Boomerang tossico
si sposta, ricade con la pioggia, entra nei cibi. E torna al mittente
27 febbraio 2004
La costa libanese è sfregiata da rifiuti industriali, domestici e ospedalieri. In Messico, tutta l’area di Juarez è un’immensa discarica. In Ecuador la compagnia petrolifera Texaco ha devastato città e foreste. La mappa della terra avvelenata pullula di bandierine. Provate a cliccare sul sito di Greenpeace (www.greenpeace.org) e cercare toxic hotspots (i punticaldi “tossici”): si apre una cartina con tanti teschi. Divisi per inquinante (diossina, Ddt, Pcb e gli altri) si trovano luoghi del peccato, foto e peccatore: dall’agente arancio in Thailandia alla diossina alle Hawaii. E se volete saperne di più sui colpevoli degli scempi ambientali, scaricate il dossier Corporate crimes, all’indirizzo www.greenpeace.it/inquinamento/corporatecrimes.pdf: 148 pagine di casi di inquinamento petrolifero, chimico, nucleare e così via, con tanto di profilo dell’azienda che si è macchiata del crimine, danni con stime per bonifiche e risarcimenti, ma anche il comportamento dell’industria dopo il fattaccio, eventuali azioni legali e loro esito. Questo è il nostro habitat. L’habitat di noi abitanti del mondo. Di occidentali alla famelica ricerca di discariche negli angoli più remoti del pianeta. Di produttori-consumatori che pensano di liberarsi delle scorie spostando le industrie più luride là dove battersi per l’aria è un lusso. Chimiche, concerie, raffinerie, fabbriche metallurgiche vengono piazzate in nazioni dove le norme ecologiche sono ridicole e i governi pronti a tutto per accaparrarsi investimenti stranieri. Nella convinzione di poter continuare a consumare, confiniamo lo sporco in casa altrui.
È un errore. Anche l’inquinamento è globale. E torna all’origine, a ritorcersi contro chi ha cercato di godere delle rose senza pungersi, scaricando bidonate di spine nel giardino di vicini troppo affamati per preoccuparsi di dettagli ambientali. Oppure, l’inquinamento va a rintanarsi in luoghi che consideravamo puri e incontaminati: sui ghiacciai delle Alpi o tra le foche dell’Artico.
Luca Mercalli, presidente della Società italiana di meteorologia, spiega che esistono inquinanti “a corto raggio”: sono pesanti e di dimensioni tali da non farcela a superare qualche centinaio di chilometri. Tra di essi, le polveri di cui tanto ci preoccupiamo in inverno, quando i nostri governanti
ci impongono di andare al lavoro in bicicletta. E poi ci sono gli inquinanti globali, prodotti chimici più complessi (vedi box), di solito insetticidi che migrano attraverso il globo terrestre. Lo chiamano effetto-cavalletta, o processo di distillazione globale: l’insetticida spruzzato in Sud Africa evapora e comincia a volare, trasportato dalle correnti finché non incontra una temperatura più fredda; allora condensa e precipita al suolo. Qui rimane (mettiamo, in Europa) finché non fa più caldo. Al primo tepore rievapora e via, altro viaggio. Saltellando da un continente all’altro come, per l’appunto, una cavalletta, il nostro insetticida percorre centinaia di migliaia di chilometri, finché non arriva dove più freddo non si può: tra i ghiacci eterni. E qui si ferma. Per la gioia di foche, orsi e Inuit. E non c’è sempre bisogno di scomodare le cavallette: basta un cargo da trasporto perché il Nemagon, insetticida usato in Nicaragua fino a una dozzina di anni fa per soddisfare la nostra voglia di banane, arrivi nei nostri piatti. Basta un tonno che abbia mangiato cento pesci, a loro volta saziati con plancton avvelenato, perché il mercurio faccia il giro del mondo. O perché il Prozac (sì, l’antidepressivo) che oggi inquina le falde acquifere inglesi si riversi nei mari globali.
