Bush detta legge sul clima
Un palese insuccesso. Così si potrebbe definire l'esito della decima conferenza sul cambiamento climatico che ha calato il sipario venerdì sera a Buenos Aires, dopo due settimane di dibattiti accesi, culminati in un compromesso dell'ultima ora tra Stati Uniti ed Unione Europea: un incontro da farsi nel maggio del prossimo anno in Germania e nel quale si discuterà delle future strategie internazionali concernenti i cambiamenti climatici. Per Bruxelles, un nulla di fatto. Per giorni aveva difeso la necessità di tenere una serie di incontri informali negli anni a venire per sollecitare l'impegno di tutti i Paesi a ridurre ulteriormente gli scarichi di gas nocivi. Invano. A contrastare la visione europea è intervenuta Washington, invitata alla conferenza sebbene abbia deciso di non ratificare il protocollo di Kyoto, che entrerà in vigore il 16 gennaio del 2005 e obbligherà i 130 firmanti, - responsabili del 61, 6% delle emissioni del pianeta - a ridurre il rilascio di gas serra del 5, 2% entro il 2012, anno in cui scadrà il trattato. La Conferenza si era aperta con entusiasmo proprio perché qualche settimana fa il presidente russo Vladimir Putin aveva deciso di ratificare il trattato, facendo così raggiungere il quorum necessario alla sua legittimità.
I delegati statunitensi hanno chiesto, e ottenuto, di non mettere nero su bianco alcun accordo che modelli la strategia post-Kyoto. La linea americana, dettata principalmente dalla lobby petrolifera, ha ottenuto l'appoggio entusiasta dei Paesi arabi produttori di greggio e quello di molti colossi emergenti, come Cina, India e Brasile. La preoccupazione comune era che le limitazioni alla produzione industriale potessero far barcollare o frenare la loro economia. Gli Stati Uniti hanno così evitato, ancora una volta, di assumersi le proprie responsabilità circa uno dei problemi più minacciosi per il futuro dell'ambiente. «Un sacco di gente ha paura di discutere del futuro», è stato il commento del ministro dell'Ambiente olandese e capodelegazione dell'Unione europea. I tentativi di coinvolgere i Paesi dall'economia più promettente è stato vano nel caso di India, Cina, Brasile e Arabia Saudita. Ma non, ad esempio, in quello del Sudafrica, che si è schierato a favore della posizione europea. Gli Stati insulari hanno nuovamente fatto suonare il campanello d'allarme sull'innalzamento del livello dei mari. Martin Puta Tofinga, ministro dell'Ambiente dell'arcipelago di Kiribati, nell'oceano Pacifico, non ha usato mezze parole: «Qui stiamo parlando di sopravvivenza», ha detto, «abbiamo bisogno di avanzare in modo significativo».
Il Wwf ritiene che la responsabilità del sostanziale fallimento del summit sul clima «ricade interamente sull'amministrazione Bush e sull'aggressiva tattica messa in atto per ostacolare ogni avanzamento dei negoziati». Anzi, la principale organizzazione ambientalista reputa che a Buenos Aires gli Stati Uniti siano «passati dalla non interferenza nei confronti di Paesi desiderosi di prendere iniziative per tagliare le emissioni inquinanti, all'ostruzionismo attivo». Una barriera che, prosegue il documento del Wwf, ha neutralizzato «ogni confronto sulla possibilità di azioni future e per impedire ai Paesi poveri maggiormente vulnerabili di ottenere il sostegno di cui hanno bisogno per affrontare e adattarsi all'impatto dei mutamenti climatici». In questo scenario, l'Unione europea ha subìto l'intransigenza statunitense e si è trovata, di fatto, isolata. Intanto il presidente argentino Nestor Kirchner ha accusato i Paesi ricchi di utliizzare due pesi e due misure: da un lato, ha detto, inchiodano i Paesi in via di sviluppo al loro debito estero, dall'altro non fanno nulla per limitare i danni dell'effetto serra. Ma le ire di Kirchner erano indirizzate specialmente a Bush, colpevole di aver ostacolato il summit di Buenos Aires da un lato, e dall'altro di appoggiare con decisione la politica dell' Fmi nei confronti della tramortita economia argentina.
Laura Eduati
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