Prima che sia troppo caldo
mondiale. Parola dell’ambientalista Lester Brown.
Che ha tre idee per salvarci
Brown fu uno dei primi al mondo ad affrontare con approccio scientifico i
problemi del rapporto tra economia e ambiente: nel lontano ’74, con il
sostegno della Fondazione Rockefeller, fondò il notissimo Worldwatch
Institute, ente di ricerca totalmente dedicato allo studio dei problemi
dell’ambiente che ogni anno redige lo State of the World, rapporto sullo
stato di salute del nostro pianeta edito in venti lingue, bibbia per
ecologisti ed economisti ambientali. Da giovane coltivatore di pomodori nel New Jersey, plurilaureato, ha esordito come consulente per il
dipartimento Usa per l’Agricoltura, dando inizio a una carriera fulminante,
ricca di incarichi sempre più prestigiosi fino alla creazione, nel 2001,
dell’Earth Policy Institute, centro di ricerca mondiale per la definizione
di una “road map” dello sviluppo sostenibile. Lester Brown è stato anche
consulente di John Kerry nell’ultima campagna elettorale. Oggi lancia un
allarme preciso: «I cambiamenti climatici porteranno tra breve a una crisi economica mondiale».
Lei pronostica che l’effetto serra farà raddoppiare i prezzi dei prodotti
alimentari: perché, professore?
Sono due le nuove emergenze che gli agricoltori si trovano ad affrontare: la carenza d’acqua e l’innalzamento della temperatura globale. La richiesta di cibo nel mondo è triplicata nell’ultimo mezzo secolo, e con lei è triplicata la richiesta di irrigazione. Le falde acquifere diminuiscono e i pozzi si prosciugano. Basti pensare che noi beviamo circa quattro litri al giorno di acqua sotto varie forme, bevande, succhi, minestre. Ma produrre il cibo che ognuno di noi consuma richiede l’impiego di oltre 2000 litri d’acqua al giorno: una cifra mostruosa. In India, uno dei maggiori produttori di cereali al mondo, già oggi 21 milioni di ettari di aree agricole usano il pompaggio da falde profonde e circa la metà dell’energia elettrica prodotta nel Paese serve solo per pompare acqua. Carenza d’acqua significa carenza dicibo a breve termine. È una connessione direi del tutto ovvia, eppure sono ancora in pochi a coglierla.
E la crescita della temperatura globale come influisce sull’agricoltura?
Studi recenti hanno dimostrato che per ogni aumento di un grado centigrado durante la stagione della coltura si ha una diminuzione della produzione del 10%. Un esempio? Il grande caldo dello scorso anno ha diminuito del 32% i raccolti di otto Paesi europei. L’Ipcc, la commissione internazionale sui cambiamenti climatici dell’Onu, ha previsto un aumento della media delle temperature mondiali nel prossimo secolo tra l’1,4 e i 5,8 gradi centigradi. È facile fare i calcoli. Ma c’è un altro elemento che ci costringerà a riscuoterci dall’inerzia in tempi più brevi del previsto.
A che cosa si riferisce?
All’entrata della Cina nel mercato internazionale, che porterà a un drammatico aumento dei prezzi del cibo. La Cina però è uno dei maggiori produttori agricoli al mondo. Lo era. Ma con l’industrializzazione rapidissima di questi anni il trend si è invertito. L’anno scorso ha avuto un deficit di 8 milioni di tonnellate di grano e l’anno prossimo si prevede che salirà almeno a 10, senza contare riso e orzo. Finora ha colmato questo calo attingendo alle sue riserve cerealicole, che erano imponenti, ma oggi sono quasi esaurite. Quando entrerà sul mercato con il suo attivo economico di 120 miliardi di dollari rispetto agli Stati Uniti, abbastanza per comperare il doppio dell’intero raccolto Usa, i prezzi del cibo cresceranno in modo esponenziale. Questo creerà una situazione geopolitica del tutto nuova, si destabilizzeranno i Paesi poveri che importano cereali, si avranno ripercussioni sull’indice
della borsa Nikkei, sul Dow Jones e così via.
Che tempi prevede? Quando potranno verificarsi questi scenari?
