"Osservazioni sull'agricoltura geneticamente modificata e sulla degradazione della specie"
Le Edizioni della “Encyclopedie de nuisances” (letteralmente L’Enciclopedia delle nocività) sono una delle attuali nicchie di riferimento del pensiero critico estremista francese che s’ispira allo storico e ormai disciolto movimento situazionista che ha annoverato tra i suoi fondatori Ernst Guy Debord, una delle figure più lucide e radicali dell’intera galassia della sinistra del secolo scorso, morto suicida a Bellevue-la-Montaigne in Alvernia, nel 1994. Il gruppo di lavoro dell’ ”Encyclopedie “ con uno stile caustico, crudo e diretto, ha pubblicato nel 1999 questo libricino, scritto a più mani, dal titolo “Osservazioni sull’agricoltura geneticamente modificata e sulla degradazione della specie” tradotto poi l’anno successivo in Italia da Bollati Boringhieri. Un pamphlet dai toni apocalittici, iconoclasta e anarcoide, di critica radicale alle biotecnologie e ai suoi apostoli. Un’accesa requisitoria del pensiero reificato che veicola queste nuove tecniche dietro le quali si celano esiti assolutamente sconvolgenti per l’uomo e la natura, entrambi cavie nelle mani degli “ingegneri dei geni”.
La tesi di fondo di questo violento “j'accuse” è che le biotecnologie -tecniche di degenerazione della vita - siano solo l'ennesima tappa della reificazione capitalistica cavalcata dalla civiltà industriale che per combattere uno squilibrio generato da un eccesso di tecnologia, cerca rimedio in una soluzione ancor più tecnologica.
Per il collettivo dell’ “Encyclopedie”, le biotecnologie hanno cancellato innanzitutto ogni antico “residuo” dello scientismo positivista ottocentesco, dove sopravviveva ancora un “principio di precauzione”. In quel vecchio contesto la sperimentazione avveniva in un ambito astratto, separato, riproducibile (il laboratorio come sede imputata a osservare il gioco delle “leggi della natura”, senza l’ostacolo, la fonte d’errore, costituiti dalla natura stessa); prima che i suoi effetti fossero tradotti in conseguenze pratiche sul mondo della vita, c'era almeno l’opzione di una distanza riflessiva, di una comunicazione preliminare tra esperti.
Oggi, la manipolazione genetica distrugge ogni “insularità” della sperimentazione. “L'esperimento è già un'incisione irreversibile sul corpo vivo del mondo e lo modifica senza appello”. La denuncia del collettivo dell’ ”Encyclopedie” è chiara, incontrovertibile e inappellabile: “ L’attività dei biologi che, fino all’invenzione del DNA, trascurava la dialettica della natura a vantaggio della conoscenza frammentaria di quest’ultima, lasciava il mondo più o meno com’era. Per contro, dal momento in cui intraprende la modificazione di un solo organismo nei suoi laboratori, la biotecnologia comincia in realtà un esperimento su scala planetaria, cioè una cosa ben diversa da un esperimento”.
La pericolosità dell’ingegneria genetica e delle sue applicazioni, è assolutamente radicale quanto quella nucleare, “non solo perché entrambe affrontano gli elementi costitutivi – ultimi - della materia e della vita, disintegrando ciò che era ritenuto fino ad allora –indivisibile- (l’atomo o la cellula), ma anche perché nell’uno o nell’altro caso non si tratta più di vere e proprie prove, dato che non c’è più l’insularità del campo di sperimentazione e che il laboratorio –diventa coestensivo al globo-”. Contro questo ottuso riduzionismo genetico, la critica razionalista è insufficente, così com’è assolutamente vano invocare un “principio di precauzione” di fronte alla disseminazione di “chimere geneticamente brevettate” secondo una felice definizione di Jean Pierre Berlan direttore di ricerca presso l’Institut National de la Recherche Agronomique di Montpellier (Inra).
