Infatti c’è un modo molto più efficae di difendere la causa dei coltivatori di cotone del continente nero: da un lato denunciare le sovvenzioni concesse dagi Stati Uniti ai loro produttori, dall’altro combattere la ripartizione squilibrata delle ricchezze del mondo. L’atteggiamento da buon samaritano sembra piuttosto un sistema per allungare i tentacoli di certe multinazionali all’intero continente.
Questo strano valzer tra paesi in via di sviluppo, apprendisti stregoni e squali degli affari internazionali, fa temere un imperialismo agricolo made in Usa.
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