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Un intervento di Vandana Shiva

La monocultura della mente

Patate che hanno bisogno di una misura, quella standard di McDonald’s, oli che non possono più essere prodotti nei frantoi locali, il “riso d’oro” che soppianta tutto. L’inconciliabilità fra biodiversità e multinazionali.
20 settembre 2004
Vandana Shiva
Fonte: http://www.unacitta.it/
N°17 novembre/dicembre 2003

. Da qualche anno mi occupo di biodiversità. Io in realtà ho una formazione fisica e occuparmi della biodiversità non era quello che pensavo di fare da ragazza. In realtà quando avevo vent’anni ero innamorata della fisica e della teoria dei quanti, questioni diverse rispetto a quelle di cui mi occupo attualmente. Ho dovuto interrompere questa “storia d’amore” con i quanti per un’altro “amore”, quello, che spero tutti condividiamo, per la vita sulla terra.
Le prime persone ad insegnarmi il valore della terra e della biodiversità sono state le donne del mio villaggio sull’Himalaya. Più in particolare, qualche tempo fa, mentre le foreste del mio paese -che erano popolate da centinaia di specie diverse- venivano distrutte per creare delle immense pinete, le donne del mio villaggio andarono in queste foreste e abbracciarono gli alberi opponendosi in tal modo a questo processo. Esse affermavano con tenacia: “Non permetteremo che questo accada”. Immediatamente mi accorsi che quelle donne che non erano mai state a scuola o, perlomeno, non in una scuola istituzionale dove ti insegnano a leggere e scrivere, erano però state alla scuola della natura, avevano imparato a conoscere ogni singola specie che esisteva nelle nostre foreste e soprattutto erano consapevoli di quello che succedeva all’interno di queste: per esempio, sapevano come conservare tali specie, anche nei periodi in cui alluvioni incredibili distruggevano tutto. Conoscevano tutti i fenomeni che avvenivano nelle foreste.
I miei primi studi sono stati dedicati a trovare una spiegazione, una giustificazione, a qualcosa che già si sapeva. Ovvero che da un punto di vista biologico ed ecologico, quelle foreste erano altamente più produttive delle coltivazioni artificiali di pini e di eucalipti e che quel processo di “trapianto” avrebbe impoverito quelle foreste. Ciò che apparentemente rendeva le coltivazioni artificiali più produttive era il fatto che i prodotti della foresta non erano commerciabili sul mercato del legno. Mi ricordo di ufficiali del corpo forestale che mi spiegavano che il problema delle querce presenti nella foresta era che non erano buone per la cucina, non era un legno buono da bruciare. Invece, quegli stessi alberi erano fondamentali perché con le loro foglie davano da mangiare al bestiame, e poi perché filtravano l’acqua permettendole di infiltrarsi nell’humus del terreno, preservando maggiori riserve nel corso del tempo.

Mi resi subito conto che i problemi principali per quelle persone, cresciute e istruite con una mentalità di tipo cartesiana, erano due. Il primo problema è quello che io chiamo monocultura della mente: queste persone sono abituate a considerare, a vedere, un unico aspetto alla volta, mentre la natura ci ha attrezzati per vedere centinaia di migliaia di cose contemporaneamente. Un secondo problema, strettamente correlato a questo, è proprio quello della linearità: infatti, solo una linea può essere realmente misurata; nella mentalità cartesiana c’è questa idea pazza, folle, che solo ciò che può essere misurato ha realmente un valore, esiste veramente. Ma tutti sappiamo, e lo sappiamo da secoli, che non solo ciò che riusciamo a misurare è conoscibile; noi conosciamo attraverso tutti i nostri sensi: attraverso il gusto, attraverso il tatto, attraverso la vista. Ci sono migliaia di modi in cui noi arriviamo a conoscere quello che ci circonda, non solo misurando.

