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Intervista al grande intellettuale Marcello Cini

Non capisci il mondo se non vai al supermercato»

16 novembre 2004
Rina Gagliardi

Marcello Cini è uno dei pochi grandi intellettuali italiani di formazione scientifica. Per molti anni docente di fisica teorica alla Sapienza di Roma (oggi ha il titolo di professore emerito), è stato uno dei fondatori dell'ambientalismo e ne è a tutt'oggi uno degli esponenti pensanti. Molti lustri fa, quando la gara spaziale tra Urss e Usa era in pieno corso (e ci divideva sul "tifo" per l'una o per l'altra), si permise, quasi da solo, di mettere radicalmente in dubbio l'utilità di destinare tante risorse ai viaggi sulla Luna: una delle massime eresie ideologiche proposte dall'allora rivista eretica Il Manifesto. Negli anni '70, insieme a due suoi allievi, Cini scrisse un libro, "L'ape e l'architetto" che affrontava il tabu della scienza e sosteneva che no, essa non era e non poteva essere considerata "neutrale": era, del resto, la fase ascendente delle lotte sociali, del sindacato dei consigli, delle 150 ore che tentarono di rompere la separatezza tra scuola e operai. Vennero poi le battaglie contro il nucleare, vinte, quantomeno nell'essenziale. E vennero gli anni '80, nei quali Cini ha offerto alla cultura - ma anche alla sinistra italiana - la straordinaria riflessione epistemologica del "Il Paradiso perduto" e dei "Dialoghi di un cattivo maestro". Un percorso lungo e ricco, quello di questo particolare "militante della conoscenza", sempre rigoroso e sempre controcorrente, mai presenzialista, che continua a lavorare per la sinistra e per il movimento. Lo incontriamo a casa sua, nel cuore del quartiere Monti, per parlare di scuola e conoscenza, alla vigilia di uno sciopero importante come quello di domani: non è certo un caso che Cini stia oggi lavorando ad un libro che dovrebbe intitolarsi "Il supermercato della conoscenza". Cominciamo proprio da qui: dal fatto che le politiche attuali dell'istruzione e della formazione stanno distruggendo non solo la scuola pubblica, ma il patrimonio della conoscenza.

Il mondo della scuola, dalle elementari all'Università, non ne può di Letizia Moratti. Non si tratta certo solo di una questione sindacale e sociale, che pure hanno un peso rilevante: si tratta, mi pare, del destino del sistema dell'istruzione e, quindi, delle generazioni future. Le destre, forse non solo in Italia, stanno appunto, sferrando un attacco frontale alla scuola e alla ricerca pubblica. Perché?

La politica di Moratti è mossa da un'ideologia "semplice e chiara", tipica del capitalismo di questa fase storica: la privatizzazione di tutti i beni e di tutti i servizi. Una scelta globale, non solo italiana, che oggi viene applicata anche e soprattutto alla "nuova frontiera" dello sviluppo, che è data dalla produzione, come ormai si usa dire, "immateriale": per esempio la produzione di servizi essenziali come scuola e salute. Tutto deve assumere la forma di merce, tutto è pensato in funzione del mercato: non capisci il mondo se non vai al supermercato. Naturalmente, quella italiana è solo una variante "arretrata".

Quali sono le conseguenze prevedibili di questa impostazione, anzi di questa politica?

Sono conseguenze molto gravi. Restiamo alla scuola. Intanto, si mette in moto un meccanismo di mostruosa disuguaglianza: il sapere diventa appannaggio soltanto di chi può permettersi di "comperarlo": di chi ha i soldi, insomma, per accedere ai livelli più alti e qualificati del sapere, un po' come avveniva un secolo fa. Secondo: si cancellano alcuni diritti fondamentali, che sono stati il risultato della lunga strada verso la modernità - e l'eguaglianza sostanziale dei cittadini - avviata dalla Rivoluzione francese.

L'ideologia e la pratica privatistiche, insomma, producono una gigantesca regressione sociale e, perfino di civiltà.

Sì, ma producono anche - ecco un'altra grave conseguenza - una regressione della stessa ricerca e della produzione di nuova conoscenza con drammatiche ricadute concrete nel rapporto con l'ambiente. I privati non sono in grado né di porsi né di affrontare i problemi di lungo periodo: operano, o ragionano, come cicale e seguono il motto keynesiano ("Nel lungo periodo siamo tutti morti"). Il risultato di questo degrado è la progressiva distruzione dell'ambiente, dalla crisi dell'ecosistema all'utilizzo sfrenato di energie non rinnovabili, dalla crescita della C02 nell'atmosfera al collasso del clima. Fino alle guerre, le guerre del petrolio.

Non c'è, in tutto questo, una cecità del capitalismo perfino rispetto a se stesso?

Beh, per i paesi più sviluppati, come gli Usa e parte dell'Europa, questa è una scelta che corrisponde all'esistenza effettiva di mercati in permanente e tumultuoso movimento, e che si colloca sui beni immateriali perché lì è la frontiera dell'innovazione. La Cina di oggi è già lanciata su questo modello, e tra vent'anni lo applicherà su larga scala. In Italia, scontiamo naturalmente la particolare miopia degli imprenditori (che fino a pochi mesi fa, del resto, erano guidati da un produttore di scatole di cartone). Moratti, poi, porta avanti una politica ritagliata sugli interessi di un gruppo di suoi amici - più o meno quel che fa Lunardi. Alla fine succede che gli scienziati italiani firmano appelli assurdi come quello per gli Ogm: perché l'unica fonte di finanziamento possibile delle loro ricerche è la Monsanto, sono le multinazionali.

