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Ivan Illich oltre che personaggio geniale e scomodo era anche un ecologista antesignano. Quanti lo conoscono?

28 settembre 2004
Giannozzo Pucci
Fonte: Associazione culturale Case Sparse

Ivan Illich

Ivan Illich è morto a Brema il 2 dicembre scorso (2002 ndr). La sua instancabile ricerca e riflessione fino all’ultimo istante di vita è stata motivata da un grande amore per l’essere umano e ispirata dal cristianesimo. Era questo che gli permetteva di riconoscere le più subdole coartazioni della libertà prodotte da quella ideologia burocratico – professional – politico - tecnologica che è la religione modernista, con i suoi sacerdoti (i professionisti e gli scienziati), le sue divinità (il profitto, la scienza, il progresso, lo sviluppo), le sue liturgie (i regolamenti burocratico amministrativi) e la sua lingua (la statistica) in contrasto con la parola, il Verbo. Egli ha smascherato questo neopaganesimo come una degenerazione della chiesa cattolica, sorta di anti-chiesa e anti-cristo che ha trasformato la persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, in un essere larvale pieno di bisogni definiti e risolti da esecutori di regolamenti e da tecnostrutture.

Il mondo moderno, secondo Illich, non è affatto laico ma inserito completamente dentro la storia della chiesa come "corruptio optimi pessima", e fa parte di quel "misterium iniquitatis" con cui siamo costretti a convivere consci che "le porte dell’inferno non prevarranno", ma non per questo giustificati per i nostri tradimenti. Una volta mi confidò che credeva di essere uno dei pochissimi preti di sua conoscenza, se non l’unico, rimasto fedele al giuramento antimodernista, lui che pure affermava categoricamente l’incoerenza del giuramento col vangelo.
Verso la metà degli anni ’70, Jacques Monod, circondato da tutta la sua corte intellettuale, invitò a cena Illich che considerava il massimo genio del pensiero economico-sociale del 20° secolo. Ivan scatenò tutto il suo disprezzo fin quasi alla maleducazione e se ne andò a metà pasto. Avevano ragione tutti e due:
Illich a manifestare la sua incompatibilità contro chi credeva che l’uomo fosse un numero uscito a caso dalla roulette dell’evoluzione;
Monod a considerare Illich il gigante del pensiero sociale moderno.

Un aspetto straordinario della sua analisi è che pur riducendo in polvere i castelli ideolgici liberali, marxisti e fascisti senza usare nulla della strumentazione marxista e senza quasi nominarli, ma solo analizzandone gli effetti, Illich non elabora una dottrina, ma solo una proposta di temi d’investigazione, perché (di nuovo senza dirlo) la pars construens a cui si riallaccia il suo pensiero esiste già da quasi mille anni nell’opera di San Tommaso d’Aquino, perciò compatibile col vangelo che invita a non farsi chiamare maestri perché uno solo è il nostro Maestro.
L’impegno di Illich nel campo delle idee e dell’amicizia, piuttosto che nell’azione sociale, derivava dalla consapevolezza che lo scontro fondamentale è nel cuore umano, da cui nascono e in cui si riflettono i pensieri che guidano poi le scelte personali e politiche, e poi non si fidava della possibilità di convertire le istituzioni attuali con la politica, senza una profonda deistituzionalizzazione e rivoluzionaria umanizzazione della società. Dalle sue intuizioni sono derivate, per iniziativa di altri, parziali attuazioni istituzionali come la legge Basaglia in Italia, che ha dato buoni frutti ma i cui limiti nascono anche da una società circostante in cui è stata sistematicamente emarginata e perseguitata l’autonomia comunitaria.

Illich, nonostante la sua giovanile ammirazione per La Pira, è rimasto sempre contrario a una concezione neoguelfa della politica. Forse la degenerazione della tecnostruttura sociale la considerava così avanzata da superare quella dell’impero romano nei primi secoli del cristianesimo e quindi era portato a riproporre in chiave moderna l’anatema contro lo stato pagano. Se si pubblicheranno gli atti delle giornate di studio tenute a Camaldoli nel maggio 2002 emergeranno meglio le sue idee al riguardo.

