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Il dono del cibo

La prima cosa da ammettere riguardo al cibo è che esso costituisce la base della vita. Il cibo è vivo: non consiste solo in carboidrati, proteine e sostanze nutritive, ma è un essere, un essere sacro.
14 gennaio 2005
Vandana Shiva

Pomodori

Il commercio oggi non riguarda più lo scambio di cose di cui abbiamo bisogno e che non possiamo produrre da soli ma ci obbliga ad adeguarci a un mondo in cui profitto e avidità sono i principi regolatori: quanto maggiore è il profitto, tanto più aumentano fame, malattie, distruzione della natura, del suolo, dell’acqua, della biodiversità.
La prima cosa da ammettere riguardo al cibo è che esso costituisce la base della vita. Il cibo è vivo: non consiste solo in carboidrati, proteine e sostanze nutritive, ma è un essere, un essere sacro. E non solo il cibo è sacro, non solo è vivente, ma è il Creatore stesso, quindi è per questo che persino nella più povera delle capanne indiane si può assistere all’adorazione della piccola stufa di terracotta; il primo pezzo di pane viene dato alla mucca, poi occorre vedere chi altro ha fame lì intorno. Per usare le parole dei testi sacri dell’India:“Chi dona cibo dona la vita”, e in realtà dona anche tutto il resto. Quindi, colui che desidera la prosperità in questo mondo e nell’altro dovrebbe sforzarsi in maniera particolare di donare il cibo.

Dato che il cibo costituisce la base della creazione, esso è la creazione e anche il Creatore. Ci sono doveri e doveri che dovremmo compiere riguardo al cibo: se le persone hanno di che mangiare, è proprio perché la società non ha dimenticato questi doveri; se le persone hanno fame, allora la società ha respinto i doveri etici legati all’alimentazione.

L’intrinseca possibilità della nostra sopravvivenza è basata sull’esistenza di ogni genere di esseri che ci hanno preceduto – i nostri genitori, la terra, il verme – ed ecco perché nel pensiero indiano l’atto di donare cibo è stato considerato come sacrificio di ogni giorno che dobbiamo compiere. È un rituale incarnato in ogni pasto, che riflette la consapevolezza della donazione come condizione essenziale del nostro essere: donare non è un extra, noi doniamo per la nostra interdipendenza con la totalità della vita.

Una delle mie immagini preferite dell’India è il kolam, un motivo decorativo che le donne realizzano di fronte alla propria casa. Nei giorni di Pongal, che è la festa del raccolto del riso nell’India meridionale, ho visto donne alzarsi prima dell’alba per creare una meravigliosa opera d’arte, sempre fatta con il riso, fuori dalle loro case. In realtà, questo lavoro viene realizzato allo scopo di nutrire le formiche, ma è anche una bellissima espressione artistica che si è tramandata da madre a figlia e, nel periodo della festa, ognuno cerca di fare il migliore kolam a titolo di offerta. In questo modo, cibo per le formiche e opera d’arte diventano una cosa sola.

La patria della varietà di riso Indica è una zona tribale chiamata Chattisgarth, in India. Devo esserci andata per la prima volta circa quindici anni fa. Le persone del posto intessono bellissimi motivi fatti con il riso, che poi appendono fuori dalle proprie case. Pensavo che dovese essere legato a una ricorrenza particolare, e chiesi quindi: “Per quale festa è?”. Dissero: “No, no, è per la stagione in cui gli uccelli non possono prendersi i chicchi di riso nei campi”. Stavano preparando il riso per altre specie viventi, in forma di bellissime offerte nate dal lavoro artistico.

Dato che siamo debitori per le nostre condizioni di vita a tutti gli altri esseri viventi e alle altre creature, l’atto del donare – alle specie umane e non umane – ha ispirato l’annadana, il dono del cibo. Tutti gli altri accordi etici nella società vengono onorati se ognuno si impegna quotidianamente nell’annadana. Secondo un antico detto indiano: “Non c’è regalo più grande dell’annadana, l’atto di donare il cibo”. O ancora, nelle parole dei testi sacri: “Non congedare nessuno che arriva alla tua porta senza offrire a lui o a lei cibo e ospitalità. Questa è la disciplina inviolabile del genere umano, perciò conserva grande abbondanza di cibo, adoperati in ogni modo allo scopo di assicurare tale ricchezza e annuncia al mondo che questa abbondanza di cibo è pronta per essere condivisa da tutti”.