Inevitabile perciò il capovolgimento di prospettive esistenziali e categorie antropologiche consolidate che l’onnipotenza della tecnica genetica supera facendo crescere nella società preoccupazioni, inquietudini, timori. In questi casi il buon senso dovrebbe richiedere, quanto meno che la manipolazione tecnica venga rallentata, una richiesta invece totalmente disattesa e annichilita, perchè asservita a una logica che ha ben poco di scientifico, legata invece esclusivamente al profitto delle aziende transnazionali della salute e dell’agro-alimentare che nascondono inediti e programmati disegni commerciali, in una corsa sempre più frenetica di crescita. Il pragmatismo sperimentale della scienza biotecnologica, esegue ordini come un automa perchè: “Ai proprietari e gestori della potenza tecnica poco importano questi fallimenti a ripetizione, questi crolli imprevisti...Infatti i danni sono solo per gli uomini e per la natura: per l'economia essi significano l'opportuna apertura di nuovi mercati”.
D’altronde, la strategia è ben definita. Perché questo stato di cose si possa realizzare senza resistenze di sorta, senza riflessioni troppo profonde che rallentino il corso degli eventi si è diffuso nell’inconscio delle popolazioni, a livello planetario e con estremo successo, un profondo clima psicologico da “mobilitazione permanente”, da “stato d'emergenza” generalizzato. Come ad esempio le continue e incessanti notizie sull’alterazione dell'equilibrio del pianeta o più recentemente, l'incubo della diffusione di nuove malattie che giustificherebbero l’esasperata ricerca e una sperimentazione senza freni. “La società organizzata su scala mondiale vive ormai in un clima di stato d'emergenza che certamente riflette il suo stato reale ma che è anche l'atmosfera di catastrofe in cui essa ci deve far vivere per imporci le sue novità tecniche”.
La violenta denuncia contenuta nei tre brevi capitoli del libretto dell’ ”Encyclopedie” non risparmia niente e nessuno: i comitati di bioetica, palese manifestazione dello smarrimento della società in materia; il bisogno del capitale di “artificializzare” tutto il vivente indistintamente, per ridurlo a merce e conseguentemente commercializzarlo; la “questione agraria” , cioè “l’incompatibiltà assoluta tra l’esistenza dell’agricoltura come risorsa vitale e quella dell’economia moderna, che implica la produzione su vasta scala di merci standarizzate; il “racket della medicina” che sta introducendo tutto il suo repertorio “d’impianti e protesi destinati a equipaggiare il nostro benessere in un mondo industriale finalmente realizzato: dalla fabbricazione di organi mediante colture dirette di cellule madri all’impianto di ovaie umane in pecore per fornire gli ovociti necessari a questa –industria del vivente-, alla produzione di feti acefali che servirebbero da magazzini di tessuti…agli ormoni della giovinezza, agli eterotrapianti…”.
Una società in cui nessuna forza civile o politica è capace di formulare un’alternativa radicale al sistema. Nè tantomeno lo sono gli ambientalisti, che nonostante siano più sensibili a certe problematiche, però “ rifiutano in genere di guardare in faccia questi fatti piuttosto scoraggianti, perché in realtà essi stessi non hanno alcuna concezione della vita da opporre a quella della ragione economica; o meglio, la concezione che hanno se ne distingue soltanto per l’insistenza posta sulla sicurezza, sulla prudenza, sul principio di precauzione, sulla gestione avveduta delle risorse ecc… Insomma, essi soprattutto rimproverano al dominio di non essere abbastanza scientifico. E a tale esigenza questo risponde, quotidianamente, con innovazioni che dimostrano come sia lui a decidere ciò che è scientifico e ciò che non lo è”.
L’ammonimento conclusivo dell’”Encyclopedie” non lascia dubbi sulla strada della mercificazione genetica intrapresa da questa civiltà delle macchine, “verso la sicurezza della vita artificiale”, e sui suoi esiti futuri: “La salvezza dell’umanità decretata dai genetisti è segnata fin dall’inizio dal sigillo della catastrofe, a cui ci si prepara immaginando di correggere questa natura umana fin troppo vulnerabile, mentre gli psicotropi e le distrazioni organizzate fanno tacere i presentimenti. L’umanità…proietta inconsciamente il proprio desiderio di sopravvivenza nella chimera delle cose mai conosciute, ma questa chimera assomiglia alla morte”.
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