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L’attuale modello di sviluppo è in crisi Occorre una nuova strategia che cominci dal basso e costruisca un’autentica vivibilità

"Quale altra mondializzazione ?"

MAUSS # 2
Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali Edizioni Bollati Boringhieri
Alain Caillè*
Traduzione di Alfredo Salsano Anno 2004




24 agosto 2004
Gianni Vattimo
Fonte: www.lastampa.it
20.08.04

Sito della Bollati Boringhier Per quanto «distratti» dalla guerra in Iraq, dalle minacce più o meno autentiche del terrorismo, dai problemi economici che incombono sulla società italiana e mondiale, è difficile che non sentiamo tutti, come un basso continuo a cui cerchiamo di non pensare ma che sappiamo essere l'aspetto decisivo della nostra esistenza, il problema dell'esaurimento delle risorse del pianeta. Talvolta abbiamo l'impressione che i governi dei massimi paesi del mondo siano i primi a non voler ascoltare questa problematica musica; si comportano (per esempio nel caso degli accordi di Kyoto, che dovrebbero essere un primo passo verso la riduzione dell'inquinamento globale) come i ballerini del ponte del Titanic che affonda. Sospettiamo addirittura che siano coscienti della irrisolvibilità dei problemi, e abbiano deciso di godersi il mondo finché non diverrà del tutto inabitabile - sperando magari che ciò riguardi solo le generazioni future, le quali «si arrangeranno». Tutti (o la grande maggioranza di) coloro che si occupano dei problemi dell'inquinamento, delle fonti di energia, delle risorse più elementari del pianeta (si parla ormai dell'acqua, altro che petrolio!), dicono più o meno apertamente che si tratta di ridurre i consumi - di elettricità, di acqua potabile, di combustibili fossili. Ma è un messaggio che nessun politico di professione ha il coraggio di fare proprio. Tutti i programmi elettorali non fanno che parlare di sviluppo; e le misure con cui si valuta lo sviluppo sono sempre le stesse, misure quantitative, soprattutto il famoso Pil, prodotto interno lordo. Solo da qualche anno, al termine sviluppo si usa apporre l'aggettivo «sostenibile». Ma per lo più si tratta di una aggiunta del tutto ipocrita, a cui non corrisponde nessuna vera conseguenza pratica.

Non sono politici di professione, infatti (salvo forse uno, Pascal Lamy, che è stato fino a poco tempo fa commissario europeo), gli autori dei saggi riuniti in un libro di estremo interesse - anche per il suo orientamento non univoco, ricco di punti di vista alternativi - che esce ora come il numero 2 della edizione italiana della Revue du Mauss. La rivista si pubblica semestralmente, da vari anni, in Francia ed è l'organo del «Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali», che evoca nell'acronimo del suo titolo il nome del grande antropologo francese Marcel Mauss, autore di un Saggio sul dono (1925) che fece epoca, e che ispira da allora molti dei critici dell'economia capitalistica o comunque dell'ideale della concorrenza come motore dello sviluppo. Gli autori dei saggi riuniti in questo volume non sono tutti rigorosi «antiutilitaristi»; sono studiosi di orientamenti diversi, anche se legati da una profonda affinità con i motivi ispiratori della rivista (che in Francia è diretta da Alain Caillé e Serge Latouche, ai quali, per l'edizione italiana, si è sempre affiancato Alfredo Salsano, immaturamente scomparso nei mesi scorsi), a cui è stato chiesto di rispondere a una sorta di questionario sulla mondializzazione, che mirava anche a chiarire se in che termini sia possibile una mondializzazione, o globalizzazione, diversa da quella a cui una gran parte dell'opinione pubblica oggi comincia a essere ostile o almeno a sentirsi estranea. In molte pagine del libro, dunque, si troveranno anzitutto le ragioni di questa impopolarità della mondializzazione così come si sta attuando oggi, a cominciare da quelli che abbiamo tutti sotto gli occhi: non l'arricchimento generale, ma l'aumento della differenza tra pochi ricchi e molti poveri; la delocalizzazione di produzioni industriali che getta interi paesi e regioni nella disoccupazione; la mobilità illimitata dei capitali finanziari, che si spostano da un paese all'altro in cerca di profitti speculativi immediati, con un ritmo infinitamente accelerato dalla rete delle comunicazioni elettroniche; l'obsolescenza rapida di competenze, professionalità, esperienze lavorative che mettono fuori gioco lavoratori di 40 o 50 anni i quali difficilmente si possono «riciclare»; oltre, naturalmente, alle conseguenze ecologicamente devastanti della ricerca di un sviluppo senza limiti, che minaccia la sopravvivenza dello stesso pianeta. Non tutti questi aspetti sembrano direttamente legati alla mondializzazione: ma di fatto sono figli dello stesso sviluppo tecnologico accelerato che ha creato il mercato globale. Più o meno, sulla negatività di questi e analoghi aspetti della globalizzazione sono d'accordo tutti gli autori del libro. Si dividono invece, anche se senza contrapposizioni radicali, su ciò che si dovrebbe fare per porvi rimedio.

