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Un anno fa la Basilicata si mobilitava per salvarsi dall'incubo delle scorie, ricordare per rilanciare

Discariche nucleari, la lezione di Scanzano

14 novembre 2004
Ciro Pisacane e Gianni Palumbo

Manifestazione contro il deposito Un anno fa la gente di Basilicata decise la via della mobilitazione non violenta e determinata di fronte ai soprusi annunciati da un decreto del governo Berlusconi. Il sito unico per lo stoccaggio delle scorie nucleari diventò, d'improvviso, l'incubo dei lucani. Ma non si trattava di una mostruosità onirica, come di quelle che svaniscono dopo un sudato e tumultuoso risveglio, bensì di un atto concreto, di una forzatura politico-tecnicista che calava dall'alto e che avrebbe dovuto essere eseguita, manu militari, dal generale Carlo Jean, il Commissario straordinario di Governo per le questioni nucleari, investito di pieni poteri, nonché Presidente della Sogin Spa, la Società di Gestione impianti nucleari.

A quell'incubo i lucani hanno risposto con un progetto straordinario e semplice: il desiderio di vita per il proprio territorio e per se stessi.

Con estrema rapidità il tam tam generale trasformò il territorio in un groviglio umano sceso in strada a costruire blocchi stradali, blocchi ferroviari, presìdi imponenti sul luogo prescelto per lo stoccaggio del materiale radioattivo (i pozzi di salgemma presso la località "Terzo Cavone"), lezioni all'aperto per sopperire alla chiusura delle scuole, cucine da campo, cuochi improvvisati, coperte e tende e falò per fronteggiare i rigori della notte. Dalle case, bianche e calde del tiepido autunno lucano, la gente si riversò in strada convinta, come mai prima era successo, del sacrosanto diritto di non abdicare alla possibilità di costruire il proprio futuro, di partecipare alla costruzione di un progetto diverso per i propri figli e la propria terra, di agire il diritto di "fare quadrato" attorno a un bene comune insostituibile e necessario.

Scanzano jonico è uno di quei luoghi, che dopo le lotte contadine degli anni '50 contro il latifondo, da borgo rurale si trasformò in struttura urbana dove i contadini, da schiavi-mezzadri, si trasformarono in piccoli proprietari dando vita ad un'agricoltura ricca e che ha rappresentato l'elemento principale e trainante del progresso e dello sviluppo economico della fertile pianura del metapontino dove, un tempo, Pitagora insegnò tra le Tavole Palatine di Metaponto. Ai tempi della Magna Grecia, quindi, un luogo di scambio di saperi e che, senza preavviso, questo primo governo del terzo millennio avrebbe voluto condannarlo a cimitero radioattivo.

Dopo giorni e giorni di resistenza a oltranza, le centomila persone della imponente manifestazione del 23 novembre segnarono l'inizio della fine di questo bizzarro e maldestro tentativo di indebita (ri) appropriazione di un territorio liberato dalle antiche lotte contadine.

A un anno da quello straordinario movimento che ha segnato anche le modalità di tante mobilitazioni che a quella sono seguite in Basilicata e nel resto del Paese, è necessario ricordare per riflettere.

Le numerose celebrazioni di questi giorni saranno poco utili se non si utilizzeranno per rilanciare la lotta. Già, perché occorre rilanciare piuttosto che celebrare. I pericoli non sono finiti, non solo per la questione dei rifiuti nucleari, questione ancora aperta e in attesa di nuovi e pericolosi sviluppi, ma anche sulle vicende energetiche più in generale. La privatizzazione del mercato dell'energia ha aperto un varco enorme alla speculazione, cosicché in Basilicata, come altrove, si tentano di costruire numerose mega-centrali (grazie al famoso Decreto "sbloccacentrali" divenuto norma di questo Governo), come quella che da 800 Mw che si vorrebbe ora costruire a Pisticci (in Basilicata il fabbisogno energetico e di circa 400 Mw), il paese dell'amaro lucano, in barba alle reali esigenze energetiche del Paese. Ecco quindi che in Basilicata, dopo Scanzano, e prima di Pisticci, si mobilitano i cittadini di Rapolla, contro la realizzazione di un elettrodotto fin troppo vicino alle case degli abitanti, poi gli operai di Melfi, che forse anche grazie a Scanzano trovano il coraggio e la forza di porre davanti ai soprusi padronali l'impeto della dignità attraverso la quale si è lottato, vincendo, contro le gabbie salariali e la doppia battuta.

Scanzano per alcuni un modello da seguire, per altri un forte esempio di rebeldia dal basso. Sicuramente anche una vicenda dai forti connotati identitari intorno alla quale si è ritrovata l'intera comunità regionale e un po' tutto il Sud, sempre più vittima di quelle atroci politiche neoliberiste esasperate e torbide. A Scanzano anche il ceto politico regionale, a ogni livello, ha dovuto unirsi al decisivo moto popolare dal basso di un movimento che è appartenuto, e appartiene, probabilmente senza saperlo, a quel grande movimento mondiale che da Seattle in poi ha considerato il "riprendersi la parola" l'imperativo della propria stessa esistenza.

"Dopo Scanzano nulla sarà come prima" si è detto e ripetuto in Basilicata e in tante piazze e strade d'Italia. E così che, a un anno dai fuochi di quella rivolta, chiediamo e desideriamo che possa esserci una prospettiva di avanzamento nella costruzione di una alternativa a questo indecente governo. Una alternativa che tenga realmente conto delle esigenze comuni espresse, in forme talvolta diverse, a Genova, a Firenze, a Scanzano, a Melfi dalla gente comune che costruisce, pur nelle difficoltà, percorsi per una esistenza migliore e un mondo diverso possibile. 

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