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L’illusione del progresso

La nostra stolta società e un’economia stupida stanno portando il pianeta sull’orlo del baratro. La sopravvivenza terrestre dipende da un modo di pensare totalmente innovativo.
25 luglio 2004
Kirkpatrick Sale*

Immaginate una bambina piena di ecchimosi che viene portata in uno studio medico. Gli si dice che la piccola è stata ripetutamente percossa. La prima domanda del dottore sarebbe sicuramente: “Dove ti fa male?”. Successivamente la visiterebbe consigliandole tutte le cure possibili. Ma solo un dottore indifferente o immorale si asterrebbe dal chiedere: “Come è successo? Chi è stato? Da quanto tempo dura questa storia? Cosa fare per evitare che succeda ancora?”.
Ora immaginate che una comunità subisca dei danni sotto forma di di devastazioni ambientali; alcuni danni si risolverebbero in evidenti ferite aperte superficiali, altre più nascoste ma maggiormente profonde. Le prime domande sarebbero analogamente “Dove fa male? Quali sono i problemi? Cosa stanno facendo per danneggiare l’aria, l’acqua, il suolo, le foreste, i mari, gli animali – gli elementi vitali della Terra? E poi, come il dottore, esamineremmo questi comportamenti in dettaglio per cercare di porvi rimedio. Chiederemmo “Chi è stato?” E forse potremmo addirittura trovare i responsabili, e farli pagare per le conseguenze dei loro gesti, e obbligarle a smettere di comportarsi in tal modo. Forse.

IL PIANETA DEGENERANTE

Questa analogia calza alquanto bene relativamente alla situazione degli anni 60’ quando il movimento ambientalista – innescato dal libro del 1962 “Silent Spring” di Rachel Carson, – ebbe inizio. E tuttora esiste, 41 anni dopo. Abbiamo, più o meno, imparato quali danni in specifico stiamo facendo al nostro pianeta – surriscaldamento terrestre, cambiamenti climatici, assottigliamento dell’ozono, deforestazione, sovrappopolazione, inquinamento di acqua terra e mare, rifiuti tossici, energia nucleare, piogge acide, desertificazione, erosione del manto terrestre, estinzione di specie animali e vegetali, inquinamento chimico, pesca incontrollata… Abbiamo identificato i mali maggiori, ne abbiamo dato notizia di tanto in tanto, e abbiamo cercato occasionalmente di trovarvi modesto rimedio.

Ho sottolineato “occasionalmente”. Poiché la maggior parte dei problemi ambientali che catturano la nostra attenzione sono quelli che mettono in pericolo l’uomo in maniera diretta; ne ignoriamo moltissimi altri i quali minacciano le altre specie – barriere coralline, ad esempio, o foreste pluviali. E molti altri fra quelli che ci mettono in pericolo non vengono prodotti dal sistema; ci sono, ad esempio, quasi 90.000 prodotti chimici fatti dall’uomo – la grande maggioranza dei quali non sono stati nemmeno testati per la sicurezza umana.

E ho sottolineato anche “modesto rimedio”. Perché la maggior parte delle soluzioni a cui siamo pervenuti si sono rivelate dei meri palliativi. Per 41 anni abbiamo attirato l’attenzione sul nostro ambiente – è stato prodotto un immenso numero di leggi, agenzie e uffici appositi sono stati aperti, sono stati approvati infiniti codici e divieti, i precedenti giudiziari si sprecano, così come i gruppi ambientalisti e le lobby attive per il mondo, centinaia di milioni di sterline spese per lo studio di rimedi e correttivi. Ma la dura realtà è che la maggioranza degli attacchi all’ambiente sono incontrollati, e il nostro impatto totalmente negativo sulla terra non è diminuito in tutto questo tempo; di fatto, questo impatto è aumentato. Come dimostrato dal Living Planet Report (un’analisi portata avanti da un team internazionale di scienziati), i naturali ecosistemi della terra sono diminuiti del 33% negli ultimi 30 anni.

Ancora peggio, la pressione ambientale che gli umani hanno arrecato alla terra – il nostro impatto ambientale totale – è cresciuto esponenzialmente. Come dichiarato recentemente dal biologo di Harvard Wilson: “Il nostro impatto è già troppo insostenibile per il pianeta. Esso si va allargando, e la Terra ha perso la sua abilità di rigenerazione”.

L'IRRILEVANZA DELL’AZIONE INDIVIDUALE

E i motivi di questa situazione pericolosa? Il nostro rifiuto di porre le altre due domande essenziali che qualunque dottore di buon senso chiederebbe al paziente malato: “Come è successo? C’è un modo per evitare che succeda di nuovo?”

Dunque, perché è successo? Perché la maggior parte delle nazioni nel mondo hanno un sistema politico ed economico che non solo ha causato questi disastri, ma che permette loro di perpetuarsi (salvo poche migliorie e moderazioni) anche quando le conseguenze negative sono così ovvie? Perché la nostra risposta alla crisi ambientale è, per prima cosa e soprattutto, un mutamento degli “stili di vita” individuali – riciclaggio, pannelli solari, caffè dalle foreste pluviali, automobili ibride, borse impagliate, cibi organici, compostaggio, pannelli isolanti doppi, e cose simili?

