Biodiversità, una merce come altre
12.11.04
Lasciate perdere ogni sentimentalismo (a proposito della natura): «la biodiversità è una merce che può essere comprata e venduta e la conservazione è un business». Così Henry Nicholls, giornalista inglese in un recente articolo («The conservation business», PLoS Biol 2(9): e310). Il tono provocatorio vuole evidentemente scuotere le certezze ambientaliste e umanitarie ed è stato fatto proprio dalla rivista italiana Darwin, che incita ad «abbandonare i vecchi paradigmi e tentare strade inesplorate». Sulla base di una bibliografia esigua e di parte, Nicholls sostiene per esempio che le riserve naturali del Madagascar avrebbero ridotto del 10 per cento il reddito annuo delle popolazioni locali e che i 60 mila chilometri quadrati riservati dal Kenya a parchi naturali renderebbero 270 milioni di dollari all'anno, se sfruttati adeguatamente - con agricoltura intensiva, si suppone. Sempre secondo questo autore, la strada migliore per proteggere la biodiversità sarebbe quella dei «pagamenti diretti», ovvero dare dei contributi alle popolazioni locali perché non rovinino l'ambiente.
Di tutte le soluzioni questa è probabilmente la peggiore possibile, anche se è stata praticata da alcune organizzazioni e suggerita da astratti modelli economici della World Bank. Uno dei principali sostenitori di questa forma di intervento lo segnala sinceramente: «si tratta di pagare qualcuno (una comunità locale, ndr) per non fare niente». Dunque un governo donatore del nord del mondo o un'organizzazione nonprofit (di solito anch'essa del nord del mondo) convogliano delle somme alle popolazioni locali, per esempio sotto forma di affitto o acquisto di terreni da cui gli indigeni si impegnano a stare lontani, non raccogliendo un frutto né cacciando un animale. Per rafforzare i divieti talora si ricorrerà a recinti e guardiani, e così la riserva rimarrà integra per gli studiosi e i turisti (del nord del mondo) e per il generico benessere dell'umanità.
Tutto il ragionamento viene svolto sul filo di una metrica economica di corto respiro: poiché gli incentivi indiretti (aiuti allo sviluppo sostenibile) sono molto costosi, il pagamento diretto (lo scambio di natura selvaggia in cambio di soldi da spendere) appare a questi studiosi più efficiente, anche se gli stessi proponenti notano che i versamenti dovrebbero essere eterni, per continuare a mantenere con soldi esteri i parchi e le oasi. Infine si ammette candidamente che questo modello può apparire come «una forma di corruzione o come una imposizione dei valori occidentali alle nazioni in via di sviluppo» (Ferraro e Kiss, Science, vol. 298, p. 1718).
Al riguardo non c'è dubbio: dei pezzi di territorio vengono sottratti alla cultura e alla gestione dei popoli che vi abitano da millenni, impedendo loro persino l'accesso e compensandoli con una mancia. Ma le mance e i sussidi non sono mai un buon sistema per aiutare un paese nello sviluppo, anzi di norma fanno cadere le motivazioni a essere artefici del proprio destino.
Ciò non toglie che il problema del possibile contrasto tra conservazione della natura e lotta alla povertà esista e che non sia emersa finora una ricetta vincente. Eppure è un tema cruciale di cui tutti sono consapevoli, a cominciare dalle Nazioni Unite e dalla stessa Banca Mondiale. Il punto di vista tradizionale del nord del mondo per lungo tempo è stato questo: «puntare sullo sviluppo economico e assumere che i problemi ambientali sarebbero stati risolti in seguito»; come a dire che l'ambiente pulito e la biodiversità sono un lusso che ci si può permettere di affrontare solo quando il problema della fame sia stato risolto. Ma si è capito abbastanza presto, almeno dagli anni `80 del secolo scorso, e poi nel 1992 con nettezza alla «Conferenza di Rio sull'ambiente e lo sviluppo», che occorreva un approccio integrato, se non altro perché i paesi più poveri in dollari sono anche i più ricchi in biodiversità: non hanno fatto in tempo a distruggerla, come abbiamo fatto invece noi europei, e in ogni caso sono quasi sempre in aree geografiche che per natura sono biodiverse, per esempio tropicali.
Più nettamente ancora il World Summit di Joannesburg, nel 2002, legava lo sviluppo sostenibile alla giustizia e alla lotta alla povertà.
Tutti d'accordo insomma, ma i risultati sono scarsi, anche se non mancano esperienze pilota importanti in quel filone chiamato «pro poor conservation», ovvero conservazione della natura a beneficio dei più poveri.
Il punto di vista più netto suona così: «le popolazioni locali marginalizzate dipendono per la loro stessa vita dal fatto di vivere in un ecosistema biodiverso e dunque la loro qualità di vita può essere migliorata attraverso opportune attività di conservazione, la quale dunque è uno strumento per combattere la povertà, attraverso un uso sostenibile delle risorse naturali». (Adam et al., «Biodiversity Conservation and the Eradication of Poverty», Science, vol. 306, pag. 1146). Detta in altre parole: la diversità biologica è un valore non solo morale, ma pratico e persino economico, e solo i «locali» sanno difenderla e valorizzarla. Questo saggio modello è completamente opposto a quello delineato da tanti studiosi occidentali: riserve selvagge per i turisti e coltivazioni Ogm per gli abitanti storici.
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