Anche in tema di inquinamento, insomma, tutto il mondo è paese. Lo ha dimostrato uno studio sui livelli di anidride carbonica (CO2) negli oceani pubblicato su Science lo scorso luglio. Non importa che il gas che sta soffocando la terra sia stato emesso a Bombay o a Basilea: dai 72 mila campioni d’acqua di mare prelevati da Oceano Atlantico, Pacifico e Indiano, si è visto che le acque sono arrivate a un terzo della capacità di contenimento a lungo termine di CO2. Negli ultimi 200 anni, da quando è iniziata l’era industriale, 118 miliardi di tonnellate di anidride carbonica generata dall’uomo sono state assorbite dagli oceani. Dall’acqua all’aria. Rammentate il nuvolone asiatico, il copertone tossico alto tre chilometri che, nell’agosto di due anni fa, aveva piantato le tende sul sudest asiatico e sui media occidentali, generando sgomento? Era una nube fatta di fumo, cenere, acidi e particelle tossiche sospese. “Le porcherie microscopiche vomitate da fabbriche e fabbrichette si sono alleate ai fumi sprigionati dall’economia tradizionale, dal kerosene adoperato per cucinare all’aperto, dai camini, da forni e comignoli alimentati da mattonelle di sterco bovino”, scriveva in quei giorni Vittorio Zucconi su Repubblica, “creando un’enorme nube che non ha il buon gusto di restare ferma a impestare l’Asia (il mio shopping varrà bene qualche morto in più per inquinamento a Calcutta…), ma si muove pattinando sulle correnti d’alta quota verso di noi”.
Da allora il silenzio stampa è sceso sullo smog globale. Che fine ha fatto il nuvolone? Scomparso? Magicamente riassorbito? Disperso? Nossignori è ancora lì. Ha solo cambiato nome. Per non dar l’idea di essere una spessa coltre di veleni minacciosi, ufficialmente si chiama haze, foschia. Insomma un’innocua “nebbiolina”. Che di anno in anno aumenta, grazie al contributo di milioni di ettari di coltivazioni che ogni estate vanno in fumo; migliaia di campi, ma anche migliaia di estese piantagioni industriali, vengono bruciati per ripulire il terreno dalle sterpaglie e prepararlo per la semina. Incendi vietati, ma tuttora diffusissimi, di cui spesso si perde il controllo. “Il fumo, portato dai venti di sud-est, si allarga sulle aree abitate, arriva ad avvolgere le città, intrappola le particelle di smog urbano e gli scarichi industriali fino a diventare una coltre spessa e tossica”, scrive Marina Forti, giornalista del Manifesto, in "La signora di Narmada, le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo", pubblicato in primavera da Feltrinelli.
Che la si chiami nuvolone o con l’eufemismo foschia, nel ’97-’98, anno della “crisi degli incendi” scoppiata in Indonesia, la coperta tossica celeste ha immesso nell’atmosfera nientemeno che tra 0,81 e 2,57 giga di tonnellate di CO2, ovvero tra il 13 ed il 40% delle emissioni di carbonio dell’intero anno (lo ha scritto Susan Page dell’Università di Leicester su Nature del 7 novembre del 2002). Studiata dal ’95 con un programma di ricerca chiamato Indian Ocean Experiment (Indoex), la nuvola copre un’area immensa che va dal Golfo del Bengala fino al Mar Arabico e giù fino alle Maldive, raccogliendo gli scarichi di una regione popolata da due miliardi e mezzo di persone. I risultati dell’Indoex, divulgati dal Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep), parlano di minaccia globale che modifica il clima (www.rrcap.unep.org).
La coperta tossica, infatti, abbatte del 10-15% la quantità di luce solare che arriva alla superficie del pianeta, assorbe calore riscaldando la parte bassa dell’atmosfera, intrappola emissioni acide che ricadono poi sulla terra, riduce la sintesi clorofilliana e quindi la produttività delle piante… Ora l’Unep sta indagando sulla relazione tra nuvolone e cambiamento globale del clima. "Ma attenzione", avverte Jayaraman Srinivasan, presidente del Centre for Atmospheric and Oceanic Sciences di Bangalore, "a non colpevolizzare i Paesi in via di sviluppo per l’inquinamento del pianeta". E Mercalli puntualizza: "La nuvola non si sposta in massa, le correnti e le distanze la diluiscono". Ma tant’è, anche l’infinitesima parte della foschia asiatica (così come quella del gas di scarico della nostra automobile) contribuisce a saturare l’atmosfera. L’inquinamento non scompare: viaggia, e prima o poi si deposita. Non dimentichiamo che il ciclo è chiuso: il pianeta è uno. Salvo la sporcizia biodegradabile, il resto ricade sotto forma di pioggia, si sposta, penetra nel suolo, finisce nelle falde acquifere e nella catena alimentare. Inutile continuare a fregarsi le mani, illusi di aver confinato l’immondezza dal vicino.
