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40.000 schiavi al servizio dell'occidente

Caccia agli avamposti degli schiavi in Amazzonia.

23 settembre 2004
Andrew Downie
Fonte: The Cristian Science Monitor
http://www.csmonitor.com/2004/0907/p01s04-woam.html
7.09.04

. (Foto): Silva dialoga con i 38 schiavi e con il suo team di 14 membri – liberati lo scorso mese lungo l’”Arco di Deforestazione”[area che va dal confine con la Bolivia fino all’Atlantico ndt] nella foresta pluviale amazzonica.

Vale Do Rio Gamelo, Brasile. Humberto Silva si trova dietro le ruote di una enorme Mitsubishi 4x4, centinaia di miglia lontano dalla civilizzazione. Guardando alla sua sinistra, vede una delle meraviglie del mondo: uno spesso muro di alberi che delimita il bordo della possente foresta pluviale amazzonica. Guardando a sinistra, si trova di fronte a un crimine contro l’umanità: una barriera di fiamme e ceneri cosi intense da lasciare al sole un rosa fenicottero quando l’orizzonte occidentale viene ingoiato in una coltre di fumo.
Fra poche ore, il signor Silva di accamperà sotto le stelle con il rumore delle rane che gracchiano così forte da non farlo dormire. Mangerà i piraña cacciati dieci minuti prima e vedrà le impronte fresche di un giaguaro che pesa come molti dei 14 membri del suo team. Farà lo slalom fra le farfalle dipinte in chiari colori primari e udrà gli uccelli dai versi di serpente a sonagli, maracas e sirene della polizia.

Ma al momento è concentrato nella ricerca di un accampamento di schiavi.

Secondo il governo brasiliano, al momento ben 40.000 schiavi – la maggioranza di questi povera, analfabeta e inesperta – vengono fatti lavorare in condizioni disumane. Molti sono attirati nelle foreste pluviali dai rancher – tramite false promesse di stipendi da favola – per potare gli alberi. Una volta arrivati, non hanno né soldi né i mezzi per vivere. In qualità di coordinatore di una delle sette Unità governative anti schiavitù, spetta a Silva aiutarli a ridiventare liberi.

In questo giorno di agosto, ha viaggiato attraverso una strada sporca attraverso una parte dell’Amazzonia, conosciuta come l’Arco di Deforestazione, fino all’alba. Un lavoratore fuggito, Domingos Santos, siede sul retro di un altro pickup, e guida Silva e il suo team verso un lontano campo di schiavi.

“Non siamo lontani”, dice Santos, “solo 20 km circa”.

Dopo mezz’ora, con il sole basso dietro le punte degli alberi maestosi, Santos esclama, “Fermatevi! Qui!”

Silva devia velocemente l’automezzo verso una radura a sinistra. Salta fuori e senza attendere i quattro poliziotti sue guardie del corpo, si inoltra dentro l’oscurità verso una capanna fatta di rami e fogli di plastica neri.

“Come ti chiami?” Chiede al vecchio uscito lentamente per vederlo.

“Amazonas”, risponde l’uomo.

“Vieni qua”, gli dice Silva, e l’uomo barcolla in avanti per essere perquisito. “Quante persone ci sono con te?”

“Solo io e Thiago, e ci sono anche pochi altri in un accampamento proprio qui vicino”, risponde, allorquando tre uomini sbucano dalla foresta.
Dietro Silva si muovono velocemente gli ufficiali di polizia, uno sceriffo della Polizia Federale, cinque detective, due autisti, un assistente del procuratore generale in tema di lavoro, e quattro guardie armate la cui presenza è diventata sempre più fondamentale da quando quattro funzionari sono stati uccisi mentre investigavano sulle pratiche di lavoro nero non lontano da qui in gennaio. Questi perquisiscono altre due persone – uno dei quali è un ragazzo di 16 anni di nome Thiago – e si fanno strada fra le pile di pacchi di riso, di fagioli, fra l’olio per motori, e altre suppellettili accantonate dietro la capanna.

“Ce ne sono altri in capanne proprio lungo la strada”, dice uno degli uomini. Il gruppo di Silva salta di nuovo sui pickup e si dirige verso la foresta. La notte è scesa: alberi ed arbusti strusciano sopra il furgone mentre rimbalza violentemente lungo il sentiero via via più stretto. Mentre attraversano un ponte precario sopra il letto di un fiume prosciugato, Santos grida ancora e Silva dà un colpo di pedale ai freni.

“Salve a tutti lì dentro!” grida in mezzo alla foresta.