La monocultura della mente, basata esclusivamente sulla linearità, ha creato solo un mondo della quantità. Eppure in questo mondo, anche dal punto di vista dei suoi criteri, comunque qualcosa non torna. In un mondo così isolato ciò che è meno può apparire più e ciò che è più può apparire meno. Un esempio di questo è stata la cosiddetta “rivoluzione verde”, la Green Revolution, che prevedeva l’introduzione di pesticidi chimici e fertilizzanti per combattere la fame e produrre più cibo. Niente di più sbagliato.
Io stessa ho realizzato degli studi, disponibili in tutto il mondo, che possono essere consultati facilmente, per dimostrare che i prodotti ottenuti attraverso l’incremento della biodiversità rendono da 10 a 100 volte di più rispetto ai prodotti creati attraverso la monocultura.
Ma per poter valutare in modo corretto la biodiversità bisogna avere un tipo di mentalità non cartesiana. Se si è accecati dai valori della monocultura è impossibile vedere i risultati reali della biodiversità. Si potrebbe essere di fronte ad una cosa immensa e vederla come misera, povera.

Ad esempio, nel nostro sistema un’azienda agricola che riusciva ad avere fino a 250 tipi di coltivazioni veniva considerata povera. Nella nostra agricoltura erano normalmente coltivate piante come il mango, la banana, vari semi da olio: sono stati considerati poveri e distrutti in favore di monoculture (in particolare del riso) che, in realtà, hanno invece impoverito notevolmente la nostra agricoltura.

Ad esempio per promuovere la coltivazione del grano sono stati ignorati completamente i semi di senape, che sono estremamente produttivi: questa è stata una grossa perdita per la nostra agricoltura.

Tutte queste specie diverse che crescevano all’unisono infatti aumentavano la nostra produttività e quindi la biodiversità poteva svolgere la propria funzione. Una volta che ci si libera di questa biodiversità bisogna investire in ecosistemi produttivi artificiali. Tuttavia, come si può bene immaginare, i veleni non potranno mai sostituire i pesticidi naturali, ciò che l’ambiente è in grado di svolgere da solo. Questi agenti chimici che sono definiti come input esterni sono veramente delle armi di distruzione di massa.
Tutti gli agenti chimici utilizzati in agricoltura derivano da processi non naturali. E derivano soprattutto dall’industria militare. Pensate ad esempio ai composti del nitrogeno: derivano dalle armi. I pesticidi sono stati progettati in origine per uccidere le persone. Ricordiamo il 1994: nella città di Bhopal ci fu un’esplosione in un’industria chimica che produceva pesticidi e morirono 300 persone per l’esalazione dei gas e, dal 1994 ad oggi, altre 30.000 a causa degli effetti di questa esplosione. Erbicidi come il 24D furono utilizzati durante la guerra del Vietnam.
Le monoculture quindi non sono solo qualcosa di distruttivo in sé, perché per essere mantenute richiedono anche un’atroce violenza.

C’è una violenza anche nei confronti delle nostre menti e della nostra libertà perché si progettano cose false come se fossero cose vere, reali, negandoci poi il diritto di decidere liberamente e tenendo nascoste le informazioni necessarie alla nostra consapevolezza.
I conflitti legati all’ingegneria genetica sono un esempio di questa violenza. George Bush recentemente ha dichiarato che l’India sarà portata all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio proprio per obbligarla ad accettare gli organismi geneticamente modificati: questa è una violazione dei nostri diritti.
L’informazione stessa è manipolata. Ora stanno cercando di convincerci che gli organismi geneticamente modificati sono qualcosa di altamente sofisticato e che ci potranno aiutare a risolvere i nostri problemi dell’alimentazione: questo, in realtà, non è vero. Una tecnologia si può definire sofisticata se si migliora attraverso i risultati già ottenuti. Se invece peggiora la realtà dei fatti siamo di fronte a un regresso. Per valutare la bontà di queste tecnologie bisogna fare almeno due cose. La prima è senz’altro avere delle alternative con cui fare un confronto. La seconda è quella di riconoscere che la tecnologia è uno strumento e non un fine in se stesso.
Lo stato di evoluzione dell’umanità non verrà mai misurato con l’evoluzione della genetica. E nemmeno attraverso gli introiti che avranno le società quotate in borsa o i ricavi delle multinazionali. Lo stato di evoluzione umana verrà valutato sempre con due criteri: a) lo stato di salute dell’uomo; b) il valore ecologico, che è quello che ci permette di ottenere la salute che stiamo cercando.
Se si analizzano e valutano i cibi che ci vengono proposti attualmente, che ci chiedono di mangiare, ci si accorgerà che sono potenzialmente dannosi. La biodiversità dunque è sicuramente un metodo più sofisticato rispetto alle tecnologie dell’ingegneria genetica.
Porto solo due esempi, definiti miracolosi dalla stampa e dai media internazionali: il “riso d’oro” e la “patata miracolosa”. Il Times ed il Newsweek hanno fatto le copertine su questo argomento. Anche sull’edizione internazionale dell’Herald Tribune è stata dedicata una pagina intera a questo argomento.

