Spazzatura spaziale
sganciate dai razzi. Ma più preoccupanti sono i rottami accumulati in
orbita, a milioni, da 50 anni di imprese nello spazio. E da quel cosmodromo in Kazakistan è partito un satellite italiano per studiarli
dicembre 2004
Per l’uso del cosmodromo di Baikonur, in terra kazaka, la Russia ha firmato nel ’92 un contratto valido fino al 2050, secondo l’accordo riconfermato proprio quest’anno. Spiega l’analista Vladimir Baltaga: «Date le caratteristiche tecniche dei lanciatori oggi in uso, questo sito garantisce un rapporto ottimale fra il carico utile e il peso complessivo del
dispositivo di lancio che proietta in orbita satelliti leggeri per le
telecomunicazioni, le rilevazioni meteorologiche e altri impieghi. Poiché
l’85% dei lanci è diretto verso le orbite geostazionarie proprie dei
satelliti per telecomunicazioni, l’uso di altri siti a altre latitudini
comporterebbe una perdita di carico utile e l’aumento delle dimensioni dei razzi e dei loro costi energetici». Magnifico. Però c’è qualche
inconveniente. Basta dare una occhiata nelle campagne circostanti il
poligono per accorgersene. Carcasse più o meno arrugginite nei prati,
laminati metallici a alta tecnologia stranamente usati per completare
baracche contadine, o rivenduti per ricavarne utensili. Sono i resti solidi
e corposi del sogno spaziale, e costellano il paesaggio. Il fatto è che la
tecnologia russa prevede il distacco dei serbatoi di carburante e dei
vettori prima del raggiungimento dell’orbita e la loro conseguente ricaduta
al suolo. E siccome la zona di Baikonur è piuttosto popolata, da questi
parti scrutare il cielo non ha solo il senso di una precauzione
meteorologica.
Il problema della spazzatura celeste che ricade al suolo non si limita però
soltanto ai vecchi serbatoi delle navicelle russe, né riguarda l’area
intorno al cosmodromo di Baikonur e basta. È un fenomeno mondiale e per studiare come fronteggiarlo il 29 giugno ha preso il volo da questa base il piccolo satellite Unisat-3, costruito dagli studiosi dell’Università di Roma La Sapienza e costato 155 mila dollari, un terzo dei quali spesi nel lancio. Unisat-3, spiega il professor Filippo Graziani, «fa collaudi tecnologici in orbita e conduce diverse ricerche». Tra i suoi compiti specifici, però, c’è soprattutto quello di esplorare il campo magnetico della Terra, rilevare la presenza di detriti cosmici, misurare la “spazzatura spaziale” intorno a Gaia su un’orbita eliosincrona a 730 chilometri d’altezza. «Attualmente», spiega l’analista Tina Tannenwald, «la sfera celeste è insufficientemente protetta, dal punto di vista ecologico».
Da quando, nel ’57, l’Unione Sovietica mise in orbita il primo Sputnik, la
presenza nel cosmo di rottami d’ogni genere è cresciuta a livello
esponenziale e la Convenzione per la registrazione degli oggetti lanciati
nello spazio extraterrestre, varata dalle Nazioni Unite nel 1975, è rimasta
lettera morta. Oggi si possono contare circa 4 mila satelliti in orbita
intorno al nostro pianeta, di cui solo il 6% è ancora attivo, mentre nelle
regioni più remote del sistema solare continuano a vagare oltre 200 sonde interplanetarie. In più, una sessantina di satelliti russi alimentati a
energia nucleare, ormai disattivati e alla deriva, perdono liquido
refrigerante. Ancora: nell’atmosfera terrestre sono state scoperte
recentemente da un gruppo di ricercatori della Nasa circa 80 mila sferette
di sodio radioattivo, grandi un centimetro, e oltre 3 milioni di goccioline,
superiori al millimetro, che ci stanno lentamente piovendo addosso. Non è tutto: sopra le nostre teste ci sono anche i Cosmos, i satelliti dell’ex
Urss alimentati con generatori termoelettrici a radioisotopi di plutonio
(Rtg), i quali hanno già provocato almeno due situazioni di emergenza
ufficialmente riconosciute, nel ’78 (nordovest del Canada) e nell’83 (oceano Atlantico).