“Salve ì fuori”, gli fa eco una voce dall’interno, e una dozzina di uomini escono fuori sbigottiti. Capelli spettinati e barba incolta, guardano gli stranieri in cagnesco. Atteggiamento che, stando alle parole di uno di loro dette successivamente, mascherava allo stesso tempo paura e fierezza.

La maggior parte di loro hanno vissuto nelle foreste per settimane, dormendo su amache con solamente un fragile lenzuolo di plastica come protezione. Si svegliano alle quattro di mattina e mangiano una magra colazione prima di dirigersi dentro la foresta per tagliare gli alberi. Devono acqua e lavano i vestiti nelle stesse vasche fangose utilizzate dagli animali. Sopravvivono con una dieta di riso e fagioli compensata con il pesce pescato nel fiume, o con gli animali selvatici catturati nella foresta. Non hanno bagli né elettricità. Se volessero affrancarsi dal proprio lavoro dovrebbero pagare ai loro padroni 200 reais (68 dollari) per essere portati al villaggio più vicino. Qual è il problema? Che la maggior parte di loro non ricevono che pochi dollari per il loro lavoro.

La lunga storia dello schiavitù in Brasile.

Le radici dello schiavitù sono molto profonde nella quattordicesima potenza economica mondiale. Il Brasile è stato costruito sulle spalle di 4 milioni di schiavi africani, all’incirca otto volte il numero di quelli portati negli Stati Uniti. E’ stata l’ultima nazione del Sudamerica ad abolire ufficialmente la schiavitù, nel 1888, tuttavia ha chiuso più volte un occhio di fronte a tale pratica per la maggior parte del secolo scorso. ,

La situazione comincia a cambiare solo pochi anni fa quando Luiz Inacio Lula da Silva diventa presidente. Ex socialista ritiratosi dagli studi a 14 anni, Lula ha accettato un mandato: quello di trasformare il Brasile un luogo più equo. Una delle sue prime campagne è stata quella di combattere ciò che egli chiama “la vergogna brasiliana”. H a più che raddoppiato il budget del Dipartimento del Lavoro di 2.9 milioni di reais (quasi 1 milione di dollari), e aumentato il numero di Unità Mobili Anti-Schiavitù da quattro a sette.

L’afflusso di contante ha permesso alla polizia antischiavitù di aggiungere 16 nuovi pickup alla vecchia flotta operativa di 22 – e l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO), con sede a Ginevra, ha sovvenzionate le campagne con donazioni di telefoni satellitari, equipaggiamento per le telecomunicazioni, computer portatili e stampanti.

Le unità mobili sono il braccio operativo della campagna. Con l’aiuto della Roman Catholic Church's Pastoral Land Commission, dove molti schiavi fuggiti si recano per denunciare la pratica, la polizia ha valicato le accuse avventurandosi in una delle aree più remote e inospitali della nazione. Il programma ha liberato 4.932 schiavi durante il primo anno in carica del Presidente Lula, un record rispetto al lasso di tempo, il doppio del numero di quelli liberati nei precedenti 12 mesi.

“Sotto Lula, il Brasile è divenuto un punto di riferimento [per le altre nazioni] nella lotta allo schiavitù”, afferma Patricia Audi, coordinatrice dei progetti di sradicamento dello schiavitù presso la sezione brasiliana dell’ILO. “Mai così tanti schiavi sono stati liberati, mai a così tanta gente è stata inflitta una pena pecuniaria, mai così tanta gente ha ottenuto giustizia, e mai fino ad ora l’opinione pubblica è stata informata così approfonditamente”.

Passare la notte sotto le stelle.

Normalmente, la troupe di Silva passa due settimane al mese a rincorrere le soffiate e compiere arresti. Questa sera, Silva dice agli uomini stupiti che è qui per aiutarli e li informa che domani saranno persone libere. Con la città più vicina distante 4 ore, lui e il gruppo non hanno possono che passare la notte come gli schiavi, dondolandosi nelle amache sotto le stelle.

A Silva piace il suo lavoro. Ex poliziotto, ama l’avventura che queste spedizioni comportano. E’ anche un noto spilorcio. I suoi colleghi lo chiamano “0800”, come il prefisso brasiliano del numero verde, e scherzano sul fatto che passa la notte nella foresta per intascare la tariffa giornaliera dell’albergo.

Ma il freddo punge, e anche Silva non riesce a dormire bene. Le lenzuola non offrono molto riparo dagli agenti atmosferici, per non parlare del rumore costante di grilli e rane, e del russare del poliziotto nell’amaca vicino a lui. Quando si alza, intorno alle 5, riesce a vedere il suo respiro nell’aria gelida e cammina a passo svelto verso il falò tenuto vivo dai suoi colleghi rimasti svegli.