Ciò che si diceva in questi articoli è che il riso non geneticamente modificato non era in grado di produrre vitamina A e che quindi i bambini del terzo mondo sarebbero diventati ciechi. Grazie all’ingegneria genetica 100 gr di riso geneticamente modificato potevano produrre 30 microgrammi di vitamina A. Sull’Himalaya, zona in cui vivo, è stata misurata la quantità di vitamina A contenuta nel riso rosso che qui si produce. Ebbene, è risultata notevolmente superiore a quella prodotta da questo riso geneticamente modificato. Ma in ogni caso, se ci troviamo di fronte ad una carenza di vitamina A, noi possiamo utilizzare la papaia, la zucca, il coriandolo, tanti altri frutti e vegetali ricchi di vitamina A. Non abbiamo bisogno del riso modificato.
Se facciamo un paragone: rispetto ai 30 microgrammi di vitamina A che il riso geneticamente modificato può produrre, i nostri prodotti possono arrivare fino a 1400 microgrammi di vitamina A: una differenza incredibile. Quindi l’ingegneria genetica è 60 volte meno abile nel fornire una soluzione a questo problema.
Dieci giorni fa, e siamo al secondo esempio, hanno scoperto questa incredibile patata proteica. Come è noto, una patata può avere circa 2 milligrammi di proteine. Ora vogliono utilizzare l’ingegneria genetica per portare questa quantità a 2,5 milligrammi. Ma quando si vuole mangiare delle proteine si può mangiare pesce, carne, ricorrere ad altri alimenti!
Nel mio paese abbiamo un legume, che è il nostro fornitore ufficiale di proteine. Di questo legume abbiamo 64 diverse varietà di semi che hanno 64 nomi diversi (non starò qui ad elencarli tutti).
Volontariamente non vi sto menzionando i suoi nomi inglesi, perché gli inglesi quando sono arrivati nel nostro paese non sapevano cosa farsene di questo nostro meraviglioso cibo. E così hanno cominciato a darlo agli animali. Questa meravigliosa fonte di proteine è stata battezzata, in un caso, “piselli per i polli”, nell’altro “piselli per le mucche”, o ancora “piselli per i cavalli”. Ogni tipologia di seme veniva dato ad un animale diverso e dunque gli inglesi hanno chiamato questi semi con il nome degli animali a cui veniva dato. Mi sono accorta in questi dieci anni di lavoro che per questi semi, di cui noi in realtà ci nutriamo abbondantemente, non esiste ancora un nome inglese riferito a un essere umano. Col vecchio colonialismo rischiavamo di dimenticare che questi erano cibi diretti ad esseri umani; il nuovo vuol farci dimenticare che essi sono fonti di proteine. Per dire, la nuova patata geneticamente modificata darà 2,5 milligrammi di proteine mentre i nostri semi ce ne danno 24.

Con la biodiversità il mondo è anche ecologicamente più sicuro perché la biodiversità è la fonte del rinnovamento della vita. La stessa autorganizzazione delle varie specie è strettamente correlata alla biodiversità. Nella mia prospettiva, poi, la biodiversità non è solo una questione di diversità biologica, è anche una questione di democrazia.
La perdita della biodiversità rischia di distruggere la nostra stessa cultura. Nella parte settentrionale dell’India è stato detto agli agricoltori di coltivare patate. Non solo: gli è stato anche detto di non coltivare questo tipo di vegetali per uso proprio, ma di crescerli e coltivarli per l’esportazione. Così tutti si sono messi a coltivare patate. Ma nessuno le ha volute.
Ho partecipato ad un dibattito televisivo con il ministro dell’agricoltura, e il programma è stato trasmesso in diretta proprio nei giorni in cui decine e decine di agricoltori si stavano suicidando per questo disastro economico.
Ebbene, il ministro dell’agricoltura ha detto che queste patate non potevano essere comprate perché erano della misura sbagliata. In India non esiste niente che possa essere definito come una patata “dalle misure sbagliate”. Perché è possibile utilizzare patate di ogni dimensione. E’ possibile fare patate arrosto con la pelle utilizzando quelle più piccole; quelle più grandi possono essere tagliate a pezzi e cucinate in moltissimi modi; ci sono centinaia di piatti in cui utilizziamo patate bollite, e una patata bollita non ha bisogno di una misura particolare. L’unica patata che ha bisogno di una misura è la patata di McDonald’s. E anche le patate della Pepsi. Le loro patate sono standardizzate. Allora, durante il dibattito, ho chiesto al ministro: “Sta dicendo che dobbiamo coltivare le patate solo per McDonald’s e per Pepsi ?”. Ci sarà allora un unico tipo di patata in tutto il mondo?