Nella loro introduzione al libro, Caillé e Salsano distinguono opportunamente quattro atteggiamenti a cui si possono ricondurre le varie risposte. C'è anzitutto una posizione di coerente e radicale rifiuto della mondializzazione, sostenuta in modo lucido e persuasivo da Serge Latouche. L'idea di un mondo sempre più integrato sulla base di un diffuso sviluppo economico non può essere accettata in alcun modo, giacché anche quando ci si oppone alla globalizzazione capitalistica si finisce per esser prigionieri di una ideologia unificante che non sa rinunciare all'idea di una crescita indefinita, magari proponendosi una diversa distribuzione di oneri e vantaggi. È la stessa idea di crescita, almeno nei suoi termini quantitativi, che per Latouche va rifiutata. Al suo posto, si deve coltivare la produzione di beni non più materiali, ma «relazionali»: noi tradurremmo un po' approssimativamente in «meno merci, più servizi», per esempio per riqualificare l'ambiente, e anche per riciclare i tanti oggetti che invece buttiamo via inquinando e distruggendo risorse materiali. Alla base di tutto, c'è l'ideale di una società più vivibile e «conviviale» (secondo un'espressione di Ivan Illich); non necessariamente più austera, giacché tra i beni relazionali ci sono anche quelli che hanno di mira il piacere (Latouche e qualcun altro parlano anche di una dimensione «dionisiaca»!). Una seconda posizione, quella che rifiuta la mondializzazione solo in quanto è capitalistica, e dunque è meno radicale di quella di Latouche, è tra gli altri rappresentata (con qualche sorpresa del lettore, per cui il nome significa estremismo) da Toni Negri. Per lui, non è realistico opporsi alla mondializzazione tout-court: si tratta, anche con l'intervento di entità sovranazionali come l'Unione Europea, di ridurne gli aspetti negativi attraverso, per esempio, tre rivendicazioni: la cittadinanza universale (non solo i capitali devono potersi muovere liberamente, anzitutto le persone), il reddito garantito e la liberazione del web (da ogni pretesa di privatizzare la comunicazione con limiti, brevetti ecc.). La richiesta di un reddito garantito a tutti è giustificata con una ragione non banale: poiché ormai tutta la nostra esistenza è «produzione» - anche quando ci sbrachiamo davanti alla tv produciamo: audience, e cioè reddito per i pubblicitari e le reti - è giusto che questo lavoro diffuso sia rimunerato. Alla terza e quarta posizione (quella di un «riformismo pragmatico» e quella battezzata «riformismo idealista-realista») si riconducono rispettivamente saggi come quello di Pascal Lamy e quello di Jacques Généreux. Lamy, che non intende contrapporre un'altra mondializzazione a quella che è in atto, e che lui conosce bene come commissario europeo, insiste specialmente (et pour cause, dato il rischio che il Wto vada proprio nella direzione opposta) sulla necessità di limitare il più possibile, nella globalizzazione, la mercificazione di una quantità di «prodotti» dell'attività umana che sfuggono per natura a questa riduzione, per esempio tutto ciò che ha da fare con la diffusione e lo sviluppo della conoscenza. Jacques Généreux (nomen omen?) richiama a non considerare il capitalismo come un regime (e un nemico) unico; ci sono diversi tipi di capitalismo, e si distinguono