Trattato di Kyoto, apre la «borsa dell’inquinamento»
4.01.05
Chi lo chiama «commercio dei fumi» e chi «borsa dell’aria calda». Definizioni colorite per indicare il mercato internazionale dei gas serra che si è aperto ieri: un nuovo soggetto partorito da quella Babele scientifica-ambientale-economica che è il Protocollo di Kyoto. All’origine di tutto c’è la consapevolezza che l’uomo è diventato una forza della natura in grado di cambiare il clima. Di qui la necessità di ridurre le emissioni di gas che concorrono al surriscaldamento globale. I gas sono almeno sei, ma poiché il maggiore è l’anidride carbonica (CO2), ci si riferisce prevalentemente a questa, che viene liberata in tutti i processi di combustione: dalle centrali elettriche ai motori delle automobili. Il Protocollo di Kyoto prevede che i Paesi aderenti debbano ridurre, in media, le loro emissioni di gas serra del 5,2% entro il 2012 (rispetto ai livelli del 1990). Se un Paese (e quindi le aziende di quel Paese) è tanto bravo da ridurre le proprie emissioni di gas serra più dell’obiettivo concordato, allora può vantare dei crediti, sotto forma di tonnellate di CO2. Al contrario, se un altro Paese non ce la fa a conseguire gli impegni di riduzione entro la scadenza del 2012, allora avrà un debito, che potrà cancellare acquistando quote di CO2 da chi possiede i crediti, oppure pagando multe salatissime. Così i fumi emessi dalle ciminiere e dai tubi di scappamento diventano un valore economico da scambiare.
«Le quotazioni di CO2 si sono attestate tra 10 e 12 euro per tonnellata - informa il direttore generale del ministero dell’Ambiente Corrado Clini -. Ma non si pensi che già sono state realizzate compravendite. Siamo nella fase iniziale, quella in cui alcuni brokers , gruppi di intermediari sorti attorno a questo mercato, stanno cercando di individuare i soggetti che hanno già la capacità di vendere e quelli che invece cominciano a pensare di acquistare».
Se ci si limita ai 25 Stati dell’Unione Europea, si calcola che la borsa dell’aria calda potrebbe fare girare almeno 15 miliardi di euro ogni anno, coinvolgendo 12 mila impianti industriali, grandi e piccoli, di cui circa mille in Italia. In pratica ciascun impianto deve avere assegnato dal proprio governo un tetto di emissioni annuali di CO2 a cui dovrà attenersi: se risparmia guadagna crediti, se sfora paga multe o acquista quote. L’Italia è in ritardo con la definizione del piano di assegnazione delle quote di emissione alle proprie aziende e lo ha riformulato secondo le richieste della Commissione UE. «Ma entro un paio di mesi partiremo anche noi», annuncia Clini.
«Fra gli europei chi parte in posizione di vantaggio è sicuramente la Germania: doveva ridurre del 21%, ha già raggiunto il 18% e tutto lascia intendere che potrà acquisire molti crediti da vendere sul mercato. L’Italia, invece, che doveva ridurre del 6,5% ha aumentato di almeno il 7 e molto probabilmente dovrà acquistare molte quote - osserva Aldo Iacomelli segretario generale dell’International Solar Energy Society Italia -. Però il nascente mercato del carbonio offre alle aziende l’opportunità di aumentare i ricavi, di migliorare il ritorno degli investimenti e di prendere in considerazione le energie rinnovabili fino ad oggi considerate, a torto, una opzione troppo costosa e non matura».
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