Nel Wto ci sono degli accordi che vengono definiti “sanitari”, ovvero a difesa della salute del consumatore, e so che sono stati recepiti da gran parte delle legislazioni europee. Ma essi non sono di certo relativi alla sicurezza del cibo, alla sicurezza alimentare. In realtà, si riferiscono alla misurazione del cibo, degli elementi, delle materie prime. E soprattutto riguardano un’industrializzazione che tenta di chiudere le produzioni su piccola scala.
Noi ce ne siamo resi conto nel 1998, quando il nostro olio è stato proibito perché veniva prodotto in frantoi locali. La lobby degli Stati Uniti ha infatti emanato una direttiva sul confezionamento dell’olio in cui veniva imposto che per essere venduto all’estero, doveva essere confezionato in contenitori di plastica. Questo ha comportato l’abbattimento di un milione di piante di ulivo in tutta l’India.
E’ stato in quest’occasione che io mi sono imposta ed ho portato l’olio prodotto dai semi di canapa direttamente alla vendita.
Ora ci stiamo proprio battendo per la promozione dei nostri oli tipici, innanzitutto perché sono più ricchi di sostanze naturali e poi sono anche più gustosi. Lo stesso Slow Food partecipa a questa battaglia.

Per quelli che pensano che solo i ricchi possano preoccuparsi del gusto vorrei raccontare una sorta di aneddoto. Io sono arrivata a occuparmi di questo argomento nell’agosto del 1998, quando hanno proibito l’utilizzo dei semi di senape. Ero a letto ammalata. Una donna dei quartieri poveri di Nuova Delhi mi ha chiamato allarmata per dirmi che i suoi figli non mangiavano: rifiutavano il cibo cucinato con olio importato. Fu lei ad aprirmi gli occhi: “Noi abbiamo bisogno del nostro olio di semi di canapa, altrimenti i nostri bambini non mangeranno, moriranno di fame”. Promisi loro che appena rimessa, mi sarei attivata.

Ma sono centinaia le persone che mi hanno fatto capire che per la gente povera del mondo il diritto al cibo non è il diritto al cibo di scarsa qualità, al cibo cattivo. Il diritto al cibo è un diritto al cibo culturalmente adeguato. Al buon cibo. Al cibo sicuro. Qualunque madre che si trovi a vivere in un quartiere povero, in Italia, in India, in un paese o in una città lo sa bene.
Quindici anni fa ci siamo resi conto che alcune multinazionali volevano il monopolio della biodiversità, assoggettando tutto a brevetti. Si aspettavano che noi diventassimo schiavi di questi meccanismi commerciali ed economici, volevano creare una società monopolistica.
Sono felice di partecipare a momenti in cui ci si riunisce per creare un movimento che vuole sì la globalizzazione, ma della biodiversità. La biodiversità infatti può essere un elemento di collegamento tra comunità che lottano per uno stesso obiettivo. Combattere per i diritti dei nostri agricoltori significa occuparsi della sicurezza e della salute del nostro pianeta e quindi delle popolazioni del mondo.

Note: Questo scritto costituisce il testo della relazione presentata da Vandana Shiva a Forlimpopoli (Forlì), il 22 giugno 2003, in occasione del conferimento del Premio Artusi , che le è stato assegnato per l’impegno con cui da anni si batte a favore dell’ambiente e a difesa delle colture locali e della biodiversità. Fra i frutti della sua attività c’è il Navdanya Conservation Farm, creato per la conservazione e la tutela della grande ricchezza degli agricoltori del Sud del mondo: la biodiversità agricola. Oggi la sua battaglia continua e ha allargato il suo campo di azione verso altri settori, come la difesa della proprietà intellettuale, l’emancipazione delle donne nei paesi in via di sviluppo, la lotta contro la pirateria genetica.
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