anche in base alla maggiore o minore preoccupazione politica di difendere certi diritti collettivi. Per esempio, «la fiscalità permette di penalizzare le attività inquinanti o di promuovere i servizi di vicinato... E la mondializzazione non impedisce al ministro dell'Istruzione di ridurre il numero di professori nelle scuole di élite per accrescerlo negli istituti scolastici delle periferie povere...» In generale, la politica non è uccisa dall'economia globalizzata. Anche questa dipende da scelte politiche, che possono essere diverse. Si muovono su linee analoghe a queste i tre contributi italiani (Elvio Dal Bosco, Mauro Buonaiuti, Alberto Magnaghi) che costituiscono la seconda parte del volume. In particolare, il saggio di Magnaghi (urbanista di Firenze) sembra poter servire egregiamente anche come conclusione: riguarda «Il nuovo municipio: un laboratorio di economia partecipativa per una economia solidale». In non pochi degli altri saggi del volume una delle vie di uscita dalla globalizzazione «cattiva» era individuata proprio nella rivalutazione dell'economia e delle relazioni locali. Magnaghi propone con molto rigore questa intuizione, e la articola in termini realistici in una «Carta del nuovo municipio» che occupa le ultime pagine del libro. Non è solo un caso, forse, che proprio negli stessi giorni in cui si pubblica il volume del Mauss, siano usciti anche due altri libri i cui temi e le cui conclusioni ci appaiono largamente simili, anche se muovono da premesse e da orizzonti teorici diversi: uno riporta gli atti di un convegno di studi promosso dalla rivista Iride, ed è curato dal direttore Giovanni Mari (con interventi tra gli altri, di Bruno Trentin, Luciano Gallino, Remo Bodei, Salvatore Veca, Marco Revelli); l'altro è opera di S.M. Sheehan, uno studioso irlandese che propone, senza mezzi termini, di «ripartire dall'anarchia», proprio come mezzo per umanizzare e rendere vivibile il mondo della globalizzazione. Ciò che, a parte ogni differenza, accomuna questi contributi, è l'insistenza (più netta, ovviamente, nel libro di Sheehan; ma molto percepibile anche nei saggi del volume di Mari) sulla dimensione locale e, ci si passi il termine, «comunitaria» che dovrebbe ritrovare l'economia per fornire alla vita di singoli e gruppi un quadro qualitativamente migliore. Come scrive Carlo Trigilia (nel libro di Mari, p. 62): per realizzare un efficace programma riformista, si tratterebbe di «rinunciare a ogni illusione centralistica e dirigistica e sostenere attivamente dall'alto l'autonomia e la responsabilità dei singoli e delle collettività locali». Forse, un modo di dire che la globalizzazione si salva solo se parte dal basso, e se è autenticamente democratica. Ammesso che sia ancora possibile.

Note: Alain Caillé, fondatore con Serge Latouche e altri del Mouvement anti-utilitariste dans les scieces sociales (MAUSS) e direttore della «Revue du MAUSS» è autore di numerose opere le principali delle quali tradotte nelle nostre collane.
Oltre a quelli dei curatori, il volume contiene testi di Jean Baechler, Mauro Bonaiuti, Daniel Cohen, Elvio Dal Bosco, Jacques Généreux, Ahmet Insel, Pascal Lamy, Serge Latouche, Alberto Magnaghi, Edgard Morin, Toni Negri, Dominique Plihon.
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