La procedura standard usata oggi dai militari russi per evitare che i
satelliti Rosat alla fine della vita operativa ricadano sulla Terra col
loro carico radioattivo, è instradare la parte del veicolo spaziale
contenente il reattore su un’orbita più alta, a 700-1000 km di quota. Ciò
rinvia di qualche secolo il problema del rientro sulla Terra, ma introduce
un pericolo d’altro tipo: proprio tra i 700 e i 1000 km di quota è massima
la concentrazione di frammenti orbitanti e altri piccoli corpi di origine
artificiale, generati a migliaia nel corso di decenni di attività
astronautica. “Intorno alla Terra c’è una nube di detriti che mette a
rischio lo svolgimento delle missioni spaziali. Sono serbatoi, pannelli
lanciatori e soprattutto resti di satelliti esplosi, anche di dimensioni
molto piccole, che ruotano ad altissima velocità”, segnala il Cnr.
Secondo i calcoli del Norad, il comando di difesa aerospaziale del
Nordamerica, oggi sulle nostre teste ruotano almeno 9 mila oggetti più
grandi di una palla da tennis, di dimensioni sufficienti per essere
individuati e sorvegliati, ma in gran parte completamente senza controllo.
I resti grandi almeno un centimetro sono più di 100 mila e addirittura milioni quelli ancora più piccoli. Ciascuno di loro, viaggiando a una media di 7,5 km al secondo, rappresenta un rischio imprevedibile per tutto ciò che incontra sulla sua traiettoria. “La massa totale degli oggetti in orbita”,
specifica il Cnr, “si aggira sulle quattromila tonnellate, e occupa un’area
complessiva di circa quarantamila metri quadrati”.
Nel 2003 i rifiuti più voluminosi, secondo la Nasa, erano circa 90 mila, fra
veicoli non più operativi, stadi propulsivi esauriti, detriti generati dalle
normali procedure di volo, e soprattutto schegge. Con l’aumentare delle
attività spaziali, soprattutto nel settore dei satelliti per telecomunicazioni, anche il numero di questi scomodi abitanti dell’atmosfera è in aumento continuo. Tutti questi rifiuti fluttuano in due orbite terrestri: quella bassa (detta Leo, acronimo dell’inglese Low Earth Orbit), fra 200 e 2000 chilometri dal suolo, e la regione Geosincrona (Geo), a 36 mila chilometri, dove gli oggetti girano alla stessa velocità della Terra e restano pertanto in posizione geostazionaria.
A questo punto la strategia più praticabile per rimediare ai disastri che
tutta questa massa di materiali può provocare consisterebbe, quanto meno, nel prevenire la produzione di altri rottami attraverso un nuovo modo di progettare ciò che si lancia nello spazio. «Per esempio», suggerisce l’astronauta Umberto Guidoni, «dotando i satelliti di un sistema propulsivo in più che permetta di spostarli in un’orbita meno affollata quando non sono più operativi, oppure progettando il rientro in modo che si distruggano nell’atmosfera».
Un vero e proprio protocollo in materia, vincolante a livello
internazionale, non è però mai stato siglato, perciò bisogna affidarsi alla
buona volontà degli Stati Uniti e della Russia, i principali protagonisti
dell’esplorazione spaziale, almeno fino allo sviluppo compiuto dei progetti cinesi. Ma il recente meeting per la definizione di una normativa
dell’Office for Outer Space Affaire, l’organizzazione delle Nazioni Unite
che coordina gli usi pacifici dello spazio, s’è risolto in un nulla di
fatto. E il vecchio continente? L’Agenzia Spaziale Europea si è limitata per
ora a sfornare solo qualche raccomandazione. Un po’ poco per affrontare il dilagare della deregulation ambientale, che non risparmia neppure il cielo sopra di noi.
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