In questo modo, dalla cultura del dono si ottengono le condizioni per l’abbondanza e la condivisione di ognuno.

Se guardiamo attentamente a ciò che sta accadendo nel mondo, sembra che noi abbiamo sempre più cibo in eccesso, mentre 820 milioni di persone ancora muoiono di fame ogni giorno. Da ecologista, vedo questi surplus come pseudo-surplus, che sono tali perché le abbondantissime scorte e gli scaffali stracolmi dei supermercati sono il risultato di sistemi di produzione e distribuzione che sottraggono cibo ai deboli e agli emarginati, oltre che alle specie non umane.

L’altro giorno sono passata per il reparto alimentare di Marks & Spencer e sono rimasta stordita nel vedere tutto il cibo che c’è lì, perché sapevo che, per esempio, un campo di riso di un contadino avrebbe dovuto essere convertito in una piantagione di banane per ricavare succulenti frutti per i mercati mondiali. Ogni volta che vedo un supermercato, vedo come la capacità di ogni comunità ed ecosistema di venire incontro ai suoi bisogni di cibo sia continuamente minata, poichè poche persone al mondo possono fare esperienza di “surplus” alimentari.

Si tratta tuttavia di pseudo-surplus, che porta ad avere 820 milioni di persone malnutrite, mentre molte altre mangiano troppo e diventano malate oppure obese.

Vediamo come viene prodotto il cibo. Per avere riserve di cibo sostenibili è necessario che i nostri terreni funzionino come sistemi viventi: abbiamo bisogno di tutti quei milioni di organismi del suolo che lo rendono fertile, e che la fertilità ci dia alimenti salutari. Nelle culture industriali dimentichiamo che è il verme a creare la fertilità del terreno; crediamo invece che questa possa venire dai nitrati (il surplus delle fabbriche di esplosivi), che il controllo degli insetti nocivi non derivi dall’equilibrio di diverse colture che ospitano diverse specie, ma dai veleni. Quando si ha invece il giusto equilibrio, gli organismi non diventano mai nocivi: coesistono tutti, e nessuno di loro distrugge il raccolto.

Il rapporto della FAO, recentemente pubblicato, mostra come abbiamo aumentato la produttività alimentare nell’ultimo secolo. Tuttavia, ciò che in realtà gli esperti hanno calcolato è il dislocamento della forza lavoro, guardando solo alla produttività lavorativa – elementi come quanto cibo può produrre un essere umano usando tecnologie che causano dislocamento del lavoro, dislocamento delle specie e distruzione delle risorse. Non significa che avremo più cibo prodotto per acro; non significa che avremo più cibo per unità d’acqua consumata; non significa che avremo più cibo per tutte le altre specie che hanno bisogno di cibo. Tutti questi bisogni diversificati vengono distrutti via via che definiamo la produttività sulla base della produzione alimentare per unità lavorativa.

Noi lavoriamo sulle tecnologie, basate sull’ingegneria genetica, che accelerano questa violenza verso altri esseri. Durante un mio recente viaggio nel Punjab, sono rimasta incredibilmente colpita dal fatto che là non hanno più impollinatori. Quelle persone, tecnologicamente ossessionate, stanno manipolando le colture per inserire geni della tossina Bt (il batterio del terreno Bacillus thuringiensis) nelle piante, in modo che queste rilascino tossine in ogni momento e in ogni cellula: nelle foglie, nelle radici, nel polline. Queste tossine vengono mangiate da coccinelle e farfalle, che quindi muoiono.

Noi non vediamo il tessuto della vita che stiamo distruggendo; possiamo solo vederne le interconnessioni, se abbiamo la sensibilità per coglierle. E quando ne siamo consapevoli, ci rendiamo immediatamente conto di ciò che dobbiamo agli altri esseri: agli impollinatori, ai coltivatori che hanno prodotto gli alimenti e alle persone che ci hanno nutrito quando non potevamo farlo da soli.

L’atto di donare il cibo è legato all’idea che ognuno di noi nasca debitore nei confronti degli altri esseri umani, e proprio la condizione intrinseca della nostra nascita dipende da questo debito. Così arriviamo nel mondo con un debito e per il resto delle nostre vite non facciamo che ripagarlo: nei confronti delle api e delle farfalle che impollinano le nostre piante, dei vermi, dei funghi, dei microbi, dei batteri del terreno che lavorano costantemente per creare la fertilità che i nostri fertilizzanti chimici non potranno mai, mai recuperare.