A questo quadro catastrofico, che cosa si può opporre? Non ti chiedo, naturalmente, una proposta dettagliata di riforma della scuola e del sistema dell'istruzione. Ma, se riusciremo a battere Berlusconi e a cancellare, tra le altre, le leggi Moratti, saremo chiamati a definire un'idea alternativa di scuola. Su quali assi generali?

Torniamo al tema della conoscenza: che è una merce immateriale, dove il profitto è sganciato dal "tempo di lavoro" e può crescere illimitatamente al crescere del consumo. Solo che, a differenza dei beni materiali, la fruizione da parte di un "consumatore" non ne impedisce la fruizione da parte di altri: le merci immateriali, al contrario, non si "consumano". In un disco non è la plastica che conta, è la canzone che c'è incisa. Ma la canzone non si consuma se io l'ascolto: la possono ascoltare altre milioni di persone. Il trucco del capitale sta nel far credere che la merce venduta è indissociabile dal suo supporto materiale. Dunque, la riduzione di questi beni immateriali a merce, destinata ad essere acquistata e fruita individualmente in esclusiva, è una reificazione violenta e abusiva: è come se Gesù avesse venduto i pani e i pesci agli ascoltatori del Discorso sulla montagna dopo averli moltiplicati. Non solo. Così viene favorita solo l'innovazione che promette di dare maggiori profitti a scapito di quella che potrebbe risolvere i problemi sociali più urgenti, non ha mercato immediato. Tutta la problematica che deriva dalla brevettazione della materia vivente - dal singolo gene all'organismo più complesso - e della mente umana - dal singolo bit all'opera più monumentale - ha la sua radice in questo meccanismo perverso.

Ecco, il primo asse portante potrebbe essere l'educazione ai limiti della logica di mercato, che un miliardario come Soros del resto ha ben denunciato, ovvero a questa necessità di riappropriazione collettiva del bene-conoscenza.

E poi?

Un secondo asse è l'idea di eguaglianza, nel senso di eguali diritti ed eguali opportunità per tutti che, oggi, per essere realmente garantiti, devono passare anche per la diffusione - e il controllo critico di massa - dei saperi prodotti dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Non è soltanto una ripresa della antica parola d'ordine dell'egalitè. L'eguaglianza, per essere tale, deve oggi accompagnarsi all'educazione alla diversità: diversità delle persone, delle specie, della vita. Naturalmente, la diversità così intesa non può esser confusa con la diseguaglianza, che produce soltanto miseria. Il terzo asse è quello dello sviluppo ecocompatibile, della salvezza dell'ambiente.

Proprio a proposito di eguaglianza, mi viene in mente che oggi una parte importante dell'intellettualità di destra porta avanti una critica spietata non solo di questo tipo di valori, ma più in generale del paradigma della razionalità illuministica - quello su cui sono cresciute generazioni intere della sinistra. A riprova, è vero che Bush ha vinto sui valori tradizionali, su un'ideologia in fondo precapitalistica, prima che sulle bellezze della globalizzazione e del neoliberismo. Ecco, la vedi o no questa crisi, o questa insufficienza, nella nostra cultura? E come eventualmente superarle?

Sono d'accordo sull'insufficienza - o forse sull'invecchiamento - dei parametri classici della ragione. I lumi non bastano - né per vincere né, forse, per capire fino in fondo. Penso a Gregory Bateson, un pensatore che torna oggi di grande attualità anche a proposito di quel "bisogno di sacro" - che per lui è tutto e solo immanente e si identifica alla fine con l'inconscio - su cui ha tanto a lungo insistito. Batesonianamente parlando, il simbolo e la sostanza, che sono così diversi da un punto di vista logico e razionale, per il nostro inconscio sono la stessa cosa: e qui risiede tutto ciò che è emotività, passione, bellezza, dolore, e che motiva parte così grande delle scelte umane.

Che cosa potrebbe voler dire assumere nel nostro discorso uno schema come quello di Bateson?

Che non si può vincere soltanto sulla base della nostra capacità di persuasione razionale.
Che, alla fin fine, l'ideologia del mercato, che dobbiamo assolutamente sconfiggere, è "razionalissima": che cosa c'è di più razionale dei numeri dell'economia e dell'"eguaglianza" di tutti i consumatori di fronte alla merce? Che dobbiamo ancora costruire una "traduzione" delle idee della sinistra (quelle che ho letto recentemente di Bertinotti mi sono parse molto condivisibili, al contrario della scelta che ho considerato sciagurata, nel '98, di abbattere il governo Prodi) che non suoni né astratta né utopistica, ma sia capace di parlare anche alle budella, oltre che alla testa.

Un esempio?

Un esempio. La nostra specie, la specie umana, è a rischio di sopravvivenza: nel senso che la prevalenza dell'homo sapiens su tutte le altre specie sta diventando tale da far paventare - come si dice - una nuova crisi globale dell'ecosistema, la possibile "VI estinzione". Ora, questo pericolo di vero e proprio annientamento ci pone o no il tema della responsabilità che abbiamo rispetto alle generazioni future? Ci pone o no la questione dell'identità di specie? Ecco un altro asse di ricerca che potrebbe svilupparsi in un sistema dell'istruzione, in una scuola non soggetta al mercato. Esiste una minaccia per il mondo: ma non sono i terroristi islamici, non è bin Laden. Siamo noi.

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