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L'Occidente tra l'utopia del progresso e quella dell'ecologismo

Si assiste in tutto l’Occidente ad una riscoperta del valore e del ruolo della natura in relazione anche ad una crescente sfiducia nei confronti del progresso
1 dicembre 2004
Davide Gianetti

La terra

La questione ecologica si impone sempre più prepotentemente all’interno del dibattito culturale in corso in Occidente. A prescindere dalle diverse posizioni ideologiche assunte di fronte a questo problema, si osserva una tendenza di fondo piuttosto marcata: da argomento di “nicchia”, marginale e trascurato, l’ecologismo sta entrando a far parte dell’immaginario collettivo non solo a causa dei sempre più frequenti scompensi ambientali, ma anche e soprattutto grazie ai moderni sistemi di comunicazioni di massa che impongono l’emergenza ambientale all’attenzione delle masse.

Ne è un esempio il film “The day after tomorrow”, dove si narra di un futuro prossimo venturo in cui la ribellione del mondo naturale agli interventi scellerati dell’uomo porterà come conseguenza un cataclisma ambientale di proporzioni gigantesche, tale da distruggere mezzo pianeta. Il messaggio ambientalista, evidente e programmatico, esemplificato dal film, costituisce una novità significativa rispetto alle produzioni cinematografiche precedenti dal momento che negli Stati uniti - ad eccezione di alcuni marginali settori - la salvaguardia della natura non occupa certo i primi posti fra le preoccupazioni maggiormente avvertite dal cittadino medio.

Più in generale, si assiste in tutto l’Occidente ad una riscoperta del valore e del ruolo della natura in relazione anche ad una crescente sfiducia nei confronti del progresso e degli effetti che questo fenomeno culturale ha prodotto durante il secolo appena trascorso. In campo sociologico, letterario, filosofico, artistico, perfino scientifico, è tutto un fiorire di studi, saggi, libri, finalizzati ad una messa in discussione-radicale o parziale del paradigma “progressista” e dei suoi risultati nel campo dell’evoluzione umana.

Per la prima volta da molto tempo si assiste ad una critica serrata e implacabile del dogma relativo allo “sviluppo” e - a differenza di quanto avveniva precedentemente - gli attacchi più precisi e mirati arrivano non da pensatori reazionari, romantici o irrazionalisti, come sono considerati Nietzsche, de Maistre, Spengler etc., ma da filosofi, antropologi e saggisti che - lungi dall’invocare improbabili ritorni a mitiche e incontaminate età dell’oro - sollecitano un ripensamento complessivo dell’attuale modello di sviluppo, giudicato alienante, distruttivo e totalitario.

In particolare questi pensatori si prefiggono di ricomporre la frattura -inaugurata ai tempi di Bacone e Cartesio- fra natura e cultura, con l’intento dichiarato di riscoprire il lato ecologico e naturale dell’umanità che è andato perduto a causa di una sottomissione brutale e ingiustificata del mondo naturale a esclusivo beneficio di quello razionale, prettamente umano.

All’interno di questa corrente di pensiero troviamo così posizioni radicali come il movimento “primitivista” di John Zerzan, teorico di una totale demolizione della civiltà attuale a favore di un sistema di vita simile a quello paleolitico, oppure posizioni meno oltranziste e più realistiche, come quelle portate avanti da antropologi del calibro di Serge Latouche, dai comunitaristi francesi del “Mauss” (movimento anti-utilitario) di Alain Caillè o dai bioregionalisti di Kirkpatrick Sale, oppure ancora posizioni che procedono ad una opportuna demistificazione del carattere religioso (una religione secolarizzata) del progresso, negandone il carattere e la pretesa universale per circoscriverlo a fenomeno tipicamente occidentale, come è nel caso per esempio di Pierre Andre Taguieff.

La crisi della civiltà occidentale è dunque crisi di identità, laddove il modello vincente scaturito dalla razionalità cartesiana prima, da quella illuministica poi e da quella tecnoscientifica oggi, si appresta a gettare le basi per il crollo della stessa civiltà occidentale e forse dell’intero pianeta. In questo senso l’emergenza ambientale è direttamente collegata alla convinzione che il progresso sia virtualmente infinito, senza limiti di tempo e spazio, universale - quindi esportabile ad altre culture, anche con la forza - e portatore di civilizzazione e acculturazione.

Quest’ultimo punto è stato tuttavia smentito proprio dal filosofo francese Taguieff, il quale ha dimostrato come una determinata concezione del progresso, utopica e illuministica, abbia gettato il seme per gli orrori del ‘900 con il nazismo, il comunismo, il darwinismo sociale e l’eugenetica. Che fare dunque? Abolire il progresso, tornare ad epoche precedenti (ma quali poi? Prima dell’illuminismo, prima della rivoluzione industriale o addirittura prima del neolitico?), oppure governare questo fenomeno e riempirlo semmai di nuovi contenuti, magari presi dalla tradizione umanistica, al fine di giungere ad una società meno alienata, reificata e nevrotica di quella odierna?

Un fatto è certo: l’intrinseca e connaturata tendenza prometeica attraverso la trasfigurazione e il superamento della natura è una caratteristica ineliminabile del carattere occidentale. Come conciliare dunque questa tendenza con un futuro modello di sviluppo basato non più sull’addomesticamento brutale ed efficientistico del mondo ecologico ma sulla sua valorizzazione in quanto compartecipe basilare del benessere e dell’equilibrio umano? Siamo ancora in grado di rimettere il genio nella lampada o, se non altro, di comandarlo anziché ubbidirgli passivamente come è accaduto da quattro secoli a questa parte?

E’ dando una risposta a queste domande che noi saremo probabilmente in grado di attutire e forse anche sovvertire gli errori e le deviazioni del progresso. Ma questa risposta non si trova fuori dall’Occidente, non fa parte di tradizioni diverse dalla nostra, è semmai interna alla stessa civiltà occidentale. “Noi siamo la prima società - osservava infatti Cornelius Castoriadis - in cui la questione di un’autolimitazione del progresso delle tecniche e delle conoscenze venga posta non per motivi religiosi o altri, ma per questioni di phrònesis, in senso aristotelico, per ragioni di prudenza nel significato profondo del termine”.

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