Nasciamo e viviamo in debito con tutta la Creazione, e diventa nostro dovere ammettere tutto questo. Il dono del cibo è semplicemente un riconoscimento del bisogno di restituire costantemente quell’obbligo, quella responsabilità. È semplicemente una questione di accettazione e sforzo, per ripagare i nostri debiti nei confronti della Creazione e delle comunità delle quali facciamo parte. Ed è per questo motivo che gran parte delle culture che intendono l’ecologia come un sacro dovere hanno sempre parlato di responsabilità. I diritti derivano naturalmente dalla responsabilità: una volta assicuratomi che tutti quelli della mia sfera di influenza sono nutriti, so già che qualcuno in quella stessa sfera si sta a sua volta assicurando che io sia nutrito.

Quando lasciai l’insegnamento universitario nel 1982, tutti mi dissero: “Come farai senza uno stipendio?”. Io risposi dicendo che se il 90% dell’India riesce a cavarsela senza salario, tutto ciò che devo fare è affidare la mia vita al tipo di rapporti di fiducia in cui essi vivono. Se tu dai, allora riceverai. Non si deve calcolare quanto si riceve: ciò di cui bisogna essere consapevoli è l’atto del donare. campo di grani

Nei moderni sistemi economici abbiamo anche debiti, ma si tratta di debiti finanziari. Un bambino nato in qualsiasi paese del terzo mondo ha già sul collo milioni di debito con la Banca Mondiale, che detiene ogni potere per dire a voi e al vostro paese che non dovreste produrre cibo per i vermi e gli uccelli, o persino per la gente che vive della terra: dovreste far crescere gamberetti e fiori per l’esportazione, perché fanno guadagnare soldi. E neppure tanti. Ho fatto alcuni calcoli che dimostrano che un dollaro ottenuto dagli scambi commerciali delle imprese internazionali, in termini di profitto, comporta 10 dollari di distruzione ecologica ed economica negli ecosistemi locali. Ora, se per ogni dollaro che viene scambiato abbiamo 10 dollari di costi-ombra in termini di vero e proprio furto di cibo a coloro che ne hanno più bisogno, possiamo intuire perché, via via che la crescita si incrementa e il commercio internazionale diventa più “produttivo” c’è, inevitabilmente, più fame. Le persone che avevano maggiormente bisogno di quel cibo sono proprio quelle a cui questo nuovo sistema di scambi impedisce di procurarselo: il cosiddetto libero commercio li sta privando di ogni possibilità di occuparsi dei bisogni altrui, o dei propri.

Le persone mi chiedono: “Come possiamo proteggere la biodiversità se dobbiamo far fronte ai crescenti bisogni umani?”. La mia risposta è che l’unica maniera di venire incontro ai crescenti bisogni umani è proprio la protezione della biodiversità, perché finché non ci occuperemo dei vermi, degli uccelli e delle farfalle non saremo neppure in grado di occuparci delle persone. Questa idea in base alla quale le specie umane possono venire incontro alle proprie necessità solo eliminando tutte le altre è un assunto sbagliato: si basa sul non voler vedere come il tessuto della vita ci unisca tutti, e quanto viviamo in interazione e interdipendenza.

Le monocolture producono più monocolture, ma non producono più nutrizione. Se si prende un campo e lo si semina con venti tipi di piante, si otterrà una grande produzione alimentare, ma se ognuno di quei raccolti individuali (di granturco o frumento, diciamo) viene misurato e paragonato a quello di una monocoltura, ovviamente si otterrà meno, perché il campo non è tutto coltivato a granturco. Così, passando semplicemente da un sistema basato sulla diversità a una monocoltura sostenuta industrialmente con sostanze chimiche e macchinari, automaticamente si definisce quest’ultima come più produttiva, anche se in realtà si ottiene meno! Meno specie, meno alimentazione, meno coltivatori, meno cibo, meno nutrimento. Eppure, ci è stato fatto un completo lavaggio del cervello per farci credere che quando produciamo meno, produciamo di più: è un’illusione della peggior specie.

Il commercio oggi non riguarda più lo scambio di cose di cui abbiamo bisogno e che non possiamo produrre da soli. Il commercio ci obbliga a smettere di produrre ciò che ci serve, a smettere di occuparci gli uni degli altri e a comprare da qualche altra parte.