I principali aspetti delle istituzioni che impongono a tutti, gli obblighi della civiltà industriale, sono stati da lui studiati con una capacità di passare, mediante la stessa ipotesi di lavoro, da un ambito all’altro di ricerca, che è stata anche uno dei più importanti insegnamenti trasmessi ai suoi studenti in un’epoca dove si tende solo a insegnare la specializzazione.
E’ stato definito in molti modi: sociologo, economista, scienziato della politica, ideologo della tecnica, perché male si adattava alle correnti definizioni, in realtà era un uomo che riflette sulle ragioni ultime di ciò che vede intorno a sé, ma fece cancellare il termine "filosofo" dal passaporto dopo che un arabo gli si era buttato ai piedi folgorato da quella parola. Alla fine si adattò a farsi definire "storico": non tanto per il dottorato giovanile in storia all’Università di Salisburgo su Toynbee, ma perché ogni suo lavoro è stato basato su profondissime e innovative ricerche storiche, che non hanno concesso nulla a una visione evoluzionista della storia.
Una grande influenza sulla sua riflessione e scelte personali hanno avuto Dostoyevsky e Jacques Maritain, insieme all’incontro con i fondamenti della fede nell’opera di Romano Guardini che fu il tema della sua tesi di teologia.
Il rapporto difficile ma sostanziale con la chiesa emerge nell’incipit del suo intervento di apertura al seminario di Camaldoli:

Spero di parlare come figlio della Chiesa, non parlo come teologo, Essere teologo nella Santa Chiesa è un mandato, non è una competenza. Io non ho questo mandato. Ho studiato la mia teologia. Sono stato quel teologo nel Concilio Vaticano Secondo che ogni giorno s’incontrava con i quattro cardinali presidenti. Ho rinunciato a questo incarico in mezzo a una sessione quando la Santa Chiesa non poteva decidersi di dire che produrre la bomba atomica è un peccato orribile come produrre i preservativi di gomma. Ho detto "non posso continuare qui", facendo un piccolo disegno mal fatto, non disegno bene, da un lato un pene semiflaccido con un preservativo, dall’altro un missile che parte con una bomba e sotto la scritta "EST NE CONTRA NATURA?" per far capire semplicemente la mia domanda. Ma ciò non toglie che quello che avrò da dire sulla posizione della Chiesa nella storia dell’occidente, come elemento essenziale di quello che chiamiamo oggi l’occidente, è detto da un figlio triste che vuol essere fedele e che vede nelle macchie della sua madre, la Chiesa, solamente una ragione per credere più fortemente, per ammirare Gesù che nella sua prescienza deve avere saputo che cosa sarà la Chiesa e nonostante questo me l’ha data come madre unica e senza la quale…dico questo affinché non vi sia un dubbio sulla mia buona volontà di essere un uomo di fede.

La riflessione di Illich alla luce di Maritain e S. Tommaso rappresenta oggi l’asse portante del discernimento per un’azione sulla società moderna ispirata al Vangelo
Giannozzo Pucci
Ivan Illich era nato a Vienna il 4 settembre 1926 da padre croato e cattolico, proprietario di terre che appartenevano da secoli alla famiglia nell’isola dalmata di Brazza, e da madre ebrea sefardita. Nel 1941 con la madre e i fratelli dovette lasciare l’Austria a causa delle leggi razziali e venne a Firenze.
Qui finì le scuole secondarie al liceo scientifico Leonardo Da Vinci e iniziò l’università con studi di istologia, cristallografia, e per proprio conto psicologia e storia dell’arte; qui maturò la scelta del sacerdozio.

