Chi salverà l'Iraq inquinato
19.11.04
Gli scienziati iracheni hanno cominciato ad analizzare gli enormi danni ambientali provocati nel loro paese dalla nuova guerra e da anni di sanzioni. L'Iraq è un paese contaminato dall'uranio impoverito oltre che disseminato di ordigni e macchine militari fuori uso contenenti, fra l'altro, amianto. L'acqua è avvelenata dai sistemi fognari malfunzionanti, dal petrolio che fuoriesce dagli oleodotti, dai residui industriali e di raffineria scaricati nei fiumi senza controllo. La miniera di zolfo di al Mishraq, vicino a Mosul, ha provocato un grave inquinamento termico e chimico sia nelle acque superficiali che in quelle di falda, con pesanti ripercussioni sulle attività agricole. Nelle città l'aria è irrespirabile: certo nessuno pensa a controllare i vecchi motori. Perfino i saccheggi dell'anno scorso potrebbero aver fatto danni ambientali e sanitari duraturi: dal centro di stoccaggio delle sementi di al Suwaira sono sparite 50 tonnellate di semi intrisi di un fungicida particolarmente tossico, che li rende del tutto inadatti al consumo umano diretto; chissà se sono già finiti nel pane.
Comunque, nel mese di ottobre è iniziato uno studio pilota per analizzare oltre 300 siti considerati contaminati. Collabora l'Unità di valutazione post-conflitti dell'Unep (programma Onu per l'ambiente), mentre il responsabile dello studio è il ministero dell'ambiente che ha a disposizione circa 5 milioni di dollari donati da diversi paesi. Il direttore esecutivo dell'Unep Klaus Toepfer ha annunciato l'obiettivo a lungo termine di «creare in Iraq un team del tutto indipendente di esperti valutatori ambientali». Gli esperti lamentano però la difficoltà di lavorare senza testi aggiornati, con scarsi strumenti e in una situazione logistica immaginabile.
L'Unep attira l'attenzione sul fatto che non ci sono per ora - sarà un caso? - fondi per l'analisi dei siti contaminati con uranio impoverito usato dal 1991 a oggi; secondo le statistiche epidemiologiche compilate da medici e ricercatori iracheni durante gli anni dell'embargo, la sostanza polverizzata ha provocato un aumento dei casi di cancro e delle malformazioni genetiche.
Ha trovato fondi in Giappone l'importante progetto di recupero delle paludi della Mesopotamia, un tempo il più esteso ecosistema umido del Medio Oriente e dell'Asia occidentale, poi quasi del tutto prosciugate da opere di drenaggio. Sono state in parte reinondate di recente; la sfida ora è non solo tutelare l'ambiente ma anche fornire mezzi di sussistenza e servizi idrico-sanitari (con energie rinnovabili) agli 85mila «arabi delle paludi» che tuttora le popolano. Quanto all'acqua e ai sistemi sanitari che dovrebbero servire gli altri 22 milioni di iracheni, secondo un secco documento presentato qualche mese fa da docenti dell'al Hadba'a University College di Mosul a una riunione dell'Associazione internazionale per le scienze idrauliche, sia il Tigri che l'Eufrate - quest'ultimo a causa anche delle scarse portate rilasciate dalla Turchia - hanno una qualità ben al di sotto degli standard minimi per uso potabile.
Dall'aprile 2003, del resto, il paese manca di una qualunque politica di gestione delle risorse idriche, hanno denunciato gli idrologi.
Dalla caduta del regime di Saddam per la riabilitazione dei sistemi idraulici e sanitari sono stati spesi 600 milioni di dollari, ha dichiarato il ministro dei lavori pubblici; sono state costruite grandi cisterne anche in aree remote e agricole. Occorreranno altri 500 milioni di dollari per completare il lavoro, nell'agosto 2005. Questo secondo le autorità collaborazioniste. Ma il loro ottimismo appare davvero eccessivo, sui tempi e sulle cifre. Sia perché il lavoro di riparazione, come una tela di Penelope, è distrutto quasi ogni giorno da nuovi bombardamenti; sia perché la sete di profitto degli attori internazionali nella ricostruzione fa lievitare i costi.
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