Le T-shirt che indossiamo
Edizioni Ambiente
Nel 1913 la Marina Usa introdusse come biancheria per le proprie truppe una maglietta bianca di cotone, in assoluto la prima T-shirt del mondo.
Nel 1938, la catena Sears mise in vendita una linea di T-shirt per uso civile. Ma l’indumento divenne veramente di moda solo negli anni ’50, grazie agli eroi ribelli Marlon Brando, James Dean, e Elvis Presley.
Oggi la T-shirt è uno strumento facile e poco costoso per portare in giro il logo della propria squadra favorita, di uno stilista amato o di una azienda. Anche se prodotte con “cotone naturale”, le T-shirt fanno pagare un prezzo elevato ai lavoratori e all’ambiente.
Il cotone è una delle fibre preferite in tutto il mondo e ogni anni se ne producono più di 19 milioni di tonnellate nei paesi più diversi, dal Texas alla Turchia. Ma i tratta di una coltura ecologicamente gravosa. Secondo la Pesticide Action Network North America, i coltivatori di cotone usano in media 2,6 milioni di tonnellate di pesticidi all’anno, più del 10% del totale.
L’OMS ha classificato molti dei pesticidi comunemente usati per il cotone come “estremamente pericolosi”, soprattutto gli orgafosforici come il parathion e il diazinon, deleteri per il sistema nervoso dei bambini.
I pesticidi del cotone possono essere pericolosissimi o anche mortali per i lavoratori che li maneggiano: tra il 1997 e il 2000 in California si sono avuti 116 casi di avvelenamento acuto. E si stima che nel solo 2001 più di 500 lavoratori dei campi di cotone siano morti nello stato indiano dell’Andhra Pradesh per esposizione di pesticidi: Molto spesso chi maneggia questi materiali non ne conosce la pericolosità e non prende le dovute precauzioni: una ricerca svolta nel Benin (Africa occidentale) mette luce che il 45% dei lavoratori del cotone utilizza contenitori dei pesticidi come bidoni per l’acqua, il 25% li usa per il latte o la minestra.
Anche chi lavora nei luoghi di produzione o vive nelle vicinanze rischia molto. Basti pensare al dramma di Bhopal (India) dove nel 1984 una nube tossica emanata dallo stabilimento della Union Carbide uccise 8000 persone.
Negli ultimi dieci anni, inoltre, sono stati documentati danni devastanti a uccelli, pesci e altra fauna selvatica, provocatti dai prodotti chimici impiegati per le coltivazioni di cotone. Infatti spesso gli agricoltori usano i defolianti per rendere più accessibili le capsule di cotone e quindi più facile il raccolto, una pratica che può gravemente danneggiare l’habitat.
I pesticidi del cotone inquinano i corpi idrici, ancora una volta minando la salute umana e dell’ecosistema.
Secondo la Cornell University Cooperative Extension, nelle acqua di falda di sette stati americani ci sono tracce di Aldicarb, un composto che anche a bassissime dosi può causare anomalie del sistema immunitario. E nel 1998 il Servizio geologico degli Stati Uniti ha segnalato contaminazioni da erbicidi e insetticidi usati nei campi di cotone del Sud. Intanto, a mezzo mondo di distanza, il Lago d’Aral (Uzbekistan) si è ridotto a un quinto delle dimensioni originarie a causa dei prelievi per l’irrigazione dei campi di cotone, una cultura che necessita di grandi quantità d’acqua.
Dopo il raccolto, le capsule vengono sgranate, per separare le fibre dai semi. Le fibre vengono poi compattate in balle da circa 225 chili cadauna (l’industria tessile degli USA ne utilizza circa 11 milioni l’anno): Le balle sono poi inviate alla filatura, che pulisce e torce le fibre trasformandole in filo, a sua volta trasformato in tessuto con telai automatizzati. Ognuno di questi passaggi (trasporti e lavorazioni) richiede energia, prevalentemente di origine fossile.
Una volta fabbricata, la T-shirt viene di solito candeggiata e trattata con altri prodotti di finitura dei tessuti. I candeggianti chimici (e spesso anche quelli naturali) contengono rame, zinco e altri metalli pesanti che attraverso gli scarichi industriali facilmente inquinano le acque di superficie e sotterranee. I prodotti di finitura, che proteggono i tessuti dalle macchie o evitano lo spiegazzamento, spesso contengono derivati del petrolio, come la formaldeide, (che è altamente cancerogena).
Tutto ciò non significa che i consumatori debbano privilegiare le fibre sintetiche. Le fibre di poliestere derivano dal petrolio, una fonte energetica non rinnovabile la cui estrazione, lavorazione e trasporto danneggiano l’ambiente. E’ stato stimato che –calcolando anche il petrolio necessario alla produzione e trasporto – una T-shirt di cotone misto a poliestere, lungo il suo ciclo di vita, può rilasciare inquinanti dell’aria pari a un quarto del suo peso e produrre una quantità di CO2 pari 10 volte il suo peso.
La Cina è il primo produttore mondiale di cotone, seguita da USA e India. Gli Stati Uniti sono il principale esportatore di fibra (105 milioni di balle all’anno, prevalentemente in Asia e Messico). Altri grandi esportatori sono i paesi dell’ex Unione Sovietica e l’Australia. Le esportazioni dei paesi produttori più poveri sono rese sempre più difficili dai sussidi e dalle barriere commerciali che intervengono a favore dei coltivatori USA.
La Cina è anche il maggior produttore di T-shirt (circa il 65% del totale) che vengono vendute prevalentemente negli USA e in Europa (gli Stati Uniti, nel 2002 hanno speso 6,2 miliardi di dollari per questo articolo).
Come quelli di tutti i paesi in via di sviluppo, i lavoratori tessili cinesi guadagnano pochissimo e lavorano molto, I produttori di abbigliamento delle nazioni industrializzate utilizzano volentieri le strutture produttive asiatiche e sudamericane dove le normative sul lavoro e sull’ambiente sono molto più leggere e meno invasive.
E allora come deve comportarsi chi ama le T-shirt? La scelta più ecologica. Oltre a quella di acquistare indumenti usati, è comperare T-shirt fabbricate con cotone di origine biologica certificata. Un progetto egiziano di coltivazione biologica ha portato un aumento del raccolto del 30%, senza alcun intervento di prodotti chimici di sintesi anche nella lavorazione del filo e del tessuto. D’altra parte, nei confronti dei lavoratori del settore del cotone la migliore scelta è l’abbigliamento certificato della Fair Trade Federation. E’ possibile dunque che trai produttori di cotone biologico, produttori di abbigliamento che rispettano gli standard di equità sociale e consumatori ben informati si crei una sinergia per proteggere l’ambiente e promuovere giustizia sociale.
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