Nel 1943 cominciò a Roma i corsi all’Università Gregoriana, risiedendo al Collegio Capranica.
Ordinato sacerdote nel 1951 chiese di essere assegnato alla diocesi di New York e fu nominato viceparroco in una parrocchia dove stava iniziando l’arrivo di molti immigrati portoricani a cui si dedicò con grande passione. In questo periodo collaborò con Jacques Maritain, sostituendolo quando era impossibilitato per malattia a tenere le lezioni a Princeton su S. Tommaso d’Aquino. Nel 1956 si trasferì, come prorettore, all’Università Cattolica di Portorico. Nel 1959, a 33 anni, divenne uno dei più giovani monsignori del tempo, ma nel 1960 lasciò l’isola anche per la sua opposizione a un modello di chiesa locale "yankee" in una società latinoamericana che lo aveva portato allo scontro con la gerarchia cattolica del luogo e in particolare col vescovo di Ponce, James McManus, che aveva preso posizione in occasione delle elezioni locali.
Tornato a New York divenne delegato per il settore ricerche del presidente della Fordham University e nel 1961 mise in piedi, in Messico a Cuernavaca, il Centro Interculturale di Documentazione (CIDOC) per preparare i preti alle missioni in America latina, specialmente dopo un esplicito invito del papa a che almeno uno su dieci dei religiosi nordamericani si mettessero al servizio della parte sud del continente. Illich ne rimandò a casa la metà giudicandoli inadatti all’impegno missionario, perché incapaci di liberarsi dai postulati del benessere consumista e della società industriale nordamericana. Ciò nonostante il Centro esercitò una grande attrazione sui giovani sacerdoti prima, e successivamente su tutta la generazione degli anni ’60 e ‘70 diventando uno dei punti più avanzati nel mondo sullo studio della modernità e dei problemi chiave della società occidentale.

Partendo da un’ispirazione assolutamente non marxista ma cristiana, diventò molto efficace nel combattere la politica colonialista del modello americano/occidentale di società. In un episodio mai completamente chiarito s’insinuò nei rapporti fra Stati Uniti e Chiesa per salvare persone, fra cui dei preti, sottoposte alla tortura in regimi dittatoriali del sud-america. Sfuggì a più di un attentato e, dopo la morte del cardinale di New York Spellmann che aveva sempre nutrito una grande fiducia nella sua devozione e impegno, nel 1968 fu chiamato a Roma davanti al Sant’Uffizio per un processo da cui uscì prosciolto, ma a causa delle sue critiche all’organizzazione istituzionale della Chiesa sulla rivista americana dei gesuiti gli furono tolti i finanziamenti, dopo di che Illich recise ogni legame fra il CIDOC e la Chiesa.
Nel gennaio 1969 il Sant’Uffizio vietò ai preti di seguire i corsi del CIDOC. Due mesi dopo, in una lettera aperta pubblicata dal New York Times, Illich rinunciò unilateralmente a tutti i suoi titoli, benefici e servizi ecclesiastici, smise di dire messa, conservando l’impegno alla preghiera quotidiana del breviario. Non chiese mai la riduzione allo stato laico, non fu mai sospeso, ma è rimasto fino alla fine nell’elenco dei sacerdoti incardinati nella diocesi di New York.
La sua diventò quindi da allora una missione in partibus infidelium cioè in una zona di frontiera della chiesa.

Il primo libro di Illich, pubblicato alla fine degli anni ’60, riguarda appunto la Chiesa nel processo di trasformazione della società moderna (The Church, change and development).
Il secondo, del 1970, intitolato Celebration of Awareness (Celebrazione della consapevolezza: un appello alla rivoluzione istituzionale), è contro le certezze delle istituzioni che imprigionano l’immaginazione e rendono insensibile il cuore.

Poi, nel 1971, esce Descolarizzare la società che è stato al centro del dibattito pedagogico internazionale con la tesi che la scuola produce la paralisi dell’apprendimento e danneggia i ragazzi, educandoli a diventare meri funzionari della macchina sociale moderna. Convinto che il sistema educativo occidentale fosse al collasso sotto il peso della burocrazia, dei dati e del culto del professionalismo, combatteva i diplomi, i certificati, le lauree, insieme all’istituzionalizzazione dell’imparare. Affermava che un adulto sarebbe in grado di apprendere i contenuti di 12 anni di scuola in uno o due anni.