Tutto il complesso di colpa del cosa-puoi-fare-per-salvare-la-terra è un mito. Noi, come individui, non creiamo le crisi, e non possiamo risolverle. Prendete il nostro folle consumo energetico. Durante gli ultimi 15 anni è stata sempre la stessa storia: consumo individuale – residenziale, automobilistico, e così via – non è mai stato più di un quarto del consumo di energia totale; la stragrande maggioranza è commerciale, industriale, delle aziende, dell’agrobusiness e dei governi. Dunque, anche se ci mettessimo tutti ad andare in bici o ad usare stufe a legna ciò avrebbe un impatto trascurabile sul consumo energetico, il riscaldamento terrestre e l’inquinamento atmosferico. Voglio dire, continuate pure a fare una vita rispettosa dell’ambiente; riciclate, utilizzate il compostaggio, andate in bici; ma fatelo perché è la cosa eticamente giusta da fare, non perché salverà il pianeta.

Se vogliamo veramente capire perché tutto questo è successo dobbiamo porci un’altra domanda: “Perché sembra che tutti preferiscano convivere con la minaccia dell’apocalisse piuttosto che cercare seriamente di cambiare un mondo dove il consumo, di ogni cosa, è visto come una virtù inappagante, la produzione, di ogni cosa, è vista come una necessità socio economica, e un sovrappiù di ogni cosa (di bambini come di automobili, di prodotti chimici, di dottorati o corsi di golf o centri di riciclaggio), è inconfutabilmente accettato?

La risposta, naturalmente, è che la grande maggioranza delle persone non vogliono abbandonare un sistema economico (chiamato capitalismo industriale) che procura loro benessere materiale (talvolta in grande abbondanza), una vita più lunga, e palliativi a non finire come il divertimento, i farmaci, lo sport e la televisione. E i pochi che vorrebbero abbandonarlo sono essenzialmente impotenti e ignorati, rabboniti, minacciati o repressi dal potere dello status quo.

Il problema qui è che il capitalismo industriale si fonda totalmente su due principi che semplicemente sono agli antipodi della responsabilità ecologica. Il primo è l’imperativo dela crescita – del mercato, dell’azienda, dell’industria, delle vendite, della conoscenza scientifica e dell’innovazione tecnologica, della popolazione in generale e della popolazione che consuma in particolare. Il secondo è lo sfruttamento delle risorse, l’utilizzo indiscriminato dei tesori non rinnovabili di ogni tipo che la terra offre – dai diamanti al petrolio, alle foreste, al suolo – a vantaggio del benessere materiale dell’uomo; basti pensare ai soli effetti di questa estrazione, di ciò che accade quando le materie prime sono trasformate in ciò che gli economisti chiamano beni (sebbene la maggior parte di essi non definibili come tali), o a ciò che succede quando questi beni vengono utilizzati, o a come si dispone di essi.

L'ECONOMIA E’ STUPIDA

Recentemente riflettevo su come sia stupido l’insegnamento dell’economia nella maggior parte delle università. L’economia è una materia insegnata senza considerare una delle sue componenti più importanti – l’ecologia, i sistemi della natura su cui l’intera vita economica dipende necessariamente in ultima analisi. Così, l’economista può dirci il valore di 100 bushel [ 1 bushel equivale a 25,45 kg, ndt] di frumento proveniente da una fattoria ma non sa scomporlo (sottrarlo di fatto) dalla quantità di suolo eroso o avvelenato durante il processo, il danno all’ecosistema circostante, l’effetto dei fertilizzanti tossici che vanno a finire nei fiumi e nei mari, o l’enorme costo ambientale della produzione di massa dei fertilizzanti artificiali, pesticidi e erbicidi e macchinari agricoli ad alta tecnologia. Gli economisti ignorano questa informazione non perché sono sciocchi, crudeli o stolti, ma perché sono condizionati dalla loro formazione che li porta a guardare al mondo naturale solo in termini di risorsa; non comprendono la complessità della scienza dell’ecologia. Non c’è da stupirsi se Hazel Henderson, esperto di sviluppo sostenibile, afferma che l’economia è un malanno.

In ogni modo, questo è il discorso: l’imperativo della crescita, il consumo e lo sfruttamento delle risorse. Ecco cosa ravviva il capitalismo; non è colpa del capitalismo, è solo quello che esso fa. Ma come l’ambientalista Jeremy Seabriik ha affermato: “Se lo scopo dell’attività umana sulla terra fosse stato quello di portare il pianeta verso il baratro, non sarebbe esistita invenzione più efficiente dell’economia di mercato”.

