Bhopal, la globalità del male
2.12.04
Un alito velenoso intrappolò in poco tempo un'area di venti chilometri quadrati prima che la gente potesse accorgersi di quanto stava succedendo e cercare di fuggire. Quelli presi nel primo abbraccio tossico morirono per lo più nel sonno, molti ancora sotto le coperte. Fotografie color seppia mostrano bambini uccisi, ciascuno con un foglio di cartone sul petto a catalogare con un nome e pochi numeri una vita svanita: le bocche spalancate, un doloroso stupore in volto. I dati sui morti e sui fatti di quella notte sono discordanti, sembra che il gas opalescente si sia posato sull'intera vicenda come un potere maligno volto a corrodere la verità. Le cifre comunque variano da 8 a 10 mila vittime, quest'ultima forse più realistica.
Racconta il giornalista e scrittore indiano Indra Sinha, uno degli animatori della «Campaign for Justice in Bhopal»: «Quando scattò l'allarme, tutti cominciarono a scappare portandosi dietro vecchi, bambini nelle culle, ammalati, vacche e cani. Si riversarono in strada, gli stretti budelli della città vecchia subito si intasarono. Ci furono scene di panico, gente calpestata, bambini smarriti. Intorno ai lampioni non ronzava alcun insetto, una cosa irreale». Per quelli nei fatidici venti chilometri quadrati fu una morte orribile. Continua Sinha: «La gente moriva mentre gli escrementi colavano loro dalle gambe, il gas lacerava le pupille, ulcerava i polmoni. Per terra corpi aggrovigliati si contorcevano presi da convulsioni». Il giorno dopo cominciava ufficialmente il calvario di Bhopal con i sopravvissuti negli ospedali che sputavano i polmoni, relitti ciechi che esprimevano soltanto dolore.
Sono passati vent'anni da allora e secondo le stime di Greenpeace per le conseguenze del disastro continua a morire una media di venti persone al giorno. Qualche settimana fa Paul Vickers della Bbc è andato a Bhopal con una provetta per fare analizzare l'acqua dei pozzi: «Presenta livelli di contaminazione 500 volte maggiori del limite massimo raccomandato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità», ha detto. Fa sorridere che sul sito web della Bbc il paragrafo dove si illustrano i dati dell'analisi abbia un titolo comicamente prudente: «Risultati controversi». Infatti nel 1998, l'anno in cui cedette lo stabilimento, la Union Carbide sostenne «di non aver trovato tracce di contaminazione nelle falde acquifere», anche se un altro studio commissionato dalla multinazionale americana espresse qualche dubbio.
Bhopal è una saga della tenacia del male, ma il bene? I «nostri» non arrivano mai? Bhopal è anche una saga dell'amarezza e del disincanto. Oggi, così com'era, la Union Carbide non esiste più, è stata assorbita dalla Dow Chemical Co (Ricordate il suo «Agent Orange», uno dei più famigerati defolianti usati in Vietnam?) che rifiuta ogni coinvolgimento nella vicenda. Nel 1989 La Union Carbide fece un accordo extragiudiziario con l'Alta corte indiana e versò un'una tantum di 470 milioni di dollari da destinare alla vittime. Finora, vent'anni dopo, i circa 500 mila che hanno dimostrato di aver diritto al risarcimento hanno ricevuto circa 345 dollari, sebbene recentemente un tribunale indiano abbia intimato di distribuire 345 milioni di dollari dell'accordo che ancora giacciono nelle casse dello Stato a maturare interessi. La Union Carbide si è sempre difesa dicendo di avere aiutato le vittime e di aver anche costruito nel 1996 un ospedale da 90 milioni di dollari a Bhopal. Dice Satinath Sarangi, uno dei leader della protesta: «l'ospedale è un centro a pagamento dove i poveri non potranno mai entrare. Oltrettutto la specialità principale è la cardiologia». Una delle prime e principali richieste del movimento che si è creato nella città martoriata del Madhya Pradesh è che l'allora direttore generale della Union Carbide, l'americano Warren Anderson, finisca davanti a un tribunale insieme ad altri dirigenti, tra cui alcuni indiani. Ha scritto Sundana Deshpande, attrice teatrale e regista indiana: «A Bhopal ci sono state molte, molte più vittime che nell'11 settembre. Per quel crimine, sul suolo degli Stati Uniti, migliaia di innocenti hanno dovuto pagare nel lontano Afghanistan. I colpevoli di Bhopal sono invece tutti liberi sul suolo degli Stati Uniti. I sopravvissuti di Bhopal non dimenticano questa ingiustizia. Per questo nelle manifestazioni che commemorano il disastro ci sono cartelli che dicono: volete Osama, dateci Anderson». Lo scorso anno New Delhi chiese l'estradizione di Anderson, ora ottantenne e in pensione, per processarlo a Bhopal con l'accusa di omicidio. Come in un brutto giallo dove fin dall'inizio si capisce come andrà a finire, le autorità americane hanno alla fine respinto la richiesta (legittima perché tra i due paesi esiste un trattato di estradizione) per «motivi tecnici».
Al di là delle vite distrutte o spezzate (diceva il santo tabaccaio di Bombay che con noi muore il mondo intero), la strage di Bhopal rappresenta la cattiva coscienza della globalizzazione. Nel trasferimento di tecnologia da Occidente al Terzo Mondo, il tarlo del profitto a tutti i costi divorò la qualità dei macchinari, la solidità dei progetti. Lo stabilimento di Bhopal non avrebbe mai potuto eistere in Occidente. L'abbassamento dei parametri di sicurezza era finalizzato al taglio dei costi: era uno dei motivi principali, oltre al mercato emergente, per fare uno stabilimento laggiù. Già alla fine dell'800 si disse che in India le ferrovie fatte costruire dagli inglesi avrebbero evitato le carestie ma poi, in piena carestia, si scoprì che i treni servivano a portare il grano destinato all’Inghilterra, come ha raccontato Mike Davis. E la giustizia? Vent'anni dopo per Bhopal nessuno ha ancora pagato di persona ed è facile prevedere che nessuno pagherà mai.
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