Del 1973 è La Convivialità, il testo fondamentale dell’ecologia politica, in cui si dimostra che l’origine di ogni inquinamento industriale sta nei divieti e ostacoli alle culture solidaristiche e comunitarie di uso della natura che contengono la chiave per un percorso di liberazione.
Energia ed Equità esce l’anno dopo concentrandosi sull’analisi del sistema dei trasporti e vi si dimostra come elevate quantità di energia degradino le relazioni umane con la stessa ineluttabilità con cui inquinano la natura.

Nemesi Medica, del 1976, esamina i danni alla salute prodotti dalla crescita dell’organizzazione sanitaria, uno degli aspetti della nocività dello sviluppo industriale. Il sistema medico della società moderna non è solo produttore di danni alla salute con terapie spesso menomanti, ma anche con la medicalizzazione della vita come sostituzione dei necessari provvedimenti politici per rendere l’ambiente salubre.

Per una storia dei bisogni è del 1978 e descrive la modernizzazione della miseria, cioè l’organizzazione dell’impotenza del cittadino ad agire autonomamente per la crescente dipendenza da merci e servizi industriali la cui necessità è imposta da una casta di esperti. Ancora del 1978 è Il diritto a una disoccupazione creativa in cui si dimostrano le ambiguità storiche su cui si fonda la moderna identificazione del lavoro col lavoro salariato. Solo distruggendo questo tabù si potranno creare le condizioni per una piena occupazione.
Lavoro Ombra, del 1981, sviluppa ancora il tema della formazione della scarsità attraverso la distruzione delle comunanze, su cui, nel loro aspetto di lavoro domestico femminile, si riposa il lavoro salariato, trasformandole appunto nella propria ombra sfruttata.
In Genere e Sesso, del 1982, la scomparsa del genere maschile e femminile e l’invasione dei rapporti fra uomo e donna da parte del sesso è dimostrata come la decisiva condizione dell’ascesa di un modo di vivere dipendente da merci prodotte industrialmente.
Del 1984 è H2O e le acque dell’oblio, dove si dimostra storicamente come l’acqua, da sostanza inesauribile che alimentava il corpo insieme allo spirito e all’immaginazione, è divenuta una formula inquinata di chimica industriale, dalla cui depurazione dipende la sopravvivenza umana.
Nel 1992 escono altri due libri importanti: Nello specchio del Passato, che svela le radici storiche dei luoghi comuni della modernità dimostrando la loro inconsistenza; e Conversazioni con Ivan Illich a cura di D. Cayley, in cui tutto il suo itinerario si svela con accenti nuovi.
Infine, nel 1993 esce l’ultimo libro Nella vigna del testo il quale sarà particolarmente ricordato anche dai medioevalisti come uno straordinario commento al Didascalicon di Ugone di S.Vittore sul passaggio dalla lettura monastica a quella scolastica.
Non si contano gli articoli, i seminari, gli incarichi in numerose università americane ed europee, i corsi e le conferenze.

Nell’ultima lettera mi scrive:"Il tanto lavoro per l’edizione completa dei miei scritti e per il volume che raccoglie quelli degli ultimi dieci anni procede lentamente. In parte per la fatica a cui non sono abituato, ma più ancora per tre ragioni:
1. io stesso in relazione a molti paragrafi direi le cose altrimenti nel 2002;
2. concentrandomi su questo lavoro mi rendo conto con che velocità cambiano le "certezze" assiomatiche in questo decennio e…
3. invecchiare, nella mia generazione, credo che sia qualcosa senza precedenti: per le epoche distinte che abbiamo traversato."
Nel terzo punto si sente l’eco di quello straniamento dal proprio popolo, dalla propria terra e cultura che Illich ha sofferto e vissuto in modo speciale ma che rappresenta anche le sofferenze dei milioni che negli ultimi decenni sono stati colonizzati dalla civiltà dei consumi.
Non avremo la gioia della sua compagnia a Firenze questo Natale, come accadeva oramai quasi regolarmente da diversi anni, qui avrebbe voluto morire ed essere sepolto, ma le circostanze hanno deciso altrimenti.
Non è morto del cancro alla faccia che gli ha tormentato il trigemino per quasi vent’anni ma in pochi secondi, probabilmente di un arresto cardiaco, con accanto le carte del lavoro che stava ultimando.

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