Nei prossimi due-tre anni si avrà un aggravamento serio della situazione e, superata una certa soglia, le cose evolveranno in modo molto rapido.
Potrà cambiare qualcosa con l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, ora firmato anche dalla Russia?
Il Protocollo di Kyoto è un passo politico importante, ma nasce già vecchio. Non ha un’influenza reale sulla stabilizzazione del clima: per raggiungere l’obiettivo bisognerebbe ridurre le emissioni di anidride carbonica non del 5, ma del 50% in dieci anni.
Eppure nel suo ultimo libro, Piano B. Una strategia di pronto soccorso per la terra (uscito in Italia a settembre, per le Edizioni Ambiente) lei non
dispera, e anzi propone precise strategie. Quali sono le sue idee?
Primo: aumentare la produttività dell’acqua da subito. Dopo il 1950
l’aumento della produttività della Terra è stato straordinario. Abbiamo
concentrato studi e investimenti e siamo passati da una media mondiale di 1,1 tonnellate per ettaro alle 2,7 tonnellate del 2000. Per misurare la
produttività dell’acqua, invece, oggi non abbiamo neppure degli indicatori
veri. Secondo: frenare la crescita della popolazione il più presto
possibile. Ma non con campagne forzate di riduzione della natalità, bensì
con investimenti per l’assistenza alle nascite e il miglioramento della
condizione di vita delle donne, una istruzione scolastica universale,
l’assistenza sanitaria nei villaggi dei Paesi più poveri. L’Onu ha calcolato
che per farlo sono necessari 62 miliardi di dollari all’anno, meno degli 87
miliardi spesi quest’anno per la guerra americana in Iraq. Terzo: ridurre le
emissioni di carbonio del 50% in dieci anni. Prima di tutto riducendo la
richiesta di energia con semplici miglioramenti tecnologici. Un esempio?
Sostituire tutte le lampadine incandescenti con quelle fluorescenti compatte farebbe risparmiare il 30% di energia. La diffusione di auto ibride, come la Toyota Prius (oggi molto venduta negli Usa, ndr), che fa 22 km con un litro e nel traffico cittadino si spegne funzionando a elettricità per riaccendersi solo sopra i 40 km orari, permetterebbe di ridurre della metà la richiesta di benzina in dieci anni. Poi aumentando le fonti rinnovabili, come l’energia eolica, che già oggi serve 40 milioni di persone in Europa.
L’Associazione Europea per l’Energia Eolica prevede che nel 2020 il
continente potrebbe soddisfare l’intera sua necessità di elettricità
residenziale grazie al vento.
Una riconversione di questo tipo non rischia di richiedere troppo tempo rispetto a quello che ci rimane?
Guardi, mentre svolgevo le ricerche per scrivere Piano B ho riletto un po’
di storia economica della Seconda guerra mondiale, e mi ha fatto riflettere.
Dall’aprile del ’42 alla fine del ’44 si vietò la produzione e la vendita di
auto private. L’intera industria automobilistica americana fu riconvertita
nella produzione di armi, carri armati, aeroplani e pezzi di artiglieria. E
tutto questo avvenne non in anni, ma in pochi mesi. Se le cose si vogliono
fare, si fanno. Allora ci riuscimmo perché avevamo paura.
Le politiche attuali però non sembrano andare esattamente in questa
direzione. Come vede i prossimi quattro anni di George W. Bush alla Casa Bianca?
Bush non solo non ha portato avanti i programmi avviati da Clinton, ma è
addirittura ritornato indietro all’epoca di Nixon. Credo però che gli eventi
saranno tali da costringere a un cambiamento della politica americana
sull’ambiente, esattamente come l’attacco dell’11 settembre ha spinto a
reagire con un’enormità di risorse contro il terrorismo.
Si possono paragonare le due cose?
Il terrorismo ha ucciso migliaia di persone ed è stato tremendo. Ma una
crisi alimentare mondiale potrebbe ucciderne molti milioni. Se Bin Laden e i suoi colleghi riusciranno ancora a distogliere la nostra attenzione dai
problemi ambientali come hanno fatto ora, mettendo in pericolo il nostro
futuro, potranno raggiungere i loro scopi in un modo che nemmeno loro
avrebbero mai immaginato.
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