Per dirla in modo brusco, ciò significa che il movimento ambientalista non potrà mai vincere, non sarà mai nient’altro che un fastidio mal tollerato, finché vive immerso nella società capitalista. E’ semplice. Ecco perché un attivista appassionato e di lunga data come Jose Lutzenberger ha detto tempo da (forse non realizzando pienamente il significato della sua osservazione): “Nel movimento ambientalista, le nostre sconfitte sono sempre definitive, le nostre vittorie sempre provvisorie. Ciò che puoi salvare oggi può essere ancora distrutto domani.”
Le vittorie sono provvisorie perché superficiali: puoi fargli costruire una discarica per rifiuti tossici ma non fargli smettere di produrre materiale tossico; puoi fargli produrre automobili meno inquinanti, ma non puoi far niente per la produzione e l’utilizzo di queste, e per la costruzione di strade asfaltate e di garage per mettercele dentro. Le vittorie sono superficiali perché non vanno al cuore del problema.

ROMANZARE L’APOCALISSE

E il cuore del problema è la seconda domanda: “C’è un modo per prevenire ulteriori danni all’ambiente?”

Non sono particolarmente ottimista nel rispondere affermativamente alla domanda. Non realizziamo, così come un pesce non realizza di nuotare nell’acqua, di essere immersi in una cultura, un modo di vedere e vivere la vita, il quale ha costruito un muro psicologico protettivo che permette alla nostra società di continuare a fare quel che fa anche se sa che l’apocalisse è a un passo. E’ una cosa che gli psicologi chiamano “dissonanza cognitiva”: la capacità di far convivere nel cuore, nella mente, due tipi contraddittori di idee – in questo caso il desiderio di perpetuare il capitalismo e la voglia di tutelare lo stato di salute del pianeta.

Riusciamo in questo, credo, immaginando l’apocalisse come fosse un film. Da quando Hiroshima ci ha dato prova tangibile dei disastro ambientali abbiamo prodotto film, romanzi, spettacoli televisivi e similari che mostrano come sono fatte le catastrofi ambientali, anche di proporzioni mondiali. Con il solo fare dei film e delle storie su queste cose ci permette di relegarle in uno spazio separato, e ce le fa rimuovere dal mondo reale della vita e della politica.
Non crediamo veramente di andare verso il baratro: è solo una finzione.

Inoltre, possiamo porre rimedio ai problemi prima che si presentino. Siamo intelligenti e ricchi, e lo diventiamo ogni giorno di più. Possiamo creare le tecnologie che vogliamo, e non c’è problema ambientale che non abbia soluzione. Questo è una consapevolezza molto ben radicata: la soluzione dei problemi grazie alla tecnologia. Non importa il fatto che non è praticamente mai esistita una soluzione tecnologica che non abbia creato un nuovo problema tecnologico. Uno dei più efficaci esempi di questo percorso è il modo in cui sono stati curati i bambini americani negli anni 40 e 50 affetti da acne, tonsillite, adenoidi e tricofitosi con alti dosaggi di raggi X, che in seguito (secondo l’Istituto Nazionale Cancro) hanno procurato il cancro alla tiroide a qualcosa come 4 milioni di persone. Ma ci sono molti altri esempi: l’energia nucleare, il DDT, la talidomite; la lista è lunga.

E non importa se la ricerca delle soluzioni tecnologiche va oltre il controllo dei tecnici (o chi per loro, per quel che importa) al punto che Bill Joy – uno dei giganti della Silicon Valley – è stato mandato ad occuparsi della sicurezza contro le conseguenze potenzialmente disastrose della continua ricerca nell’ingegneria genetica, nella robotica, nella nanotecnologia.

No, queste cose non hanno importanza; la nostra fiducia nelle soluzioni tecnologiche è inconfutabile e fuori discussione. Ed ecco perché non prendiamo sul serio quelli che ci avvertono del baratro verso cui corriamo. Ed ecco perché è difficile che ci accorgiamo di come possiamo cambiare il nostro modo di vivere per salvare il pianeta.

Ma aggiungerei questo: se ci fosse una speranza, se potessimo convincere un numero sufficiente di persone della vera natura del nostro sistema economico e dell’effettività del pericolo che arreca al mondo, sarà grazie al nostro porre le domande rilevanti. Non le semplici “Dove ti fa male? Chi è stato? Da quanto tempo va avanti?” Ma anche le altre domande più dure: “Perché sta succedendo? Cosa serve per fermare il processo? E come possiamo modellare gli elementi di una società ecologica – una modesta, attenta alle leggi della natura e che abbracci i valori degli esseri viventi – come se questa fosse l’unica società auspicabile, e prevenire il ritorno agli sbagli pregressi?”

Note: Traduzione per Peacelink a cura di Agostino Tasca

*Kirkpatrick Sale è co-fondatore del North American Bioregional Congress, è segretario della Schumacher Society, vice-presidente del PEN American Center e autore di vri libri tra cui Human Scale e Dwellers in the Land ( "Le regioni della Natura" Ed Eleuthera). Il suo più recente libro tradotto in italiano è "Ribelli al futuro" Arianna Editrice.
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