Mentre la mattina cala su una notte corta e faticosa, il team di Silva è impaziente di raggruppare gli schiavi di otto campi e di dirigersi verso Vila Rica, la grande città più vicina. Due angurie – comprate alla pompa di benzina il giorno prima – vengono fatte a fette e consumate per colazione. Poi, gli investigatori e gli agenti della polizia federale con le loro mitraglie caricate a fatica tornano indietro nel mezzo della radura a cercare schiavi. Un piraña sventrato con dei denti feroci sta appeso su un palo di legno e una pentola d’acqua bolle sul fuoco vivo. Raggi di sole cominciano a trafiggere gli alberi.

“Come hai dormito?” chiede qualcuno.

“Non ho chiuso occhio”, risponde Joacy Borges de Araujo, uno degli schiavi.

“Troppo freddo?”

“Troppo felice”, dice, con un sorriso che non lascia dubbi.

Una falsa promessa.

La storia di Mr. Araujo è tipica. E’ giunto qua con la falsa promessa di un lavoro di pulitura di una radura per conto di un allevatore di bestiame. E’ stato adescato da Ezequias Alvez Novato, il gato, o capo fattoria, che recluta e gestisce gli schiavi per il fazendeiro, l’allevatore. Mr. Novato ha offerto a Arajuio un anticipo sui guadagni futuri e 300 reais (103 dollari) ogni 12 acri di foresta tagliati. Gli ha dato una motosega da 820 dollari dicendogli che sarebbero stati tolti dal suo stipendio. Successivamente gli ha fatto pagare – o meglio strapagare – per ogni altra cosa necessaria al lavoro e alla sopravvivenza, compresi benzina, olio del motore, sapone, vestiti e cibo. Il trentasettenne padre di tre figli non ha mai abbandonato il posto di lavoro; Mr. Novato gli avrebbe fatto pagare 68 dollari per la dipartita.

Dall’inizio della campagna, l’anno scorso, i funzionari di polizia brasiliani hanno trovato schiavi su terreni intestati a compagnie multinazionali, a un senatore federale, a un deputato federale, e a decine di milionari. Gli investigatori hanno trovato schiavi che vivevano in condizioni infime, nei pressi di una villa che il fazendeiro aveva copiato da un’abitazione di cui la moglie si era innamorata in Francia. I funzionari ammettono di non rimanere più scioccati di trovare gente ridotta in schiavitù vicino ai cavalli che godono di scuderie ben mantenute, diete bilanciate, e periodiche visite veterinarie.

“Vivono in condizioni peggiori di quelle degli schiavi del diciannovesimo secolo”, dice Dercides Pires, assistente di Silva, guardando la dimora temporanea di Araujo. “Ecco perché la chiamiamo schiavitù. Puoi vedere con i tuoi occhi quanto è degradante. A questa gente è stata tolta la propria vita normale di cittadini e gli sono stati negati i propri diritti”.

Mr. Pires ordina agli uomini di raccogliere i propri averi. Mentre portano via le motoseghe e il cibo, i poliziotti strappano le tende di plastica così che nessuno può più riutilizzarle e bucano i barili di benzina e olio motore. Alla sera, hanno recuperato quasi quaranta schiavi da nove campi e sono già a cena sotto il tetto di plastica della base. Uno degli autisti avanza verso il fiume – vicino a alcune enormi impronte di giaguaro sulla spiaggia – e pesca un bel po’ di pesce che viene cucinato con riso e farina. Il pasto rallegra tutti, ma ciascuno è desideroso di ritornare alla civiltà.

Obbligare il proprietario del ranch al risarcimento.

La prossima missione del gruppo è quella di trovare il fazendeiro e assicurare i pagamenti ai lavoratori. Quando Silva riporta la sua Mitsubishi sulla sudicia autostrada il sabato pomeriggio, lo fa seguendo due uomini: Novato e il suo capo, un uomo conosciuto come Junior.

Dopo un giorno passato a inviare messaggi con gli amici e i familiari, Silva rintraccia il responsabile dell’allevamento Novato. Questi a sua volta si mette in contatto con Eli Junior Pereira, un uomo tarchiato il quale ha venduto la sua mandria per mettere insieme i soldi e acquistare i 7.100 acri di foresta da tagliare per convertirli in pascolo. Per legge, Mr. Pereira deve pagare gli operai per il lavoro svolto. Dopo averli sentiti al ritorno a Vila Rica, e in base agli accordi con gli avvocati di Mr. Pereira, Silva ha stabilito che questi debba tirar fuori 100.000 reais (34.000 dollari). Alle banche di Vila Rica ci vogliono due giorni per concordare l’esborso di questo grande ammontare di soldi – e solo dopo l’intervento dell’ispettorato del lavoro.