Nel mercato oggi ci sono quattro colossi dei cereali: il maggiore, la Cargill, controlla il 70% del cibo scambiato nel mondo, e tutti gli altri giganti determinano i prezzi. Vendono gli input agricoli, dicono ai coltivatori cosa coltivare, comprano a poco dal contadino, poi rivendono a prezzi alti ai consumatori: facendo questo, avvelenano ogni anello della catena alimentare. Invece di dare, pensano a come poter asportare persino quell’ultimo pezzetto rimasto, dagli ecosistemi, da altre specie, dai poveri, dal terzo mondo. Frutta

All’inizio degli anni ’90, la Cargill disse: “Oh, questi contadini indiani sono stupidi. Non capiscono che i nostri semi sono intelligenti: abbiamo scoperto nuove tecnologie che impediscono alle api di di impossessarsi del polline”. Ora, il concetto del “dono del cibo” ci dice che il polline è proprio il dono che dobbiamo conservare per gli impollinatori, e che quindi dobbiamo coltivare raccolti che api e farfalle possano impollinare liberamente. Questo è il loro cibo ed è il loro spazio ecologico, e noi dobbiamo fare in modo di non mangiare nel loro spazio.

Invece, la Cargill dice che le api si “impossessano” del polline, perché la Cargill ha stabilito che ogni parte di polline è di sua proprietà. E, in una maniera simile, la Monsanto afferma: “Grazie all’uso di Roundup impediamo alle erbacce di rubare il sole”. L’intero pianeta trae energia dalla forza vivificante del sole, e ora la Monsanto ha in pratica detto che di essere l’unica sul pianeta, insieme ai contadini che sono sotto suo contratto, a detenere diritti sulla luce del sole – in tutti gli altri casi, si tratta di furto.

Quindi, ciò che otteniamo è un mondo che è assolutamente il contrario del “donare”, ma consiste invece nell’appropriarsi di cibo dalla catena alimentare e dal tessuto della vita; invece del dono, abbiamo profitto e avidità come massimi principi regolatori. Purtroppo, quanto maggiore è il profitto, tanto più aumentano fame, malattia, distruzione della natura, del suolo, dell’acqua, della biodiversità e tanto meno diventano sostenibili i nostri sistemi alimentari. Allora veniamo realmente circondati da un debito sempre più incolmabile: non il debito ecologico con la natura, la terra e le altre specie, ma il debito finanziario verso i prestatori di denaro e i rappresentanti di fertilizzanti chimici e sementi. Il debito ecologico è in pratica sostituito da questo debito finanziario: il dono del nutrimento e del cibo è rimpiazzato dalla realizzazione di profitti sempre maggiori.

Ciò che è necessario fare ora è trovare un modo di distaccarci da questi atteggiamenti distruttivi. Non si tratta solo di sostituire il libero commercio con il commercio equo: a meno che non ci rendiamo conto di come l’intero sistema stia portando all’avvelenamento e all’inquinamento del nostro stesso essere, della nostra stessa coscienza, non saremo in grado di realizzare quei profondi cambiamenti che ci permetterebbero di creare nuovamente l’abbondanza. Portando via tutto dalla natura, senza dare nulla, non creiamo abbondanza, creiamo penuria.

La fame mondiale rientra in questa penuria, e anche il numero di malattie legate alla ricchezza è parte di questa scarsità. Se ci ricollochiamo nuovamente nella cornice del sacro dovere dell’ecologia e ammettiamo il nostro debito nei confronti di tutti gli esseri umani e non umani, allora la protezione dei diritti di tutte le specie diventa semplicemente parte delle nostre regole e dei nostri doveri etici. E di conseguenza , coloro che sono legati agli altri perché li nutrono e portano loro del cibo otterranno a loro volta la giusta quantità di cibo e la giusta quantità di nutrimento. Così, se inizieremo con l’alimentare il tessuto della vita, risolveremo in realtà la crisi agricola delle piccole fattorie, la crisi sanitaria dei consumatori e la crisi economica della povertà nel terzo mondo.

 

Note: Vandana Shiva è Direttrice del Bija Vidyapeeth, il College Internazionale per la Vita Sostenibile, a Dehra Dun, in India.
Interverrà a una conferenza a Londra sul tema “Il futuro del cibo”, il 22 gennaio 2005. Per maggiori informazioni, tel. +44(0)208 809 2391.



Fonte: http://www.countercurrents.org/en-shiva110105.htm
Traduzione di Silvia Magi per Nuovi Mondi Media
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