Alle storie di crisi ambientali raccontate da Marina Forti nel suo libro si potrebbe aggiungere il caso del Messico, esempio eloquente del modo in cui produzione e inquinamento vengono allegramente spostati in altri Stati. Il governo messicano, con la sua politica neoliberista, ha aperto le porte a migliaia di fabbriche a capitale straniero. Multinazionali americane, europee, canadesi, giapponesi hanno impiantato filiali di produzione in questa zona franca, forti della mancanza di tassazione, della mano d’opera a prezzi stracciati e della totale assenza di vincoli ambientali. Ora 18 parchi industriali, più di 400 fabbriche di .
componentistica per computer e automobili, hanno reso la valle di Juarez, dove un tempo si coltivava il miglior cotone del mondo, una terra arida che non produce più nulla. Denuncia Felix Perez, rappresentante dell’unica associazione ambientalista della zona, l’Alianza Internacional Ecologista del Bravo: "È inquinata l’aria, così acre da essere irrespirabile. È inquinato il terreno, contaminato da metalli pesanti e rifiuti tossici. È inquinata l’acqua, avvelenata dagli scarichi industriali". Le timide normative ambientali introdotte dal governo si superano facilmente. Le multinazionali avrebbero l’obbligo di riportare a casa, insieme al prodotto finito, rifiuti e residui di lavorazione. In realtà, basta falsificare un foglio da presentare alla dogana per insabbiare tutto nel deserto.
Ma, infine, veniamo al da farsi. Un paio di esempi di buona volontà per imboccare la giusta direzione. Cioè per prendere coscienza che l’inquinamento è una grana globale, e coalizzarsi contro chi gioca a scaricabarile nei giardini altrui. Il primo esempio è una sorta di “coalizione antinuvolone”. L’Asean Agreement on Transboundary Haze Pollution, entrato in vigore il 25 novembre 2003, è il primo accordo tra Paesi confinanti per combattere un problema di inquinamento comune. Tanto che l’Unep lo ha eletto a modello. La coalizione antifoschia, di cui fanno parte, tra gli altri, Singapore, Malesia, Brunei e Vietnam, prevede una serie di misure per prevenire e combattere gli incendi: monitoraggio con i satelliti che ne segnalano la comparsa, sanzioni a chi appicca le fiamme, addestramento dei vigili del fuoco, ricerca scientifica per tenere sotto controllo il “nuvolone asiatico” (www.haze-online.or.id).
Il secondo esempio è la Convenzione di Stoccolma, entrata in vigore lo scorso 17 maggio e messa a punto nel 2001 con la firma di oltre 90 nazioni. Si aspettava la cinquantesima ratifica perché diventasse operativa. È stata quella della Francia, il 17 febbraio 2004. E ora, anche se l’Italia ancora cincischia nonostante le insistenze delle associazioni ambientaliste, la Convenzione è diventata legge internazionale. Tema principe è la messa al bando dei Pop. La sigla suona innocua, ma designa sostanze chimiche che farebbero impallidire un terrorista: i Persistent organic pollutants sono prodotti chimici quasi impossibili da eliminare, entrati ormai da tempo nella nostra catena alimentare. Sono loro gli inquinanti “a lungo raggio” di cui ci ha parlato Mercalli. Possono arrivare dallo Sri Lanka o dal Canada, ma una volta immessi
nell’ambiente si “bioaccumulano” (vedi box): duri a morire, si ritrovano nel grasso, nel sangue e nel latte materno. Nel fegato tonni giapponesi, degli orsi polari, dei bananeros sudamericani. E nel nostro.
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