Ma alla fine, i soldi vengono impacchettati in due buste marroni, e gli avvocati di Pereira insieme a Silva si siedono e contano il giusto ammontare da dare a ognuno degli uomini allineati di fronte all’uscio.

Anche se non lo dà a vedere, questa è la parte che piace di più a Silva. Egli si sente orgoglioso di stanare campi di lavoro dimenticati e di comunicare ai sofferenti schiavi che sono liberi di andare. Gli piace rintracciare i fazendeiros per costringerli a pagare. Ma il momento migliore di tutti è quello in cui consegna mazzetti di banconote a gente che non si sarebbe mai aspettata di vedere tanta ricchezza.

Ormai fa questo lavoro da tre anni e sa bene che tipo di uomini vengono nella foresta pluviale. Molti di loro sprecheranno la loro fortuna inaspettata. Silva si rifiuta di consegnare i soldi a gente ubriaca se non la mattina dopo quando ridiventa sobria. Ma questo, dice, non è il punto. C’è una soddisfazione enorme nell’assistere alla giustizia. “Lì”, dice ad Araujo dandogli 3.714 reais (1.270 dollari), una somma che avrebbe guadagnato in 14 mesi con lo stipendio minimo brasiliano.
“Puoi scrivere il tuo nome?”

“Sì signore”, dice Araujo, prendendo la penna e scarabocchiando il suo nome sulla ricevuta.

Araujo imbusta i soldi e gli occhi gli si gonfiano. “Sono così contento”, dice andandosene verso Porto Alegre do Norte, una cittadina lontana 80 miglia da qui, casa della maggior parte degli schiavi. “Mi sento di essere stato pagato il giusto prezzo per il mio lavoro”. Ora comincerò una nuova vita, comprerò dei vitelli e li pascolerò tranquillamente a Porto Alegre dove mio fratello ha un terreno. Comprerò nuovi vestiti e scarpe per i miei tre figli.”

Alcuni padroni degli schiavi faccia a faccia con la prigione.

Sebbene Silva ha assicurato il pagamento agli operai, è ben consapevole che la vittoria è incompleta. Il governo ha raddoppiato la pena massima per il lavoro degli schiavi, fino a otto anni, ma le condanne dei criminali sono quasi impossibili da ottenere. I pochi fazendeiros accusati come Pereira, hanno abbastanza soldi da spendere con avvocati e eludere la giustizia e trascinare i processi verso sentenze infinite. Probabilmente finirà col pagare una semplice multa.

“Stiamo solo mettendo delle pezze”, dice l’investigatore Marco Antonio Molinetti, esperto membro del team. “Di fatto non è cambiato praticamente niente”. L’unico modo di sradicare il lavoro degli schiavi sarebbe quello di approvare la legge [che al momento giace al Congresso] che permette al governo di confiscare i terreni di chi sfrutta queste persone. Lei pensa che una persona .. rischierebbe di perdere 14.000 capi di bestiame con tutte le terre annesse? Direi proprio di no”.

L’incapacità del governo di approvare questo deterrente chiave è solo uno degli ostacoli che la campagna anti schiavitù deve affrontare. La Corte Suprema brasiliana ha passato più di un anno a decidere se lo schiavitù ricade sotto la giurisdizione federale o statale.

Alla fine, non tutti i livelli di governo lavorano insieme. Quando Silva chiede allo sceriffo Cristian Lages se pensa di istituire una commissione investigativa, questi scuote la testa. “Non penso che ci siano i presupposti per un reato penale”, dice. Silva, normalmente un uomo paziente, perde le staffe.

“Cosa sta dicendo?” dice indignato. “Ciò che abbiamo visto là fuori è stata una delle cose peggiori che abbia mai visto. Se quella non è schiavitù allora potrei licenziarmi e suggerire di smantellare le Unità Mobili Anti Schiavitù adesso. Tu sei mio amico Cristian, e mi piaci, ma chiederò che non ti venga più assegnato di lavorare con noi.”

Le parole rimangono senza risposta, un velo pietoso su una notte di lavoro dell’Unità – una notte che si supponeva dovesse essere festeggiata. La mattina successiva il gruppo torna a casa. La foresta brucia ancora e mentre percorrono l’autostrada principale fuori dalla città, strisce di cenere cadono sul parabrezza come fiocchi di neve sporchi. “E’ triste”, dice Silva, accelerando. “Mi fa pensare alla morte”.

Il 1 settembre, il Monitor ha prodotto una relazione speciale sulla schiavitù nel mondo, “La schiavitù non è morta, ma è solo meno riconoscibile”.

Note: Traduzione per Peacelink a cura di Agostino Tasca
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